La “transizione ecologica” e la miseria degli investimenti

La storia insegna ma non ha scolari. Parafrasiamo: l’attualità insegna ma non ha osservatori e nemmeno critici attenti tra le fila del governo. Se c’è una lezione che avremmo...

La storia insegna ma non ha scolari. Parafrasiamo: l’attualità insegna ma non ha osservatori e nemmeno critici attenti tra le fila del governo. Se c’è una lezione che avremmo dovuto imparare in questi due anni di pandemia, è proprio quella del rapporto tra animali umani e animali non umani e tra tutti gli animali e il resto del pianeta. Studi scientifici di ogni paese impegnato nella ricerca per lo sviluppo futuro di un unico vaccino contro il Covid-19, dimostrano che la correlazione tra le specie è ineludibile: semplicemente perché siamo tutte e tutti parte di un unico essere vivente. Gaia. La madre Terra.

L’interdipendenza tra gli abitanti della Casa comune globale è il punto di inizio di una riflessione che la scienza e la medicina mondiale hanno posto in cima alle priorità nell’analisi dei fenomeni pandemici che, sic stantibus rebus, sono destinati a ripetersi ciclicamente nel corso del secolo.

Il tema della tutela della biodiversità del pianeta è fondamentale se si vuole comprendere l’evoluzione del Covid-19, il suo “salto di specie” da animale non umano ad animale umano (all’essere umano, tanto per uscire un attimo dal linguaggio antispecista). In televisione, ogni tanto, qualche pubblicità progresso ci ricorda che dobbiamo badare agli animali, alle foreste, ai fiumi, ai laghi e ai grandi oceani dove si depredano i naturali abitanti delle acque, dove li si coltivano in grandi vasche circolari per il cosiddetto “piacere del palato“. Dall’acquacoltura agli allevamenti di bovini, suini, ovini e persino equini, fino allo sfruttamento di esseri molto più piccoli: le api. A rischio estinzione.

Ogni azione umana che riguarda il rapporto con il resto del pianeta e che si riflette sul nostro stile di vita, è accompagnata da una parola che ritorna prepotentemente nel discorso tanto comune quanto in quello più analitico della scienza: intensivo. Un aggettivo che esprime molto bene il carattere di continuità forzata di ogni alimento che deriva dalla carne di esseri viventi, ed anche di ogni produzione di legname o di sfruttamento del suolo e del sottosuolo. Allevamenti intensivi, agricoltura intensiva, estrazioni minerarie in cui vengono impiegati spesso i minori in una condizione di schiavismo che facciamo finta di non vedere (le batterie dei nostri telefoni cellulari… tanto per toccare la realtà quotidiana con mano)…

Sono tutti comportamenti che si uniformano al dettame del moderno capitalismo liberista, alla sua spinta alla produzione massiva di merci che tutto include e nulla trascura: dall’inizio del processo produttivo, dallo sfruttamento di ogni bene naturale, di ogni essere vivente, fino all’occupazione delle varie fette di mercato conseguenti. Per questo, non sorprende – ma indigna e deve indignare – che nel Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) il capitolo di spesa, a fronte anche delle altisonanti prediche draghiane sulla comprensione dei problemi dell’ecosostenibilità e sulla creazione del Ministero della Transizione Ecologica ad acta, siano andati soltanto 1,7 miliardi di euro: lo 0,8% dell’intera cifra di investimento prevista nel grande progetto di rimessa in marcia dell’Italia nel contesto europeo.

Una ben misera cifra, soprattutto se la si paragona all’enormità del problema in essere: soltanto per proteggere un patrimonio come il Po, servirebbe almeno il doppio di quanto interamente stanziato dall’esecutivo per la riqualificazione ambientale dell’intero Paese. L’impostazione appare proprio miope, molto provinciale e anche un po’ micragnosa, ma è ovviamente frutto di scelte politiche che privilegiano – liberisticamente – i fondi persi alle grandi imprese per la ripartenza dell’economia nazionale (prescindendo da un eguale trattamento per le lavoratrici e i lavoratori) piuttosto che impostare, insieme chiaramente ad investimenti massicci nella cura del territorio e dei suoi abitanti (di ogni specie), una campagna di disincentivazione al ricorso ad una alimentazione che mantenga uguale o, peggio, aumenti il consumo di carne.

L’interdipendenza, di cui si faceva cenno all’inizio, qui ritorna come una nemesi storica, una vendetta della ragione e delle ragioni dell’ambientalismo: gli allevamenti intensivi sono uno dei maggiori fattori inquinanti di ogni paese di questo povero mondo. La rivista “RollingStone” ha pubblicato in questi giorni un utile articolo che delucida bene la questione: spesso pensiamo che l’inquinamento sia solo ascrivibile alla manifestazione fenomenica, concretamente visibile e quindi oggettivissima, dei fumi che risalgono il cielo e che si mostrano come evidenze inconfutabili. Questo è l’inquinamento non eludibile, che tutti sono costretti a percepire visivamente e a inalare passivamente nei propri polmoni.

Esiste poi un inquinamento nascosto, assolutamente invisibile perché i suoi effetti si riversano non sulle nostre teste e davanti ai nostri occhi, ma nella predazione delle risorse della terra, dei mari e che appare tutto tranne che consumo indiscriminato di elementi vitali per tutte e tutti: si tratta appunto degli allevamenti intensivi, della scelta fare profitto sfruttando la domanda di carne che è non meno devastante per la nostra Casa comune di quelle auto in circolo ogni giorno nel Vecchio Continente, come ci ricorda Veronica Tosetti nel suo pezzo.

Il governo italiano invece investe pochi soldi in pochi progetti e lo fa con la volontà di chi vuole salvare le mere apparenze del caso, mostrandosi modernamente ecologista ma non bilanciando neppure con una lontana sufficienza di investimenti le promesse di adeguamento del Paese alle esigenze dell’ambiente in cui tutte e tutti viviamo (e sopravviviamo).

E’ una conseguenza di una interpretazione altamente ipocrita dell’ecologismo che, come del resto recita una azzeccatissima freddura critica, senza lotta di classe è soltanto giardinaggio. Infatti, il tutto si riduce ad una gestione delle compatibilità delle imprese e dei profitti con quelle di un rispetto per esseri viventi umani e animali, ed anche per i vegetali; laddove prima di tutto vengono le cifre dei dividendi aziendali, poi l’osservazione di ciò che dovrebbe essere giusto fare per migliorare non soltanto il nostro standard quotidiano di vita, ma pure la stabilità (si fa per dire) dell’ecosistema.

La primazia del mercato si fa sentire e, comunque, per chi conosce un po’ le dinamiche del capitalismo, è assolutamente folle pensare, perché è illusorio, che esista una correlazione di interessi tra natura e sistema economico che la sta distruggendo da due secoli a questa parte.

MARCO SFERINI

26 maggio 2021

Foto di Anastasia Gepp da Pixabay

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