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Marco Sferini

La via del campo largo è giusta e non va abbandonata

Fronti e confronti
Tocca ancora, dopo l’ennesimo voto regionale e, più in generale, dopo una tornata elettorale, constatare amaramente che la disaffezione popolare nei confronti di un diritto (e di un dovere) fondamento della democrazia repubblicana aumenta smisuratamente. Nelle Marche l’astensione sale di quasi dieci punti in percentuale rispetto alle medesime consultazioni di cinque anni fa: dal 59,75% di votanti del 2020 oggi si scende al 50%. Appena appena la metà degli aventi diritto a recarsi alle urne per eleggere il Consiglio e il Presidente della Regione. E questo è il primo dato.

Senza questa premessa numerica non si può comprendere pienamente il seguito dei risultati. Proviamo a vederli nello specifico e caso per caso: la coalizione di Francesco Acquaroli ottiene 337.679 consensi, pari al 52,43%. Nel 2020 aveva raggiunto 361.186 voti, pari al 49,13%. Quella del cosiddetto “campo largo” guidata da Matteo Ricci 286.209 voti, attestandosi ben otto punti indietro rispetto all’esponente di centrodestra, al 44,44%; mentre nel 2020 l’allora candidato Maurizio Mangialardi (sostenuto da una coalizione che comprendeva centro e PD senza Cinquestelle, AVS e Rifondazione Comunista) aveva ottenuto 274.152 voti, pari al 37,29%.

In termini di voti assoluti e percentuali, viste le tante variabili e novità nello scenario politico, intercorse da un lustro a questa parte, si può ben affermare che la vittoria è indubbiamente della compagine di governo regionale uscente e che ha un chiaro risvolto propriamente politico anche sul piano nazionale, mentre il “campo largo” arranca su un livello di stabilità che è minacciata costantemente da un astensionismo non ascrivibile, nonostante tutto, soltanto agli elettori di sinistra o progressisti.

Il distacco attuale tra i due poli, in termini di voti assoluti non va letto soltanto negli ovvi termini della sconfitta da parte della coalizione di Ricci, ma va interpretato più nello specifico indagando i dati delle singole liste che si sono presentate. Scorrendo tutti i numeri, e monitorandoli alla luce della metà di un elettorato che non si reca alle urne, pare piuttosto evidente che c’è una parte di popolazione che ha ancora una certa fiducia nelle potenzialità del voto, mentre l’altra parte l’ha, se non completamente persa, quanto meno certamente volontariamente smarrita. Tutte le possibili analisi del caso sul voto devono avere questa come premessa sostanziale.

Tenendo sempre ben presente, per l’appunto, il dato eclatante dell’astensionismo di oggi, in raffronto con quello di cinque anni fa, in dati assoluti il PD passa dai 156.394 voti del 2020 ai 127.638 attuali. Ne perde quindi circa trentamila e in percentuale scivola dal 25 al 22%. Il centrodestra, non c’è dubbio alcuno, è quello che maggiormente dimostra come il travaso di voti interno tra i partiti che lo compongono sia una sciarada che si risolve quanto meno sempre con una sostanziale tenuta della coalizione. Infatti, la Lega, che nel 2020 era all’apice del salvinismo neonazionalista, con 139.438 consensi, pari al 22,38%, strapiomba oggi a 41.805 voti, pari al 7,37%, superata persino da Forza Italia che guadagna in cinque anni dodicimila voti.

Fratelli d’Italia diviene il primo partito regionale, assorbendo quasi metà dei voti in uscita dal Carroccio: se nel 2020 contava 116.231 voti, pari al 18.66% (una percentuale davvero ragguardevole già allora) oggi arriva a 155.540, pari al 27,41%. In questa ridda di numeri, occorre considerare comunque che, a fronte dell’aumento dell’astensionismo, la coalizione del campo largo accorcia percentualmente le distanze molto più di quanto non le assottigli sui numeri assoluti: il saldo negativo tra le due retrocessioni è di undicimila voti. Quindi non è qui si può rintracciare un qualche elemento di positività nel provare a dare una giustificazione al mancato strappo delle Marche al centrodestra.

