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Marco Sferini

La “soluzione finale” contro i palestinesi al suo redde rationem

Partiamo dalle parole. Il ministro della difesa dello Stato ebraico, Israel Katz, come i suoi colleghi di governo continua a non usare mezzi termini nel descrivere la terribile situazione in cui versa Gaza: la città brucia, dice. Che è un po’ come dire: ne stiamo facendo un grande rogo finale, un sacrifico sull’altare dell’impero sionista che ormai l’estrema destra di Smotrich e Bev-Gvir va proclamando a tutto spiano: dal Golan alla Cisgiordania e infine al deserto del Negev e a Gaza. I confini del Grande Israele sono chiari e non ammettono nessuna presenza palestinese entro questo perimetro ipernazionalista e teocraticissimo.

I piani di Netanyahu e dei suoi accoliti non lasciano spazio alcuno ad una idea di consolidamento laico della democrazia: come hanno favorito l’ascesa di Hamas nell’agone della resistenza palestinese per ostacolare quello che allora era il principale nemico del momento, ossia l’Autorità Nazionale e la vecchia OLP, così oggi si impiantano nella mente e diffondo l’ideologia di una sionizzazione dello Stato, di una mutazione radicalmente genetica imposta – a loro dire – dagli eventi, dalla guerra dovuta per risposta al 7 ottobre 2023. Ma ormai di quella infaustissima data parlano più in pochi: nemmeno i ministri del governo di guerra la riprendono molto se non come pretesto per perpetuare il conflitto.

Katz evoca la realtà delle fiamme che divampano nella principale città della Striscia e aggiunge: «Non ci fermeremo fino a che tutti gli obiettivi non saranno raggiunti». Non ne dubitavamo affato. La furia distruttrice è arrivata a quella che molti commentatori, e parecchi non proprio propensi a sposare la causa della liberazione della Palestina dall’occupante israeliano, definiscono «la soluzione finale» del problema palestinese richiamando l’orrore della deflagrazione nazista contro il popolo ebraico, l’Olocausto per tristissima eccellenza perpetrato dall’hitlerismo prima e durante la Seconda guerra mondiale.

Il richiamo se non si impone, è certamente comunque indotto da un raffronto che si fa tra la brutalità di allora e quella di oggi: poche sono le differenze nelle minacce di “inesistenza” perenne di uno Stato di Palestina e nel disconoscere i fondamentali diritti umani di qualunque palestinese, considerato come un essere non soltanto teologicamente inferiore ma anche incompatibile con quella terra che Netanyahu reclama («Ci appartiene») e in cui il cinismo di Ben-Gvir conduce alla trasformazione della Striscia più martoriata del mondo in un luogo di villeggiatura così come descritto dalla squallida propaganda trumpiana.

L’offensiva di terra, preannunciata più volte, è entrata nel cuore di Gaza e nelle sole prime ore di avanzata, la notte tra il 15 e il 16 settembre, ha già fatto un centinaio di morti tra i palestinesi. L’IDF conferma il tutto mettendo a sigillo dei suoi mortiferi comunicati frasi che sono la migliore sintesi della realpolitik dell’operazione di sterminio e di appianamento di ogni struttura che ancora sia in piedi in città: «Abbiamo iniziato a distruggere le infrastrutture di Hamas a Gaza City, la città è un’area di combattimento pericolosa». Francesca Albanese, delegata dell’ONU per il Territorio occupato stima in 65.000 le vittime accertate, temendo che, a guerra finita il conteggio potrebbe arrivare a dieci volte tanto.

Sono numeri enormi che, da soli, basterebbero già per fare un salto di qualità negativa nel passare dalla considerazione della guerra israeliana contro Gaza come semplice conflitto-rappresaglia per i fatti del 7 ottobre a definirla meglio come vera e propria pulizia etnica genocida. L’intento è quello: farla finita con i palestinesi, ammazzarne il più possibile e il resto cacciarli definitivamente dalla Palestina che, quindi, sarà tutta israeliana. L’attacco dei carri armati è deciso, proposto al Segretario di Stato USA Mark Rubio e, quindi, messo in pratica. Il suggello della grande Repubblica stellata non lascia spazio ad alcun equivoco: la partita è doppia e, forse, anche tripla. La gioca l’asse Tel Aviv-Washington e forse anche alcuni Stati arabi che stanno a guardare quel che avverrà.

