“Poco di buono“, una bellissima canzone del duo “Foce Carmosina” (Lino Rocco e Fabrizio Zanotti), tratta dal loro repertorio di sonorità contro la guerra, è stata accompagnata da un video che riprende le immagini di un film di Giuliano Montaldo che, a sua volta, traduce in pellicola uno dei primissimi romanzi sulla vita partigiana: “L’Agnese va a morire” di Renata Viganò (Giulio Einaudi editore, 2014).
Un sincretismo di opere che emozionano per quanto sono rivolte ad un periodo ormai storico che si tende a negare, minimizzare, ridurre ad un accidente quasi ingombrante su cui è nata una democrazia che sta stretta oggi a troppa gente rabbiosa, colpevole certamente di ignorare le cause dei disagi, ma anche messa nelle condizioni di essere impedita a farlo.
La Resistenza merita non solo la maiuscola come fenomeno proprio della Storia d’Italia della prima metà del Novecento, come conseguenza inevitabile di un crollo rovinoso della nazione prodotto dal regime fascista di Mussolini, ma in particolare perché, come principio della nuova società repubblicana, le tocca di essere conosciuta fin dentro i suoi anfratti più quotidiani, nelle pieghe di vite che sono diventate, loro malgrado, protagoniste proprio della Storia: anche questa con la maiuscola, quella per antonomasia.
L’Agnese di Renata Viganò è una lavandaia che vive nelle Valli di Comacchio, lì dove il conflitto, come in tante parti d’Italia, soprattutto al centro nord, arriva sprigionandosi nella violenza devastatrice delle case, dei piccoli borghi in cui i tedeschi e i fantocci fascisti sospettano (e con ragione) che si annidino per loro pericolose reti di sostegno al partigianato. L’autrice, essa stessa partigiana, ne traccia i contorni proprio fisiognomici: si possono scorgere, in una prosa asciutta ma lineare e facile da scorrere, tutti i segni del tempo che solcano le righe delle anziane e degli anziani.
Così come la icastica fulmineità delle azioni e delle scorribande che colpiscono i nemici, cercando una boccata di nuovo ossigeno libertario in un contesto di generale asfissia, di terrore, di orrore, di tortura: i suoni sono importanti. Si fissano nelle menti e ritornano di continuo: dal cigolio delle biciclette che portano qua e là i messaggi delle staffette (proprio come fa Agnese) alle esplosioni delle bombe, agli spari che attraversano l’aria fredda e indomita della malarica terra al delta del Po.
Agnese si rende conto poco a poco della dura realtà della guerra. Lei è una lavandaia, una donna abituata a trascorrere le giornate tra la fatica del lavoro e la povertà della sua casa. Gliela incendiano, le portano via il marito e lei rimane da sola, tra nebbia, neve, panni stesi e laceranti ferite che non si rimargineranno mai: «Lei adesso lo sapeva, lo capiva. I ricchi vogliono essere sempre più ricchi e fare i poveri sempre più poveri, e ignoranti, e umiliati. I ricchi guadagnano nella guerra, e i poveri ci lasciano la pelle». Coscienza, consapevolezza, rabbia e tanto dolore.
Ecco cos’è la durissima realtà del conflitto che ti sputa addosso tutta la tragedia della lotta di classe, di un Novecento che tanto si rimpicciolisce nel suo essere pregno di avvenimenti, quanto si ingigantisce nel contenere le più enormi tragedie mai viste in un lasso di tempo così breve seppure fatto di decenni e decenni. L’Agnese domina il romanzo non tanto come protagonista che compare già nel titolo, ma come vera e propria figura attorno a cui ruota quel titanico mondo bellico che, invece, sembra rendere l’indistinzione la regola comune.
I partigiani cui si lega ben presto la chiamano “mamma” e, anche così, tutto e tutti ruotano attorno a lei che, grazie alla bravura dell’autrice, non rende coprotagonisti i drammi e i protagonisti degli stessi, ma li mette ancora più in luce grazie alla straordinaria genuinità della sua lotta: per la giustizia, per la libertà, per l’emancipazione. Lei sale su una pesante bicicletta e inizia la sua attività di partigiana come staffetta. Supera posti di blocco germanici e fascisti grazie alla popolanità del suo aspetto che parla di una vita già vissuta.
Ma la guerra l’ha scovata e l’ha costretta a viverne una seconda di vita… Una vita che va pericolosamente verso una morte innaturale, dove il presagio delle pallottole che entrano nel corpo è sempre un pensiero che balena velocemente in testa e che ti si ripresenta al pari di quello che ogni giorno sei costretta ad ascoltare e a vedere con i tuoi occhi: giovani resistenti falcidiati dalle mitragliate nemiche, mentre tutto intorno la miseria dignitosa delle genti di paese protegge, in un certo senso, dalla corruttrice ostentazione del mondo superiore teorizzato dall’hitlerismo e dal mussolinismo.
Veramente da mamma di quei giovani figli di un popolo di cui fa parte, l’Agnese lo percepisce che nessuno ha voglia di morire. Non è solo un fatto riconducibile alla natura delle cose, ad un ovvio istinto di sopravvivenza: è qualcosa va oltre questa necessità più che ancestrale. Qui spunta il desiderio di poter un giorno vedere un mondo nuovo, una Italia differente dal passato: una società in cui vivere senza la paura del dire o del fare, dell’essere o del non essere qualcosa, qualcuno. Insomma, nessuno ci tiene ad essere un eroe. E nemmeno Agnese pensa, da mamma resistente, di fare qualcosa di eroico.
