Cominciamo col dire che di pace vera a Gaza non si tratta perché i palestinesi non sono stati coinvolti in questo processo di accomodamento delle questioni che riguardano lo scontro tra Israele ed Hamas. La logora Autorità Nazionale Palestinese ha preso atto del piano di Trump, ha ringraziato il presidente americano e si è detta convinta che da ora si debba proseguire sulla via del riconoscimento dello Stato di Palestina. Hamas è stato costretto certamente dalla disfatta militare a piegare la testa: ma più per gli attacchi subiti dalla sua dirigenza al di fuori della Striscia più che per l’annientamento delle sue milizie entro i confini di Gaza.
È assai probabile che Netanyahu avrebbe continuato ancora il conflitto, l’aggressione e l’azione genocidiaria contro la popolazione gazawi, ma la misura per Trump era colma. Forse già dal 9 settembre scorso, quando il premier israeliano, con una azione veramente spropositata (ma degna della sua famigerata fama di aggressore a tutto spiano) aveva colpito in Qatar il palazzo in cui si trovavano i dirigenti del movimento di resistenza islamica per assassinarli proprio durante la fase dei colloqui per arrivare ad una tregua. Quello è stato forse il punto di svolta nella considerazione data da Trump al proseguimento indefesso del sostengo a Netanyahu e al piano di evacuazione dei palestinesi da Gaza.
Dopo 735 giorni di omicidi a tutto spiano, di uccisioni oltre ogni diritto di rappresaglia (che mette comunque sempre un po’ i brividi); dopo aver ridotto Gaza ad un cumulo di macerie e averne fatto veramente un deserto tacitiano su cui edificare una ipocrita e cinica pace; dopo aver costretto allo sfollamento centinaia di migliaia di persone, attanagliate da una inedia che ha mietuto vittime soprattutto tra i più fragili, tra donne, anziani e bambini, dopo questa immensa carneficina, questa spietata pulizia etnica, oggi i carnefici si intestano per primi il merito della fine dei bombardamenti e il raggiungimento di quella che chiamano PACE, scrivendola a caratteri cubitali sui propri siti, sui manifesti…
Ha deciso Trump: ha imposto a Netanyahu un accordo che, come rilevano molti commentatori, era già stato scritto in questi termini oltre un anno fa ma che, allora, non era stato messo in pratica perché il genocidio, pur essendo già stato messo in pratica, non aveva le proporzioni epocali che ha poi raggiunto e, soprattutto, l’opinione pubblica mondiale e la rimostranza di tanta parte dei governi sia occidentali sia di altre parti del pianeta non si era fatta così massiva. La spinta dal basso c’è stata: i grandi cortei e le manifestazioni di queste settimane anche in Italia e in molte altre parti del globo, hanno indispettito prima e preoccupato poi gli esecutivi che sono stati colti in contropiede da una ripresa del movimentismo critico.
In questo senso, la grande marea Pro-Pal ha avuto come effetto quello di indurre le cancellerie a ricercare una soluzione che evitasse, ad esempio, le spedizioni politiche ed umanitarie delle flotille che, riconosciamolo, sono state il vero motore della discesa nelle piazza di una gioventù che ha fatto della causa palestinese il paradigma di un senso represso di ingiustizia che finalmente è venuto fuori guardando tutta la disumanità, la crudeltà e l’ostinazione ad annientare innocenti esseri umani in quel di Gaza, come nella repressione coloniale in Cisgiordania o le aggressioni da parte di Israele ad altri Stati: dal Libano alla Siria, per citare due esempi di fronti tutt’ora aperti.
Ed è proprio in questo frangente che Netanyahu non può dirsi vincitore di nulla: il suo governo rischia di traballare a causa del dissenso dei ministri messianici Smotrich e Ben-Gvir nei confronti del piano di Trump. La scadenza della legislatura lo vedrà comunque al varco del giudizio popolare tra non molto. I processi che lo attendono, oltre alle accuse internazionali di crimini contro l’umanità sono appuntamenti apertissimi. Gli obiettivi dell’aggressione a Gaza, ossia l’annientamento di Hamas, la messa in sicurezza di Israele e il rilascio degli ostaggi non sono stati raggiunti in due anni di conflitto.
