Law and order all’italiana. La destra fa la destra

Forse adesso, convertito il decreto sicurezza in legge dello Stato, possiamo tutte e tutti, in special modo a sinistra, fare un esame di coscienza e dirci quanto abbiamo contribuito,...

Forse adesso, convertito il decreto sicurezza in legge dello Stato, possiamo tutte e tutti, in special modo a sinistra, fare un esame di coscienza e dirci quanto abbiamo contribuito, in tutti questi ultimi decenni, a spianare la strada ad un simile provvedimento che, di fatto, aumenta i poteri delle forze di polizia in una (il)logica repressiva diretta contro i soggetti meno tutelati e garantiti nelle carceri, così come contro i lavoratori, gli studenti, gli attivisti che manifesteranno ancora contro licenziamenti ingiusti, scuole che cadono a pezzi o grandi, faraoniche opere del tutto inutili.

Se lo faranno stando fermi davanti ai cancelli delle loro fabbriche, davanti ai portoni degli istituti e degli atenei, o in una pizza di un qualunque comune della Repubblica, rischieranno un pelo meno rispetto all’organizzare cortei per vie cittadine, su strade comunali e intercomunali, bloccando magari il traffico per qualche ora: dalle carreggiate delle grandi vie di scorrimento veloce ai binari delle stazioni si potrà essere arrestati con molta più disinvoltura rispetto alle reticenze passate. Perché ora c’è la Legge, con la elle maiuscola, e dallo Stato di diritto si passa ad una prova di Stato che reprime.

Non è nemmeno più consentito fare “resistenza passiva“. E mentre in questi giorni la notizia del trentenne morto a causa di una scarica di taser riaccende, giustamente, il dibattito in merito, la Legge Sicurezza si impone come manifesto vero della destra di governo sul piano politico, esprimendo tutto quel disprezzo che da sempre ha nei confronti del dissenso organizzato, della critica condivisa, della dialettica tra opposti. La destra liberale avrà un po’ di cittadinanza in Forza Italia, ma nel resto della maggioranza di governo è una mera chimera. Per quanto tempo anche a sinistra si è mostrata indulgenza nei confronti del securitarismo?

Grande era il timore sotto il cielo che, non parlando esplicitamente di contenimento dei reati, associandoli magari sillogisticamente al fenomeno migratorio, si perdesse un consenso ondivago, capace di spostarsi con estrema facilità dal campo conservatore e reazionario a quello progressista e sociale. Esattamente come è stato fatto con il mondo del lavoro, della giustizia e dei diritti sociali, anche i diritti civili sono stati messi sotto accusa e sotto attacco con più facilità proprio perché non è più esistita una vera alternativa alla narrazione allarmistica delle destre.

Se, da un lato, si apriva la via alle privatizzazioni selvagge, alla logica mercatista come regolatrice dell’intero interesse nazionale, prescindendo dai diritti dei lavoratori e delle lavoratrici (come, oltretutto, bussola costituzionale…), dall’altro si spianava la strada ad un impianto anti-culturale fondato su premesse completamente errate, figlie di un superficialismo totalizzante, veramente fascistizzante perché generalizzatore a tutto tondo e negazionista delle specificità di ognuno nell’ovvio e consequenziale rispetto della libertà di tutte e tutti.

Mentre l’ISTAT ci dice che i migranti non stanno sostituendo etnicamente la popolazione italiana, che i reati per omicidio diminuiscono e che le carceri traboccano di poveri cristi piuttosto che di grandi speculatori privi di qualunque scrupolo che non hanno mai pagato un soldo di tasse o hanno evaso tutto l’evadibile, la destra, forte della cedevolezza del centrosinistra su questi piani molto inclinati, è riuscita nell’operazione pseudo-nuova-cultura-nazionale. Un ciarpame di pregiudizi e di stigmatizzazioni che pretenderebbero di essere l’indirizzo neofuturistico di un millennarismo di nuovissimo conio.