Si fa quello che la coscienza detta: la Resistenza è raccontata con le parole di chi la vive direttamente, mediata dalle memorie dell’autrice, ma comunque romanzata quel tanto da permetterle di essere compresa con l’onestà della narrazione che non tradisce i fatti e che aderisce pienamente all’anelito di voglia di libertà che si respirava dopo l’8 settembre 1943, dopo un ventennio di dittatura che non aveva permesso ad una generazione per intero di vivere una giovinezza senza sentire nelle orecchie il ritornello di canzoni dove le premesse della catastrofe vi erano tutte.
Agnese va avanti nonostante tutto: dopo la morte dei giovani partigiani, con la guerra che sembra non finire mai. In mezzo ad un mondo acquitrinoso, dove il cielo si confonde davvero con la terra e con il mare, là nelle valli umide che ti spaccano le ossa, trova il riscatto personale, sociale, civile e morale. Sente che un mondo sta finendo e ne sta per iniziare un altro. Percepisce che, quando passava per il paese e non diceva nulla per paura «di far ridere, di perdere anche il pane di tutti i giorni», era mortificazione, era autoafflizione.
La Resistenza partigiana diviene momento catartico, passaggio improvviso ad una realtà completamente differente da quella vissuta nell’angusta intercapedine tra l’Italietta del dopo-Prima guerra mondiale e quella grigio scura di Salò. Eppure in quest’ultima, l’Agnese e i suoi compagni partigiani vi sono completamente immersi: un pantano che insudicia tutto ciò che incontra ma da cui ci si può emendare, ripulire e tenere a debita distanza. Lo si fa stando proprio in quel contesto, separandosi solo quasi metafisicamente dal recente passato e dall’obbligatorietà dello stare nel presente.
Lo sentono un po’ tutte e tutti: quel moto ribelle non è fine a sé stesso. Non si tratta di una ripulsa nei confronti del crimine fascista e nazista. Nell’organizzazione c’è appunto il desiderio, l’anelito verso una società completamente capovolta. C’è passione e voglia di tornare davvero a vivere e, per molti, di poterlo fare per la prima volta con tutte le potenzialità delle differenze e le particolarità, caso per caso. Il romanzo della partigiana Viganò diviene quello che è fin dalle prime righe, quando il soldato proclama la fine della guerra: una voce corale.
Proprio come il fluire impetuoso del moto resistente, della ritrovata unità di popolo, del nuovo Risorgimento di una Patria che solo nella libertà trova la ragione d’essere del suo nome. I discorsi si fanno e si rifanno a vecchie impostazioni politiche e sociali del passato. Non se ne era più apertamente potuto dire… Ma ora… «C’era però chi diceva qualche cosa: il partito, i compagni, tanti uomini, tante donne, che non avevano paura di niente». L’unico timore, quello della morte, se messo a confronto con la paura costante diventa quasi un pallido fremere, un sussultare come tanti.
L’angoscia lascia spazio alla speranza e la lotta partigiana è il principio del cambiamento di un intero piccolo mondo antico, eppure anche così tremendamente e tragicamente moderno. La guerra deve terminare e l’unico modo per fare che sia così è parteciparvi: ognuno con la sua ispirazione, con le idee che persegue. Anche senza armi, anche lavando i panni ai partigiani, dando loro da mangiare, portando in bicicletta i messaggi dei comandi di zona.
Mentre l’Agnese fa tutto questo, col suo massiccio corpo imponente, travestita da popolana che tenta la riduzione mingherlina di sé stessa nel divenire solo figurativamente più piccina al passaggio dei posti di blocco, le si rimestano in testa i pensieri: «…che tutti devono avere il pane, e non solo il pane, ma anche il resto, e il modo di divertirsi, di essere contenti, di levarsi qualche voglia». Così i rapporti, seppure distesi e tesi al contempo, si nutrono di mille contraddizioni, frutto del presente di guerra che tutto travolge e non rispetta nessun sentimento. L’Agnese schiaffeggia la giovane Maria Rosa: sembra di sentirlo quel colpo.
Lo schiaffo è un moto di rabbia forse improvvisa: vede gli occhi della ragazza, forse immediatamente dopo quelli di un tedesco che sono descritti come «freddi, crudeli, opachi». Come si può amare un partigiano ed essere indulgente con i nemici al punto da andare a letto con loro? Il ricordo del marito, di Palita, deportato e morto in Germania, dopo una soffiata che rimarrà anonima ma di cui si sospetta la famiglia della Minghina, le indurisce il cuore soltanto quando ciò che ha intorno si piega al compromesso per interesse egoistico, tradendo così le ragioni di una giustizia che è nella lotta resistenziale.
Il racconto del figlio del Cencio è impietoso nel descrivere ciò che è avvenuto a Palita e ad altri. Da quel momento l’Agnese si trasforma da donna di casa a membro della banda e proclama, sentenzia: «Io i tedeschi in casa non li voglio». Non c’è più mezza misura che tenga. Pietà l’è morta, ma solo perché una nuova pietà possa nascere e riaversi dopo la negazione di ogni umanità del potere, di ogni socialità dell’essere comunità e di ogni soggettività repressa intellettivamente e materialmente per vent’anni e più.
L’Agnese così va a morire e di lei, con uno splendido tocco poetico, probabilmente nemmeno ricercato e voluto, l’autrice disegna un ultimo mesto e ugualmente immenso ritratto: caduta a terra rimase «stranamente piccola, un mucchio di stracci neri sulla neve».
MARCO SFERINI
21 maggio 2025
foto: particolare della copertina del libro
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