I capi dell’organizzazione islamica andranno in esilio e l’esercito israeliano si ritirerà gradualmente dalla Striscia (ma per ora ancora nella Striscia, conservandone il 53% del controllo del territorio). Il futuro immediato di Gaza sarà affidato ad un mandato internazionale sotto l’egida trumpiano-blairiana e Netanyahu sarà forse costretto a riconsiderare la sua maggioranza di governo per rimanere a galla almeno fino alla prossima tornata elettorale. Non si può proprio parlare di pace: semmai di un cessate-il-fuoco permanente, di una tregua, si spera, senza soluzione di continuità che permetta l’ingresso degli aiuti umanitari e che ripristini un minimo di diritti fondamentali, umani e civili.
I fronti aperti da Israele rimangono tutti letteralmente aperti: l’Iran ha ancora missili a lunga gittata capaci di raggiungere il territorio dello Stato ebraico; gli Houthi hanno dimostrato anche ultimamente di essere in grado di fare altrettanto, seppure con una minora capacità di fuoco. Hezbollah, decapitato della dirigenza, non è tuttavia stato distrutto e vive militarmente e politicamente una fase di riorganizzazione in un evidente depotenziamento delle proprie strutture. La condizione dello stato siriano lascia tutt’altro che tranquilli sul fronte del Golan. Dove sarebbe dunque la stabilità promessa dal gabinetto di guerra in un Medio Oriente ridisegnato secondo gli standard di Tel Aviv?
Terminato il conflitto a Gaza, se anche Hamas sarà messo nella condizione di non nuocere più, senza una soluzione del problema palestinese affidato soprattutto ai palestinesi, riconoscendo loro il diritto di fondare la loro repubblica nel Territorio occupato dal 1967, non potrà mai esservi veramente pace tra i due popoli. Il terrorismo emergerà nuovamente e in forme differenti: non si chiamerà più Hamas, si attribuirà un’altra sigla, forse non più religiosa, forse laica, ma imperverserà in una lotta per la liberazione della Palestina che dura da troppo tempo e che deve poter vedere la sua fine e la sua logica conclusione, dopo settantamila morti e quasi duecentomila feriti, nella formazione dello Stato, nel riconoscimento pieno dell’indipendenza tanto dei gazawi quanto dei cisgiordani.
Non vi sarà mai pace se nella West Bank, nella terra ad ovest del Giordano, non si avvierà la decolonizzazione completa di quelle che Israele considera ancora oggi le province di Giudea e Samaria, riportando indietro l’orologio della Storia a tempi veramente biblici che nulla hanno più a che vedere con il dopo-mandato britannico e ancora di più con la stretta attualità dell’oggi. Settecentomila coloni israeliani devono lasciare la Cisgiordania e rientrare in Israele. Senza questo secondo presupposto, oltre a quello della completa evacuazione militare da Gaza, non può dirsi pace nessun accordo, nessun piano anche se deciso in contesto (pseudo)internazionale.
Le pressioni per arrivare a quello trumpiano sono certamente state molte: Turchia e Qatar sul fronte Hamas, essenzialmente gli Stati Uniti su quello di Israele. Ed è oggettivo il fatto che per entrambi gli attori sulla scena di questa immane tragedia si era già andati oltre un punto di non ritorno che rischiava, se prolungato nel tempo, di far perdere completamente la cognizione degli interessi reciproci in un massacro in cui ad avere la peggio sarebbero stati (come lo sono stati fino ad oggi) i palestinesi. Per primo l’esercito israeliano avrà condiviso il cessate-il-fuoco: le cronache affermeranno o smentiranno, ma è lecito pensarlo visto che, già parecchio tempo fa, i capi delle IDF avevano manifestato la contrarietà alla ostinata pianificazione della totale occupazione militare della Striscia.
Brilla per assenza, purtroppo, l’ONU che è ridotto ad essere presente con i camion di aiuti umanitari ma che non ha alcuna voce nel piano di Trump: nemmeno nell’interposizione tra le forze in campo, tra l’esercito di Tel Aviv e le milizie di Hamas. Non saranno infatti i caschi blu a mettersi di traverso tra le fazioni in lotta, ma duecento militari statunitensi che verranno mandati in loco per gestire – così fanno sapere dal Pentagono – la fase del ritiro da parte israeliana e prevenire attacchi tanto dall’una quanto dall’altra parte. Di certo c’è che la tregua, se avrà i connotati della permanenza e della stabilità, aprirà nuovi scenari su entrambi i fronti della secolare questione israelo-palestinese.
