La solitudine dei bambini nelle tragedie del mondo “moderno”

In mezzo ai larici, che puntano dritti verso il cielo in un declivio di mille metri, i rottami della cabina sono l’immagine devastante finale di una, al momento, inspiegabile...

In mezzo ai larici, che puntano dritti verso il cielo in un declivio di mille metri, i rottami della cabina sono l’immagine devastante finale di una, al momento, inspiegabile rottura del cavo trainante della funivia del Mottarone. Natura e prodotto umano si scontrano ancora una volta, visivamente: più guardi le foto della tragedia in cui sono morte 14 persone che erano in vacanza e a pochi metri dalla vetta, più ti rendi conto che forse la montagna vorrebbe essere trattata diversamente. Ed anche i turisti.

Il peso della solitudine di Eitan, l’unico sopravvissuto allo schianto tremendo della cabina precipitata dopo un volo di rimbalzo di oltre 30 metri e una folle corsa a 120 km orari contro un pilone della funivia, è un macigno, una tortura per chiunque è coinvolto direttamente nella disgrazia avvenuta e per chi la vive al di fuori, con gli occhi dello spettatore che però partecipa con quell’empatia umana che troppo spesso allontaniamo da noi stessi per far posto a tanti egoismi, pregiudizi e particolarismi di ogni sorta.

Un bambino rimasto praticamente solo in questo mondo dove non sei mai sicuro di poter contare sui grandi, sulle sofisticate tecnologie che dovrebbero proteggerti e magari farti vivere felice una giornata di scampagnate e di buona aria di montagna insieme a tuo padre, tua madre e i fratellini.

E’ proprio pensando ad Eitan, abbracciato all’ultimo istante dal padre e protetto in qualche modo dalla violenza dell’impatto, dalla furia distruttrice della velocità che sfilaccia non solo i cavi metallici ma prima di tutto le vite, le esistenze costruite con impegno, amore e voglia di guardare al futuro nonostante la pandemia, vengono alla mente le foto di altri bambini soli davanti alla spaventosa vertigine dei drammi mondiali: sono i piccoli rimasti da giorni (come denuncia Open Arms) sulle spiagge della Libia. Il Mediterraneo li ha cullati nella danza delle onde, fino a riva. Li ha lasciati lì: si è preso le loro vite e poi ne ha restituito i corpi gonfi e pallidissimi.

Ma il mare non ha la colpa di nulla, così come non la ha la montagna. Un errore umano può aver causato la mancata frenata che avrebbe salvato i turisti del Mottarone; un calcolo invece opportunistico, finalizzato al profitto, da parte di scafisti senza alcuno scrupolo, complice una politica sorda all’umanità che soffre e fugge, dentro un capitalismo che guarda all’espansione futura del dopo-Covid, ha invece ucciso i bimbi nei cui polmoni non c’è più aria ma solo acqua.

Eitan lotta per la vita e, probabilmente, gli rimmarrà in qualche modo impresso, nell’anfratto più recondito e personale del suo animo, il gesto amorevole del padre che ha tentato di proteggerlo, di dare al figlio una seconda vita. Nel dramma dell’incomprensibile fine della sua famiglia, il piccolo dovrà affrontare una traversata uguale a quella dei bimbi migranti che annegano nel mare e che si riversano, completamente abbandonati, sulla sabbia dell’Africa che guarda all’Europa, che spera e che trova sempre un muro di ovvietà burocratiche e di pretestuosità politico-economiche a sbarrare la strada ad una condivisione dei problemi sociali che sono un po’ di tutti.

Il mondo moderno, celebrato, esaltato, enfatizzato dalla propaganda merceologica, conserva le sue grandi sacche di dolore, di disperazione e di angoscia per un futuro dilaniato dalle bombe di guerre infinte, tribali e religiose, religiose e politiche, quasi ataviche ormai, endemicamente impresse nelle rughe della storia millenaria di continenti che sono stati colonizzati e schiavizzati, addomesticati linguisticamente e culturalmente; espropriati della loro identità e trascinati dalle rotte commerciali ad entrare con la forza nella globalizzazione avveniristica.

La funivia del Mottarone occupa le prime quattro, sei pagine dei principali quotidiani di oggi. Fa venire in mente il Cermis, anche se lì a spezzare i cavi furono le acrobazie degli aerei militari delle grandi potenze interatlantiche a difesa della sicuerezza dei popoli dal pericolo del socialismo reale (irrealizzato). Contesti troppo diversi per essere paragonati: in comune vi sono soltanto luoghi di alta montagna, una cabina precipitata violentemente al suolo e tanti, troppi morti.

Si spera che, diversamente dal Cermis, la tragedia di Mottarone possa avere verità e anche giustizia senza ombre, senza ipotesi che restano sul campo e che ingombrano il cammino verso la conoscenza piena dei fatti e di come si sono svolti.

Eitan è ancora troppo piccolo per accorgersi che la sua solitudine, certamente mitigata dall’affetto dei familiari che lo stanno raggiungendo all’ospedale e che gli staranno accanto, potrebbe essere un giorno affiancata da un altro sentimento disagevole: la rabbia per non aver mai saputo fino in fondo il perché quel cavo si è spezzato e perché il sistema di freno d’emergenza non ha funzionato.

Ogni tassello di ogni tragedia umana richiama a sé altri episodi entrati nella storia dei chiaroscuri dalle tinte gialle, dal blu notte al nero delle trame nere. Tutto si tiene, alla fine. E ciò che appare non avere nessuna correlazione con questo o quel fatto, anche molto lontano nel tempo, finisce per indurre a richiami mentali, a libere associazioni di pensiero che tracciano poi un bilancio della vita sociale, politica ed economica tanto dell’Italia quanto del resto del continente che la circonda.

A chi non è venuto in mente il crollo del ponte Morandi sentendo parlare della funivia del Mottarone? Sarebbe strano il contrario.

Le foto del piccolo Eitan con il padre e la madre, sorridenti, sono un tuffo al cuore. Così come quelle dei bimbi pietosamente messi sotto lo sguardo dell’incoscienza disumana dei carnefici che stanno sulle spiagge libiche e che comperano la vita di migliaia di persone e la vendono al destino dei flutti: non è un loro problema se annegheranno. La colpa sarà del mare, mentre le tasche si riempiranno di soldi sudati con il sacrificio di lavori schiavistici, di miserie narrabilissime che destano sempre una certa incredulità negli abitanti anche indigenti e miseri del mondo occidentale.

Siamo tutti sicuri che gli africani abbiano uno stile di vita simile al nostro: certo, soffrono la fame, ma siamo certi che vedano la televisione, che abbiano un asciugacapelli e che conoscano la radio, che vadano in macchina e in motorino. Modelli non così moderni come i nostri… Ma diamo per scontato che ormai la globalizzazione si sia fatta sentire ovunque. Ed è vero: ma non ovunque si fa sentire allo stesso modo.

Per questo anche le tragedie che investono e devastano le vite dei bambini sono cinicamente diverse e paiono privilegiare alcuni e lasciare nel completo oblio altri. Come se non fossero mai esistiti, dei piccoli africani o mediorientali che da tre giorni stanno sulla sabbia della Tripolitania non sapremo mai nemmeno il nome, perché a nessuno importa di loro…

MARCO SFERINI

25 maggio 2021

foto: screenshot

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