La tirannia del merito

«Te lo sei meritato!» Rigorosamente affidato il finale enfatico della frase alla sacralità del punto esclamativo, questa stessa si può intendere in diversi modi. Essenzialmente, però, ne vengono in...

«Te lo sei meritato!» Rigorosamente affidato il finale enfatico della frase alla sacralità del punto esclamativo, questa stessa si può intendere in diversi modi. Essenzialmente, però, ne vengono in mente subito due: il primo riguarda il compiacimento che si esprime nei confronti di chi ha lavorato per un obiettivo e, alla fine, si è guadagnato la soddisfazione del proprio operato e magari pure un premio; il secondo, invece, è un tono di biasimo: per quello che hai fatto, ti sei meritato quanto ti è capitato.

Il merito è una lama sottile a doppio taglio e non sempre la teorizzazione dell’ideologia meritocratica è uno spunto per migliorare questa nostra società, per renderla meno ingiusta e più consona tanto alle aspirazioni del singolo quanto all’interesse collettivo. Scrive Marx nella “Critica al programma di Gotha” che le differenze naturali non possono essere il punto di partenza (e tanto meno di arrivo) per la caratterizzazione peculiare non tanto dei diritti quanto del privilegio.

In sostanza, se le nostre specifiche qualità, intrinseche al nostro modo di pensare, essere, fare, relazionarci, studiare e discernere ci fanno ottenere dei meriti, questi stessi non possono che essere considerati nell’ambito di una utilità non solo dell’individuo in quanto tale, ma di esso entro il contesto di una socialità che metta a frutto, per l’appunto, le caratteristiche oggettive delle differenze. La ricchezza particolare di ogni prerogativa che ci distingue dagli altri sta, almeno in un contesto di natura collettiva e non esclusivamente liberale e liberista, nella contestualizzazione delle disparità.

Non sempre, infatti, queste sono sinonimo di plateale negatività; almeno fino a quando non inciampano nella stigmatizzazione pregiudiziale, nella cavillosa ricerca del difforme che diviene deforme, piuttosto che del differente, così da renderlo “diverso” dalla maggioranza e non includibile in una astrusa declinazione dei comportamenti umani che devono imprescindibilmente seguire il principio di correttezza e giustezza risiedente nella tradizionalità, nella ritualità, nel conservatorismo antropologico.

Fuori da ogni schematizzazione o banalizzazione, va detto che se esiste una nazione al mondo in cui il raffronto tra meritocrazia, nepotismo e consociativismo è possibile all’ennesima potenza, perché riflette ogni giorno antichi vizi pubblici e molto poche pubbliche virtù, ebbene questo paese è l’Italia. Qui da noi, nello Stivale, la meritocrazia è afferente all’elogio più sperticato dello sgomitamento tra simili sulla base di un ipocrita principio di uguaglianza, di una linea di partenza senza distinzioni di sorta.

Don Lorenzo Milani sosteneva che fare parti uguali tra diseguali è commettere un’ingiustizia e non attribuirsi invece il merito (per l’appunto!) di considerare tutte e tutti similmente. Noi fingiamo di dare a chiunque medesime opportunità ma, poi, coloro che riescono ad arrivare ai più altri gradini della scala sociale sono molto spesso quelli che hanno maggiori disponibilità economiche: c’è chi, grazie alle proprie capacità, contraddice questo principio falsamente egualitario. Ma poi si scopre che, per poter mettere a valore questo ingegno, è costretto ad emigrare.

I cervelli in fuga sono frutto di una torsione sempre più perversa dell’economia liberale e liberista che Michael J. Sandel critica nel suo saggio “La tirannia del merito. Perché viviamo in una società di vincitori e di perdenti” (Feltrinelli, 2021). L’affermazione messa a corroborazione del titolo esplicita la volontà del libro: mostrare, più che dimostrare, il vero volto della meritocrazia in una presupponente civiltà che si attribuisce un sacco di comportamenti virtuosi su vastissima scala e che pretende, quindi, di essere eticamente preposta al giudizio delle singole attitudini.