L’effigie meloniana è solo l’ultimo ritratto di una serie di padri e madri molto poco nobili che si sono apparentemente smarcati dal passato che non passa, dal neofascismo per farlo diventare postfascismo e, comunque, preservare la fiamma tricolore nel simbolo di un partito che è di maggioranza ma non relativa, che è al governo ma che non è quell’invicibile armata che qualcuno oggi pensa di descrivere come l’immarcescibile presenza nella politica del Bel Paese. Bene, anzi male. Autocritica fatta? Tutto va bene, madama la marchesa? Ma niente affatto. Però, ad un certo punto, fatto il danno, bisogna anche sapervi rimediare.

Non si può sempre e soltanto recriminare il passato e impostare la modalità del gioco su “chi ha più colpe” o su “chi mi è vicino mi è più nemico di chi mi è lontano“. Si devono avere ben chiari gli errori, compiuti spesso in buona fede ma anche con quella mala attitudine che deriva dalla voglia di governismo a tutti i costi, e si deve avere altresì ben presente che una buona fetta di popolazione sopporta la politica, la vive con grande disagio, la esecra addirittura e, in questo disprezzo delle istituzioni, nascono quei mostri gramsciani che, per l’appunto, originano dai chiaroscuri dei tempi.

La Legge Sicurezza è una iattura, un impedimento oggettivo al mantenimento della democrazia repubblicana in tutto e per tutto, in un rapporto tra formalità e sostanzialità. Non che non si sia mai dovuto far fronte a tentativi di questa natura nella storia ultime dei governi tanto politici quanto tecnici. Qualcuno ricorderà leggi emergenziali, poteri speciali, strette repressive contro i No Tav, i No Ponte, i No Base a Vicenza; oppure contro i giovani di Ultima Generazione (le cui azioni eclatanti contro monumenti e opere d’arte avevano l’effetto opposto del fine che si proponevano).

Non siamo quindi di fronte ad una assoluta novità nel genere delle leggi che tentano di limitare la libertà di espressione, di manifestazione, di riunione e di condivisione delle critiche e del dissenso verso un governo o verso singole istituzioni dello Stato. Contestare un esecutivo è legittimo, ed è una sanissima pratica costituzionale: se la sovranità appartiene al popolo, significa che, non in linea di principio ma proprio nella concreta realtà dei fatti, non è il governo a dovere avere l’ultima parola su tutto ciò che ci riguarda. Ma siamo tutte e tutti noi. Nemmeno a dirlo, i referendum sono una di queste prerogative.

Cosa può fare un governo per attribuirsi poteri straordinari? Può, come sempre è avvenuto nella Storia, giustificare il tutto facendo credere che si è in una vera e propri emergenza sicurezza: l’invasione dei migranti, le città in preda al panico per la microcriminalità, spaccio, furti, omicidi, stupri, violenze di ogni genere. I senatori della maggioranza si sono prodigati, nel breve dibattito affrontato da un Senato con la spasmodica voglia di licenziare finalmente la legge-manifesto del governo meloniano, in una elencazione di turpitudini sociali da far rabbrividire.

L’ISTAT, ripetiamolo, dice tutt’altro. Certo che ci sono tanti problemi legati alla criminalità. Soprattutto a quella molto organizzata e che – guarda un po’… – non finisce quasi mai dietro le sbarre delle tanto celebrate patrie galere.  Ci finiscono coloro che sono gli ultimi anelli di lunghe catene di sfruttamento della povertà come condizione di ricattabilità, di arruolamento nelle invisibili truppe del malaffare, del contrabbando di tutto un po’, dello smercio di droghe (e tutt’altro che leggere…), di organi, di migranti, di prostituzione.

Sporchi affari che la Legge Sicurezza non andrà ad intaccare: continueranno ad essere illesi dai provvedimenti che invece la destra prevede siano adottati contro coloro che lottano per avere più diritti sociali, civili ed umani. Il senso della normativa approvata, proprio perché in aperto contrasto con l’impianto costituzionale, è degno della peggiore destra finora mai arrivata al potere in Italia. L’emergenza sicurezza c’è ed è rappresentata dal governo. Una alternativa a questo stato di cose è urgente e va costruita partendo da un consolidamento delle posizioni delle forze progressiste.