Il destino dei palestinesi pare segnato: nella distruzione quasi totale causata dalla guerra genocida si passerà alla distruzione di quello che rimarrà per eliminare le prove della carneficina studiata a tavolino, utile anche ad evitare che Netanyahu finisca in galera e ad un ruolo di primo piano dell’estrema destra rappresentatrice del peggior fanatismo coloniale già protagonista di mille e mille efferatezze in Cisgiordania. Se il Qatar risponde con maggiore veemenza, visto l’attacco subito e che voleva eliminare la dirigenza di Hamas (obiettivo, pare, non raggiunto), altri paesi arabi come l’Arabia sono più cauti. La vecchia amicizia con gli States, del resto, impone un approccio più defilato per tenere aperti più corridoi di interessi in una regione che, questo è certo, non sarà mai più quella di prima.

Oggi più di ieri, nessuno Stato arabo sembra essere disposto a mettersi in gioco per proteggere i palestinesi dal loro destino di morte, di esilio, di repressione continua. Del genocidio in corso si parla così timidamente, si mettono in forse le intenzioni e si negano addirittura quelli che sono i fatti intrisi di sangue di decine di migliaia di persone morte sotto i bombardamenti, oltre che degli operatori sanitari, dei giornalisti, di intere squadre di assistenza delle Nazioni Unite o delle ONG che operano nell’area del conflitto. Hamas, dal canto suo, gioca le sue ultime carte: voci da prendere con le dovute molle dicono che è attivo ancora un battaglione a Gaza pronto ad immolarsi di fronte ai carri armati di Israele.

Tutto questo avviene nella completa impossibilità di fermare Israele: il suo governo e il suo esercito fanno quello che vogliono e non rispondono a nessun dettame del diritto internazionale. Del resto, si farebbe un cattivo servizio alla Storia della questione israelo-palestinese se si tentasse anche soltanto velatamente di lasciarsi convincere dalle parole di chi afferma perentoriamente che tutto è iniziato il 7 ottobre 2023 e che Hamas raccoglie ciò che ha seminato e i palestinesi, in fondo, sono un po’ tutti terroristi… Sono settant’anni che lo Stato ebraico non rispetta una risoluzione delle Nazioni Unite e si fa beffe di tutto e di tutti.

Sono sette decenni che i suoi governi (pur con tutte le distinzioni di politica interna di cui tenere conto) proseguono nell’occupazione di Cisgiordania e Gaza. Salvo la breve parentesi sharoniana, di evacuazione coatta dei coloni israeliani da Gaza, non si è mai avuto un periodo di pace e gli accordi stipulati sono tutti, tutti quanti naufragati per responsabilità a volte bipartisan, altre volte esclusivamente di Tel Aviv. C’è quindi una vero e proprio svuotamento del diritto internazionale, sostenuto anche da una amministrazione americana che ha, tra i primi atti del Trump Atto II, delegittimato l’Organizzazione mondiale della Sanità, abbandonandola sulla scia di un antivaccinismo e antiscientismo veramente militante, e continuato a non riconoscere la Corte Penale Internazionale come arbitro di giustizia tra le nazioni.

Dunque, l’impunità israeliana per gli orribili crimini di guerra e contro l’umanità portati avanti a Gaza da due anni a questa parte (e da settant’anni nell’intero Territorio occupato palestinese) è al momento al sicuro: Netanyahu e Katz possono agire indisturbati perché il mondo guarda e non fa nulla per fermarli. Tranne la Spagna e qualche altro caso isolato, trattato dagli altri Stati come la punta di un estremismo che rasenta (nemmeno a dirlo) l’antisemitismo, gli altri governi si limitano a dichiarazioni di facciata contro gli “eccessi” del conflitto. Gli eccessi esistono dove vi è una presunta “normalità”. Qui di normale non c’è nulla. Dov’è la guerra giocata con le regole atroci di un tempo: l’equipollenza (o quasi) delle forze, il (seppur finto) non coinvolgimento della popolazione civile?

Niente di tutto questo. La lotta contro Hamas è una lotta per l’affermazione del primato israeliano su tutta la Palestina e non una rappresaglia invocabile citando l’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite in merito. Il governo italiano afferma di essere favorevole a “sanzioni più dure” per i coloni in Cisgiordania, ma non dice nulla, proprio nulla su un embargo economico che danneggerebbe Israele e, se imitato da altri Stati europei, potrebbe sì cambiare il corso degli eventi. Secondo lo Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI) che studia l’andamento dei conflitti e approfondisce il tema della recente corsa al riarmo tanto europea quanto di altre zone del pianeta, tra il 2019 e il 2023 l’Italia ha esportato verso Israele armamenti pesanti per 26.7 milioni di dollari.

