La sinistra laica e di classe, moderna ma non antispecista

Non proprio ad ogni morte di papa, ma comunque spesso e volentieri, e nello specifico per la triste occasione della dipartita di Francesco, si pone il tema o, per...

Non proprio ad ogni morte di papa, ma comunque spesso e volentieri, e nello specifico per la triste occasione della dipartita di Francesco, si pone il tema o, per meglio dire, il problema del rapporto tra laicità e religiosità per la sinistra. A dire il vero pare sempre più trattarsi di una sorta di riflesso condizionato dal timore di essere troppo vetusti da un lato, ancorati ad un settarismo iper identitario che fa smarrire la via del dialogo con le culture differenti da quella laica, materialista e, quindi, (se vogliamo…) modernamente marxista, e dall’altro lato troppo inclini all’abbandono proprio dell’unicità del pensiero critico libertario e comunista.

Sono tutti timori che possono essere fugati con la certezza che una parte dei cattolici da un lato e una parte dei marxisti dall’altro pensano di poterli affrontare arroccandosi nei rispettivi mondi di appartenenza: quasi dimenticando che la complessità proprio di questo mondo, attraversato dalla “Terza guerra mondiale a pezzi“, fatta di tanti conflitti regionali e con un risvolto assolutamente globale (poiché provengono dalla globalizzazione liberista), ha da tempo alterato le dicotomie novecentesche e le ha rese più fluide e dinamiche, disponendole su un piano dialettico e non necessariamente sul terreno della contrapposizione netta.

Ammesso che queste distinzioni tra cattolicesimo e marxismo, tra religiosità e laicità, tra fede e ragione, nonché tra fede e scienza possano ancora essere così intendibili e declinabili, ci si deve rassegnare al fatto che una parte dei tanti mondi del mondo sarà sempre convinta di essere nel giusto e predicherà, fideisticamente o politicamente (o in entrambi i casi), per convertire e non per capire, per convincere e non per comprendere, per sottomettere e non per condividere. Molte delle questioni che emergono nel dibattito odierno tra credenti e non credenti affrontano temi concretamente reale e non esclusivamente affidati alla metafisica, all’etereità dell’irreale e dell’ultraterreno.

Nel momento in cui si si pone la domanda se la sinistra, allorché esprime parole di stima per alcune delle prese di posizione assunte da papa Francesco, sia ancora afferente al laicismo o, piuttosto, si stia piano piano edulcorando, surrogando e trasformando in altro da sé stessa, si perde di vista il vero oggetto della critica condivisa tra cristiani di base, cattolici impegnati nel sociale e forze esattamente sociali e politiche che sono disposte a collaborare per la realizzazione di passi in avanti sul fronte della pace, del disarmo, dell’affrontare la sfida del mutamento climatico o quella davvero epocale delle migrazioni.

Non è certamente soltanto di oggi questa constatazione di una ambivalenza che sembra venire fuori nel momento in cui si stabilisce un nesso che ha i tratti della concorrenzialità su temi di vasta portata. Temi sociali, pratici, che riguardano oggettivamente la vita di tutte e tutti e che, per questo, possono, fino dove è possibile, vedere la compenetrazione tanto delle idee quanto delle forze: ci si può e ci si deve anche dividere su questioni concernenti la civiltà, l’eticità, la moralità e la cultura. Ma si dovrebbe essere tanto maturi, anzitutto laicamente e politicamente parlando, per rendersi conto che sulla povertà incedente, sulla precarietà esponenziale, sul disagio sociale e sulla crisi dettata oggi da una economia sempre più di guerra, si possono avere posizioni comuni.

Con papa Francesco, per l’appunto, eravamo d’accordo sull’accoglienza dei più poveri e derelitti di questo mondo spinto nel tunnel della globalizzazione neoliberista da quella presunta civiltà che, da mezzo millennio a questa parte, ha colonizzato il mondo partendo dall’Europa e lo ha reso schiavo, vilipendendolo, facendone una dipendenza costante dalle esigenze di una piccola parte del pianeta. Il prezzo dell’esportazione delle conoscenze raggiunte nel Vecchio continente non è stato sufficiente a ripagare i popoli sterminati e sottomessi (indiani, inca, maya, comunità tribali africane, civiltà asiatiche e sudamericane, non di meno dei nativi australiani). Quelle conoscenze noi le abbiamo esportate anzitutto per colonizzare meglio.