La meritocrazia in quanto tale – sostiene Sandel – non è di per sé un valore aggiunto ad una altrettanto indimostrata funzione morale del capitalismo moderno. Non di rado capita che per raggiungere i più alti gradini della scala sociale, ad esempio nel proprio posto di lavoro o anche soltanto nell’ambito della competizione sportiva o artistica, si cada inevitabilmente in una spirale di corruzione delle proprie originarie intenzioni buone e si finisca con il trovarsi immersi nei caratteri più corrosivi che la meritocrazia impone.

Intesa come competizione senza soluzione di continuità, la meritocrazia è logoramento dell’uguaglianza di partenza prevista dalle costituzioni di Stati democratici. Non è affatto una garanzia di sviluppo complessivo della società: le regole con cui si gioca sono quelle del rampantismo competitivo che esaspera anche le più buone e nobili intenzioni di ogni studente universitario, di ogni ricercatore, di ogni specialista in un qualunque campo di lavoro e di produzione si trovi.

Qui si crea esattamente il presupposto per la generazione di una netta distinzione tra vincitori e perdenti, proprio come evidenziato dal sottotitolo del libro di Sandel. Mano a mano che prende corpo l’idea che chi prevale abbia tutto il merito per aver raggiunto un dato gradino del podio, si fa strada anche l’altra faccia della medaglia di questa falsamente solidale ideologia dell’uguale punto di partenza per tutte e per tutti. Ossia il fatto che colui che non ce l’ha fatta, di contro, meritava di non farcela.

Sempre di questione di merito, in fondo, si tratta. Si genera così un perverso gioco ispirato da un cinismo che induce al disprezzo per quelli che non sono stati in grado di superare determinate prove, di arrivare con gli altri ai più alti gradi della scala sociale, lavorativa, civile, intellettuale. Il tiranneggiamento della meritocrazia – scrive Sandel – sta in questa dinamica di esasperazione della competitività che, a ben vedere, rispecchia la contesa globale di un capitalismo in cui tutto è possibile se si hanno le risorse per poterlo rendere tale.

Il merito, dunque, è nella società dei profitti, un elemento sovrastrutturale molto bene inserito nella struttura economica che lo uniforma e lo conforma a sé stesso. Non per niente Marx, sempre nella “Critica la programma di Gotha” scrive: «L’eguale diritto è qui perciò ancora sempre (…) il diritto borghese». Qui il Moro si riferisce alla “giustezza” della retribuzione salariale, ma è del tutto evidente che questa è parametrabile a quelli che, già in allora, erano i livelli di competizione interni alle fabbriche.

Noi parliamo di “diritto al giusto salario“, ma non esiste in quanto tale; semmai esiste come variabile dipendente da fattori che hanno, in sé stessi, una serie di eterogenesi dei fini che non sempre combaciano nella strutturazione del compenso stesso. Una più o meno buona paga non dipende sempre dal rendimento e della capacità di un lavoratore o di una lavoratrice. Le mansioni cambiano, indubbiamente, ma all’interno di queste settorialità produttive delle maestranze si potrebbero ulteriormente sviluppare differenziazioni che vengono, invece, misconosciute.

Ed il tutto, si intende, nel nome dell’uguaglianza del trattamento nei confronti di tutti coloro che lavorano. Paradossalmente la classe padronale esige per l’edificazione delle proprie fortune che chi le è subordinato si adoperi secondo le proprie capacità al di là delle singole specificità e finisce col fare del merito un presupposto della peggiore ruffianeria e del peggiore tradimento dei valori e dei bisogni di classe.

Sandel sottolinea poi che le élite che detengono le proprietà dei centri di produzione e regolano i cordoni delle borse ispirano tutta una serie di comportamenti (anti)sociali e (anti)individuali nei confronti di chi rimane indietro e viene, di conseguenza, considerato alla stregua di un peso rispetto alla parte più operativa della società. «Chi è in difficoltà avverte questo disprezzo», afferma l’autore, e quindi il condizionamento non è soltanto di natura materiale ma anche psicologica.

Da questo disprezzo manifesto nasce, senza dubbio, una parte del vasto consenso popolare per forze populiste, di destre estrema come quelle reinventate in chiave repubblicana da Donald Trump e costituite a chiare lettere nel manifesto su cui campeggia l’acronimo MAGA (“Make America Great Again“). Sono le stesse forze del capitale a creare i presupposti perché un certo odio sociale si faccia strada e venga intercettato da formazioni politiche che sono le principali spalleggiatrici di un conservatorismo iperliberista.