Tra ciò che abbiamo venduto allo Stato ebraico vi sono: 12 elicotteri leggeri AW119 Koala e 4 cannoni navali Super Rapid da 76mm prodotti entrambi dalla Leonardo SPA. Va aggiunto a ciò il programma di “cooperazione strutturale” nel programma dei caccia F-35. In sostanza creiamo componentistica che viene utilizzata dall’aviazione israeliana. Abbiamo poi prodotto ed esportato computer industriali, lettori ottici e dispositivi per l’inserimento e l’elaborazione codificata delle informazioni. Salvo poi farci vendere e utilizzare “Graphite“, il software con cui qualcuno (non si sa ancora bene chi…) ha spiato i giornalisti di alcune testate nazionali che stavano facendo reportage imbarazzanti per il governo delle destre.

Siamo o non siamo complici della carneficina, del mattatoio, della macelleria israeliana a Gaza e delle tante repressioni violente in Cisgiordania? Sì, lo siamo. Ma dal mondo ebraico pochi alzano la voce contro tutto questo, anche in Italia. C’è una vera e propria chiusura a riccio rispetto ad una critica che dovrebbe essere, se non immediata, quanto meno elaborata dopo due anni di stermini nella Striscia, dopo 65.000 morti e centinaia di migliaia di feriti e persone scomparse, sepolte da macerie su cui i bulldozer passeranno spianando tutto e provando a cancellare la verità delle uccisioni, il loro vero numero, quella che è stata la missione genocidiaria del governo Netanyahu.

Oltre ad essere in tutta evidenza uno Stato che sparge terrore ovunque gli è conveniente e possibile, in barba ad ogni diritto umano, diritto universale, diritto internazionale, Israele è divenuto, come ha molto ben scritto Alberto Negri su “il manifesto” «uno stato-mafia» perché  «prepara una trappola e agisce come un killer verso chiunque, finge di negoziare e poi uccide i negoziatori». Qui il riferimento era all’attacco in Qatar, ma questa definizione può riguardare anche altre incursioni o tentativi di espansione della guerra in tutto il Medio Oriente. Siria, Libano, Iran, Yemen hanno sperimentato tutto ciò e, ovviamente, in alcuni casi specifici, hanno risposto.

Ciò che attende Gaza è il deserto più intriso di sangue che si sia mai visto. Con una scia ininterrotta di formiche umane derelitte, prostrate, che trascinano con sé un materasso, una coperta, poche masserizie trainate da carri con muli anche loro sfiniti per le fatiche e per la fame. Un’altra arma utilizzata per cacciare i palestinesi con la brutalità dell’inedia. Se non è una prova questa della volontà sterminatrice del governo israeliano, quale altra prova serve? Se i nazisti hanno affrontato i processi di Norimberga per i crimini contro l’umanità, per l’Olocausto e per le occupazioni dei territori prima e durante il secondo conflitto mondiale, si spera che anche i responsabili di questo genocidio un giorno siano chiamati a risponderne davanti ad una corte di giustizia che ritrovi la forza del diritto.

Di quello internazionale che comprende anche le regole che normano i diritti più elementari dei civili nel corso di una guerra che non è di rappresaglia ma di vera e propria brutale aggressione. Quei processi fatti nella Germania a pezzi, ridotta a brandelli e umiliata dall’orrore nazista scoperto con l’ingresso nei campi di concentramento e di sterminio, avrebbero dovuto servire a dare all’umanità una condivisione legale, uno stabilimento di regole civili che impedissero nuove guerre di aggressione. Non è stato così. Ma non è stato tutto inutile. Noi oggi sappiamo cos’è una volontà genocidiaria da parte di una cricca di potere che non vuole saperne di rendere conto al suo popolo e agli altri delle sue azioni.

Siccome sappiamo, non possiamo ignorare, non possiamo minimizzare e non possiamo considerare quello che oggi avviene a Gaza come un normale rapporto tra due contendenti. Da un lato c’è uno degli eserciti più armati del mondo. Dall’altro un gruppo di terroristi che non sono stati neutralizzati del tutto fino ad oggi perché gli obiettivi di Netanyahu e soci erano altri. Se la guerra non è ancora finita è perché non è una guerra ma un piano di eliminazione di un intera popolazione dalla Palestina: con le bombe, con la cacciata oltre i confini di Gaza e della Cisgiordania. Quello cui stiamo assistendo è un crimine di cui si parlerà a lungo nel corso dei prossimi decenni. Una nuova infamia sulla Storia dell’umanità.

MARCO SFERINI

16 settembre 2025

foto: screenshot tv, immagine dei bombardamenti a tappeto di Israele su Gaza nella notte tra il 15 e il 16 settembre 2025

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