Se i referendum raggiungeranno il quorum e prevarranno i SÌ, non c’è il minimo dubbio che una spinta in questa direzione sarà automaticamente prodotta. Se, invece, sarà l’astensionismo ad averla vinta, si dovrà nuovamente ricominciare tutto daccapo, perché vorrà dire che non si è ancora riusciti ad invertire una tendenza, a tradurre in pratica il presupposto per cui la fiducia nel cambiamento non è una astrazione, un desiderio, ma un processo anche lento che dipende dalle singole volontà organizzate in partiti, sindacati, associazioni culturali e sociali.

Il punto dirimente è il tipo di alternativa che la sinistra e le forze progressiste possono e vogliono creare per un governo del Paese che sia in netta, totale discontinuità tanto con quello attuale di Giorgia Meloni, quanto con i compromissori carrozzoni di alleanze nazionali (draghiane) e di convergenze con un centro liberista che finisce col pervertire le giuste istanze di giustizia sociale che reclamano una rappresentanza a Palazzo Chigi, nell’ovvio confronto con tutte le parti sociali, con quelle del mondo del lavoro e con quelle dell’impresa.

Partendo però dal presupposto che un fronte progressista è tale se ha come rotta indiscutibile il punto di osservazione proprio del mondo delle lavoratrici e dei lavoratori, dei precari, dei disoccupati e di tutti coloro che fanno fatica a sbarcare il lunario e non le variabili dipendenti dalle fluttuazioni del mercato, gli strepiti bellicisti della NATO e l’ossessione del riarmo a discapito della sempre più povera spesa sociale. I diritti civili non possono essere gli unici diritti a cui la sinistra e il progressismo italiano possono aggrapparsi per distinguersi dalle destre.

Senza giustizia sociale, diceva Sandro Pertini, non c’è libertà, non c’è civiltà che tenga. Quindi un programma progressista deve contenere il connubio simbiotico essenziale tra diritti sociali e diritti civili: la premessa indispensabile per una completa garanzia dei diritti umani nel senso più lato del termine. La percezione popolare in questo senso è molto lontana dalle premesse appena descritte: proprio sul quesito referendario sulla cittadinanza si registrano, nei volantinaggi in piazze e strade, le maggiori ritrosie. Il timore è ancestrale, indotto dalla propaganda proprio della destra.

Paure ataviche, dell’incomprensibile, del non conosciuto, del diverso per pelle, cultura, lingua, tradizioni e religione. Il tema dell’identità è legato ancora a caratteri somatici e fisiognomici. Non ci si considera italiani se si parla italiano, se si vive in Italia, se si contribuisce alla ricchezza della nazione. Ci si considera italiani se si è bianchi, se si parla magari anche male l’italiano, se le tasse le si pagano ma, tutto sommato, si è tolleranti verso l’evasione fiscale… Strano modo di essere patrioti, di essere concittadine e concittadini. Purtroppo non è la solidarietà a prevalere sulla percezione del nemico nell’unire le forze per una società migliore.

Eppure, proprio in questa campagna referendaria che volge al termine, si è potuto assistere ad una ripresa entusiastica di un orgoglio di appartenenza: quello ad una Italia del lavoro, della dignità, dell’operosità e della solidarietà sociale, civile, umana. Tutto il contrario del programma di governo delle destre, della Legge Sicurezza e dello Stato emergenziale di polizia in cui il neoautoritarismo meloniano ci vuole, nemmeno tanto lentamente, portare. Ecco, dai contenuti referendari, partendo proprio dal disagio sociale più spinto, la sinistra e i progressisti possono ripartire per rilanciare una grande alternativa a questo e a tutti i governi precedenti.

Anche ai propri, a quelli considerati amici. Soprattutto a quelli. Così l’autocritica sarà sincera e l’unione forse, per una volta, farà davvero la forza.

MARCO SFERINI

5 giugno 2025

foto: screenshot ed elaborazione propria

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