Praticamente i moderni proletari vengono invischiati in un corto circuito che li vede indotti a dare consensi per governare i processi contraddittori dell’andamento diseguale dell’economia di oggi, proprio a coloro che ne sono i principali responsabili. Un capolavoro delle classi dirigenti, un nuovo sovversivismo che finge il rinnovamento sociale e che, invece, non fa altro se non gettare nuove fondamenta per una regolamentazione delle oscillazioni dei mercati dovute all’emersione del multipolarismo in un contesto di grave crisi ambientale.

Si pone, quindi, nell’attenta lettura del saggio di Sandel, il tema del benessere comune, dei beni comuni: da quelli naturali a quelli che possono risultare dalla trasformazione della natura stessa e che sono frutto dell’ingegno dell’essere umano. Quella che l’autore definisce la “tracotanza della meritocrazia” altro non è se non la particolare variazione del merito frutto delle proprie esperienze e del proprio ingegno con la necessità di farne uno strumento di affermazione delle capacità eccellenti di ognuno al servizio non del bene comune, bensì del profitto privato.

La meritocrazia, così, altro non può essere nel sistema capitalistico se non uno degli assi portanti delle diseguaglianze e non, invece, il primo passo per la valutazione uguale della differenti caratteristiche di ognuno di noi. Tutto vive in funzione di una economia che devasta non soltanto l’ambiente in cui tutti sopravviviamo, ma anche i più intrinseci caratteri del nostro essere più intimo e meno evidente che, tuttavia, si esprimono proprio nel genio, nelle capacità senza – quasi – eguali.

Ne consegue che, chi non riesce a farsi largo in mezzo a questa esclusiva e, quindi, escludente palestra di addestramento delle singolarità al servizio di una competitività esasperante, rimane reiettamente nell’angolo dell’indifferenza più generale, condannato ad una esistenza in cui sarà costretto a percepirsi come inutile, incapace, privo di un valore di qualunque genere e natura. La meritocrazia premia l’intuito, l’intelligenza, la fortezza d’animo, le proprietà dinamiche tanto della mente quanto della forza muscolare. Ma non per questo è sinonimo di correttezza e di giustizia.

La meritocrazia, infatti, non tiene conto di quello che è anche il lato fortuito degli eventi: per chi non riesce a far convergere ingegno e momento giusto, quindi capacità intellettive e materiali con un pizzico di fortuna, la strada della valorizzazione del proprio talento è praticamente sbarrata. La “contingenza del talento” – afferma sempre Sandel – è data non dalla nostra volontà, ma dal caso che fa incontrare ciò che ci contraddistingue in chiave di specialità e unicità con ciò che la società richiede.

La meritocrazia di per sé, quindi, non è un potere buono perché è al servizio del potere economico, della strutturazione capitalistica della società e, dunque, risponde a quei criteri che sono propri di un regime che non ha affatto intenzione di creare i presupposti per la propria autodistruzione. Il fatto, poi, che in sé viva tutte le contraddizioni possibili per la sua distruzione e, involontariamente, le alimenti (la forbice sempre più ampia tra ricchezza e povertà…), non è purtroppo così direttamente connesso con un processo di rovesciamento meccanicistico o automatico.

Il populismo generato dall’induzione meritocratica ci deve far riflettere proprio quando è l’ispiratore di grandi fenomeni di massa che si spostano su posizioni politiche antisociali che vengono, invece, lette proprio dai popoli come novità eclatanti nell’agone dello scontro tra maggioranze e minoranze, tra socialmente uguali invece che tra classi sociali, tra base e vertice della piramide antropocentrista.

Sandel offre, da questo punto di vista, molto su cui riflettere, senza alcuna pregiudiziale, senza alcuna pretesa risolutiva. Ma l’invito a pensare alle troppe certezze che abbiamo, anche e soprattutto in merito al merito e alla meritocrazia, è prezioso e va, per così dire, “capitalizzato“.

LA TIRANNIA DEL MERITO
PERCHÉ VIVIAMO IN UNA SOCIETÀ DI VINCITORI E PERDENTI
MICHAEL J. SANDEL
FELTRINELLI, 2021
€ 13,00

MARCO SFERINI

16 aprile 2025

foto: particolare della copertina del libro


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