Lavoro sotto attacco. Cgil: con Meloni deriva autoritaria

Dal decreto sicurezza al boicottaggio dei 5 «Sì» al referendum L’Italia è retrocessa nell’indice globale dei diritti dei lavoratori. Colpiti sciopero, sindacati e libertà di manifestare: il processo è globale

Non c’è solo il «Decreto sicurezza», ma anche la repressione dei diritti dei lavoratori con altri strumenti, anch’essi legali, perché votati da un parlamento, ma concepiti con la stessa logica che riduce la politica a polizia. Questo accade in tutto il mondo, e in particolare in Europa mai così repressa dal 2014, non è solo una specialità del governo Meloni.

Lo sostiene il nuovo «Indice dei diritti globali 2025» della Confederazione Sindacale Internazionale (Csi) che è stato pubblicato ieri e sarà presentato ufficialmente il prossimo 10 giugno a Ginevra in una conferenza all’organizzazione mondiale del lavoro, parteciperanno i rappresentanti sindacali dai paesi più colpiti. L’analisi che accompagna l’indice dei diritti globali parla di un arretramento della tutela dei diritti dei lavoratori («a livello 2») rispetto all’anno scorso.

Ciò dipende in particolare dalla precettazione repressiva usata in particolare dal vicepremier e ministro dei trasporti Matteo Salvini (il «Precetto LaQualunque» dal titolo de Il Manifesto) che continua ad usare una legislazione tra le più restrittive in Europa per negare in sostanza il diritto costituzione allo sciopero dei lavoratori dei trasporti, in particolare di quello ferroviario.

I sindacati confederali hanno di recente hanno siglato un accordo contrattuale nazionale che però è stato ritenuto da quelli di base, a cominciare dall’Usb, insoddisfacente rispetto a quanto hanno perso i salari in termini di potere d’acquisto. Per questa ragione Usb chiede un referendum nel settore. Sulla valutazione che ha portato alla definizione dell’Indice ha senz’altro influito la criminalizzazione crescente delle mobilitazioni e una retorica delegittimante verso le organizzazioni sindacali.

Basti pensare alla campagna di tutto il governo, e della sua maggioranza, contro i cinque Sì ai referendum sul lavoro e sulla cittadinanza dell’8 e 9 giugno che modificano norme peggiorative dei diritti sul lavoro e di quelli nella società. Pensiamo all’ultima trovata funambolica di Meloni che s’industrierà ad andare a votare ma non a ritirare la scheda al fine di boicottare il quorum.

È questo tipo di atteggiamenti che hanno spinto la Confederazione Sindacale Internazionale a parlare di «repressione» in Italia anche sui diritti dei lavoratori. Meloni rivendica infatti l’ostilità contro l’idea stessa di miglioramento, sia pure limitato, di una condizione già gravemente penalizzata da 10 anni di Jobs Act e dal razzismo istituzionale su chi vive ed è nato in Italia da genitori extra-comunitari. E, non per inciso, lavora con tutele decrescenti per di più senza la cittadinanza.

Sull’elaborazione dell’indice dei diritti globali ha pesato anche la sospensione della democrazia parlamentare a beneficio dell’uso della decretazione con il quale il governo nega ai rappresentanti dei lavoratori il diritto di discutere le sue leggi aberranti. Ciò vale ancora per il «Decreto Sicurezza» che è stato adottato bypassando il confronto parlamentare per limitare drasticamente il diritto di manifestare e rendere sempre più difficile esprimere dissenso in maniera pubblica anche dei lavoratori di imprese in crisi, in cassa integrazione o disoccupati e poveri.

La Cgil, mobilitata per l’ultima settimana di campagna referendaria in vista del voto di domenica e lunedì, ieri ha rilasciato il commento in cui ha collegato il populismo penale alle politiche del lavoro del governo Meloni. «L’Italia – sostiene il sindacato guidato da Maurizio Landini – è un caso emblematico di deriva autoritaria, risultato diretto delle politiche neoliberiste e autoritarie». Meloni «ha intrapreso un percorso di sistematica repressione delle libertà sindacali e dei diritti collettivi».

Il segretario generale della Csi Luc Triangle ha rincarato la dose. La trasfigurazione poliziesca dei diritti sociali è, a suo avviso, il frutto di una «deliberata scelta politica» in cui «governi autoritari e interessi economici ultra-concentrati hanno smantellato le conquiste del dopoguerra in materia di giustizia sociale e sindacale. L’Italia, una volta considerata tra le democrazie industriali più avanzate, oggi si trova in un gruppo di paesi segnati da ripetute violazioni, al pari di realtà in crisi democratica strutturale».

Insieme all’Italia fanno parte del gruppo altri 22 Stati tra cui diverse economie avanzate come Spagna, Francia, Portogallo, Giappone e Olanda. Ma anche Barbados, Malawi e Ghana. Tutti presi nello stesso processo. Il giurista Luigi Ferrajoli lo ha definito «demoastenia», cioè una forma patologica di democrazia, in cui il popolo è inteso come soggetto passivo non autorizzato ad attivarsi. E, quando alcuni gruppi lo fanno, sono repressi.

ROBERTO CICCARELLI

da il manifesto.it

foto: screenshot ed elaborazione propria

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