Internamente alle coalizioni chi può cantare una qualche forma di vittoria sono soltanto il partito di Giorgia e Arianna Meloni e quello di Antonio Tajani. Per il resto, c’è da leccarsi le ferite un po’ per tutte e tutti: storicamente i Cinquestelle vanno sempre peggio alle amministrative rispetto alle politiche. Ma qui è una debacle vera e propria se si prendono, appunto, a paragone le ultime elezioni della Camera e del Senato. In tre anni il partito di Conte lascia per la strada oltre settantamila consensi e dal 13,58% scende al 5,08%. Non va meglio, purtroppo, nemmeno per le forze della sinistra: AVS è quella che sostanzialmente tiene (25.341 voti nel settembre 2022, 23.565 oggi).

Rifondazione Comunista insieme a Pace Salute Lavoro ottiene l’1,13% con 6.392 voti, mentre alle politiche con Unione Popolare di Luigi de Magistris era arrivata a 10.422 voti, pari all’1,37%. Non ci sono molte conclusioni qui da trarre, se non il constatare che la coalizione del campo largo non è stata oggettivamente percepita come una alternativa credibile ad un centrodestra che tiene le posizioni di partenza e le conferma consolidando al suo interno un asse tra Fratelli d’Italia e Forza Italia che pone ora la Lega di fronte alla prova del nove delle altre tornare regionali: a cominciare da quelle che riguardano Calabria, Toscana e Puglia.

Da Ancona a Roma
Il nesso tra il lavoro politico e amministrativo del governo Meloni e quello dei presidenti di regione che conquistano o riconquistano i territori dopo la prova dell’interrogazione dell’elettorato è più che altro un luogo ideale di determinazione del consenso che viene spalmato da Roma su tutta la nazione e che, quindi, ha ben poca valenza sul piano di una omogeneità, di una contiguità delle politiche stesse. Tuttavia, proprio nelle Marche, negli anni passati si è potuto assistere ad un ostinato accanimento delle destre, ad esempio, sulle politiche sanitarie private e sull’inapplicazione della legge sull’interruzione di gravidanza, demotivando le donne con l’alimentazione di enormi sensi di colpa affidati all’ascolto del battito cardiaco del futuro neonato.

Questo non ha pesato su una valutazione più complessiva della pericolosità delle deste autoritarie: il voto di domenica e lunedì scorsi è lì a dimostrarlo. Nella denuncia fatta apertamente da trasmissioni televisive che avevano colto la sproporzione della questione, l’antieticità del tutto che riprendeva la propaganda pro-vita dei più fanatici gruppi ultracattolici sedimento della destra meloniana e salviniana, c’era un messaggio sottintenso: il mancato rispetto del diritto di ognuno a decidere su sé medesimo, oltretutto tutelato da una normativa e da un principio di laicità repubblicana in questo contesto inequivocabile.

Eppure, nonostante i danni che questo governo sta facendo all’intero impianto sociale residuale di questo disgraziato Paese, non c’è un vero recupero dell’astensionismo da sinistra. Vero è che le elezioni regionali colgono aspetti molto particolari, così come quelle comunali ancora di più nella singolarità delle differenze da territorio a territorio. Ma, se si parla di influenza del voto da Roma ad Ancona in chiave positiva per la destra-destra di governo, si dovrebbe anche avere, per contro, una influenza uguale e contraria che alimenti un criticismo che induca ad andare alle urne. Invece l’astensionismo aumenta e, ormai, da due decenni domina la scena di ogni campagna elettorale che viene sopportata e non vissuta.

Il tema del logoramento della democrazia e delle sue pratiche prime di delega, di rappresentanza, di assemblearismo parlamentare, quindi di discussione e di dialettica nel rispetto reciproco, affiora con meticolosa precisione temporale ogni volta che ci si appresta al voto. Ma questa inedia non è esclusiva del momento elettorale soltanto. L’esercizio di questo diritto è percepito come un rituale stanco, privo di vere e proprie conseguenze pratiche, perché per troppo tempo si è assistito al tradimento delle cosiddette “promesse” da parte dei partiti e dei movimenti che hanno scelto, al posto della coerenza con ideali grandi e, per questo, ingombranti rispetto alla voglia di compromissioni e compromessi con i poteri strutturali dell’economia dominante.

Il campo largo di per sé, con tutte le riserve che si possono anche giustamente avere, è comunque la prova che se esiste una possibilità di scalzare questa destra dalle istituzioni di governo, questa passa per due strade che devono intersecarsi e divenire un unico viatico: il rafforzamento delle istanze sociali mediante una maggiore presenza della sinistra e la convergenza di tutte le forze antifasciste e democratiche che vogliano stabilire un piano di utilità comune, di recupero della giustizia sociale, civile e anche ambientale in una Italia in cui la prevalenza della politica va nella direzione del privato sempre e comunque.