Non solo si riaprono i giochi internamente allo Stato ebraico, nel rapporto con una opinione pubblica che riconsidererà indubbiamente il suo grado di fiducia nei confronti del premier, ma si riaprono anche quelli in seno ad una Autorità Nazionale Palestinese che, esige il piano Trump, deve essere riformata: il che vuol dire un cambiamento di leadership, una ristrutturazione completa nel riprendere in mano la gestione dell’intero Territorio occupato, anche se, al momento, Gaza rimane sotto parziale occupazione militare e la Cisgiordania puntellata da centinaia di insediamenti di fanatici sionistissimi coloni.
Quello che appare ancora più evidente e che merita una dovuta considerazione è il problema della consapevolezza da parte israeliana di quanto è avvenuto in questi settecentotrentacinque giorni… Così come i tedeschi, appena dopo la fine della Seconda guerra mondiale, dovettero affrontare l’orrore dei campi di concentramento e di sterminio (dove morirono oltre sei milioni di ebrei…), gli israeliani dovrebbero essere messi a confronto con l’orrore perpetrato a Gaza, in tutta la Striscia. Con una devastazione che non cancella certamente il massacro terroristico compiuto da Hamas il 7 ottobre e che, proprio per questo, dovrebbe essere il monito di come tutto ciò che oggi Israele ha fatto a Gaza non parla di maggiore sicurezza per il popolo dello Stato ebraico e nemmeno per il resto del Medio Oriente.
Sarà necessario ripercorrere tutta la Storia del conflitto tra Palestina ed Israele per rimettere nel loro giusto posto le dinamiche che hanno condotto fino al genocidio dei gazawi: lo si può chiamare in molti altri modi, ma ormai nessuno (o quasi) nega più che in corso nella Striscia per due anni si sia perseguito da parte del governo Netanyahu, con l’appoggio della destra razzista e suprematista di Smotrich e Ben-Gvir, un piano di pulizia etnica mirante ad escludere i palestinesi dalle loro terre, ad esiliarli in massa nei paesi arabi vicini. Per dimenticarli, per creare le premesse di uno Stato tutt’altro che democratico, improntato al più severo rigore nazionalista, alla presunzione tutta religiosa dell’elezione divina del popolo ebraico.
Non si è trattato di una “risposta eccessiva“, come si sente dire da alcune parti, ma di una precisa, pervicace volontà politica intrisa di militarismo, di imperialismo, di dominazione per una eccellenza israeliana in una mediorientalità che avrebbe dovuto temere la potenza dello Stato ebraico, ancora più saldato oggi al potente alleato a stelle e strisce. Si è trattato – e forse ancora si tratta… – di un obiettivo criminale che è stato fermato (ammesso che sia così… e lo capiremo solo nei prossimi mesi) da interessi economici più importanti della cieca furia governativa israeliana contro il popolo palestinese. Se la Storia accerterà che il genocidio è stato compiuto, non dovrà solo risponderne alla memoria futura, ma i colpevoli delle stragi di civili dovranno affrontare un giudizio penale internazionale.
Nel cercare di annientare i palestinesi, Netanyahu e i suoi ministri hanno riaperto ferite che erano state chiuse dopo il secondo conflitto mondiale, rimettendo in discussione la validità del diritto internazionale, riducendolo a qualcosa di ininfluente, scansabile e trascurabile. Da qui occorre ripartire per rimettere al centro dell’agenda globale un rispetto dei diritti umani che non sia una variabile dipendente dalla forza dei singoli aderenti all’ONU, ma un principio inequivocabilmente rigido e fermo. Forze una riforma delle Nazioni Unite andrebbe, parimenti, considerata. Ma, per ora, l’attenzione deve essere su Gaza e sulla Palestina. Non bisogna abbandonare la tensione internazionale del movimento pacifista e per il disarmo, perché non si può accordare al trumpismo nessuna buona fede, nessuna fiducia.
MARCO SFERINI
10 ottobre 2025
foto: screenshot ed elaborazione propria