Le contraddizioni apparenti
Il dato astensionista, secondo alcuni commentatori soprattutto di estrema sinistra, sarebbe quasi esclusivamente un rifugio (peraltro di natura qualunquista e, quindi, di destra) per tutte e tutti coloro che non aspettano altro che una nuova formazione popolare e alternativa al bipolarismo. Se si trattasse soltanto di questo, se fosse qui il punto dirimente della questione che riguarda la sconfitta storica della sinistra in Italia negli ultimi vent’anni almeno, dovremmo allora interrogarci su come mai, nonostante le molte offerte politiche date tanto nelle regionali quanto nelle politiche da liste che, per l’appunto, si ponevano in alternativa ai poli, non si è determinato un riscontro fattivo, concreto, un nuovo “zoccolo duro“.

Le motivazioni della retrocessione progressista sono qualcosa di un po’ più articolato e serio di una disaffezione esclusivamente improntata sulla rabbia nei confronti del ceto politico tanto dei centrosinistra quanto di centrodestra. A partire dagli anni Novanta del secolo scorso c’è stata una mutazione culturale e sociale profonda. Il liberismo ha imposto dei cambiamenti radicali, molto più radicali dei programmi, delle proposte e dei progetti che, come comunisti, avevamo: le 35 ore di lavoro a parità di salario qui in Italia non sono mai state una rivendicazione su vasta scala. A cominciare dal sindacato che non ha fatto leva in merito quando avrebbe invece potuto; inseguendo così una concertazione che era divenuta la sostituta della contrattazione.

Ma, senza andare troppo indietro nel seppure recente e contemporaneo tempo, pare piuttosto chiaro oggi che la fase di costruzione di una nuova narrazione antisociale mascherata da programma di difesa nazionale è al primo punto dell’azione del governo centrale così come delle amministrazioni regionali guidate dalla destra. Non rendersi conto, da sinistra, che questo pericolo di mutazione genetica della Repubblica è in atto, non è soltanto una grave miopia politica; è prima di tutto una ingenuità, una voluta inconsapevolezza che tenta di giustificarsi con i grandi orizzonti di un cambiamento epocale globale che non avverrà mai se non ripartiremo dalle comunità locali, da quel “basso” che tante volte invochiamo e che così poco conosciamo.

Il lavoro di coesione e compartecipazione deve continuare per la sinistra di alternativa, per Rifondazione Comunista che ha il compito di essere la rappresentante dei bisogni più emarginati dai programmi e dalle volontà politiche. Se il fronte progressista può essere composto da una sinistra moderata e da un centro moderato, a bilanciare questa moderazione serve un asse riconoscibile di forze che si leghino ad un progetto comune entro una cornice altrettanto comune, più ampia, per battere le destre, per scongiurare il peggio del peggio all’Italia del mondo del lavoro, del precariato, della scuola e della sanità pubblica. Questa parte tocca a chi ha conosciuto più sconfitte di altri e, quindi, non dovrebbe averne paura.

Ma, recuperando proprio le forze rimaste, rilanciare una proposta condivisa nel rispetto delle differenze e, quindi, adoperarsi per una risoluzione delle contraddizioni. Soprattutto quelle apparenti: nulla osta, infatti, a che si possa essere modernamente progressisti e alternativi e unitari al contempo. Non esiste una soluzione che, oggi, si possa dire migliore di un’altra. Il purismo isolazionista non ha pagato e non pagherebbe nemmeno oggi. Non esiste nemmeno una ricetta vincente senza dubbio alcuno. Le Marche lo hanno reso evidente. Ma la strada del campo largo è quella comunque, al momento, giusta.

Lo dobbiamo all’Italia della povera gente, di chi non sbarca il lunario, di chi ogni giorno lotta contro una sopravvivenza sempre più insostenibile. Solo una piattaforma programmatica di vera giustizia sociale può essere la vera alternativa: ma, insegnava qualcuno più consapevole di noi di tutto ciò, non può esistere senza una vera libertà civile, morale e culturale.

MARCO SFERINI

30 settembre 2025

foto: screenshot ed elaborazione propria

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