Quindi ogni mossa era, a partire dal Cinquecento in avanti, finalizzata al dominio europeo sul resto del mondo e, in seguito, a quello degli altri paesi che sono cresciuti grazie allo sfruttamento delle risorse manuali e materiali dei continenti conquistati e depredati. Troppo spesso dimentichiamo l’origine recente del mondo attuale: una nascita moderna, che appartiene a pochi secoli di distanza da quel futuristissimo presente che viene descritto così lontano dalla storia pressoché quasi contemporanea se stiamo alle ere, alle fasi di lungo corso che segnano la vita del cammino umano tutto improntato, oltre ogni misura, ad un antropocentrismo ferocemente antispecista.

Su questo, ad esempio, col papa non si poteva andare d’accordo. Lui considerava l’affetto per gli animali un qualcosa di peregrinamente bislacco, quasi un capriccio personale: del resto, la Chiesa cattolica è improntata al più ferreo governo maschile di sé stessa e fondata sulla concezione della missione evangelizzatrice dell’essere umano che riceve da Dio questo compito. Gli altri esseri viventi sono “creature” della stessa divinità, ma sono – secondo il dettame biblico – poste lì dal padreterno per servire l’uomo che è fatto ad immagine e somiglianza di Dio stesso. Ma anche la sinistra, non di meno quella marxista, ha ancora molto da lavorare sul fronte dell’antispecismo: riconosce la necessità della liberazione umana da sé stessa, ma si ferma qui.

Non è ancora divenuto prevalente, scostandosi dal limite tutto otto-novecentesco del pensiero critico marxista, il punto unificante della liberazione di ogni essere vivente, senziente su questa Terra: dell’uomo dallo sfruttamento dell’uomo stesso, dell’animale non umano dallo sfruttamento dell’uomo e della terra, dell’aria, dei mari da una economia che si appropria delle risorse naturali per farne mercimonio e fonte di profitto per un numero sempre minore di individui prescelti dai rapporti di forza esistenti, a discapito di miliardi e miliardi di individui che ne patiscono le dirette conseguenze. Dunque, quando poniamo la questione del mantenimento indefesso della laicità della sinistra come carattere di critica autentica alla base dell’evoluzione progressista e sociale, dovremmo domandarci anche se questa sinistra è al passo con altre tempistiche.

La questione del mutamento ecosistemico non è forse lì a dirci che i nostri stili di vita vanno cambiati e radicalmente? Non ci parla tutto ciò di come affrontiamo la “rivoluzione” nei nostri tempi? Davvero è sufficiente tornare al vecchio operaismo a tutto tondo per potersi oggi essere compiutamente anticapitalisti? Se si vuole esserlo, bisogna considerare il capitalismo liberista come la contraddizione massima non solo nei rapporti tra le classi sociali ma anche nei rapporti tra l’umanità e la natura in tutto e per tutto: iniziando dallo sfruttamento delle altre forme di vita e dell’ambiente in quanto casa comune irripetibile e insostituibile. Essere laici oggi vuol dire essere avere una visione complessiva delle criticità esistenti.

Non c’è dubbio sul fatto che la religione rimanga un oppio dei popoli, un elemento di alterazione delle coscienze, anestetizzate e messe al riparo dalle troppe domande sul nonsenso dell’esistenza o, per lo meno, sulla ricerca dello stesso in una quotidianità che spaventa più dell’immenso ignoto cosmo che ci avvolge nel buio e nella insonorizzazione dell’Universo. Ma questo non vuol dire che non si possa prendere in considerazione la voce di un papa quando, proprio riferendosi al modello economico del mercato capitalistico, esprime una critica se non tale e quale la nostra, quanto meno molto afferente, vicina alla circostanziazione che ne facciamo un po’ da sempre e, nella particolare condizione mutevole dei tempi, nelle tragedie dell’odiernità.

La sinistra di alternativa, anticapitalista e comunista deve riconfigurare la propria storia, la propria provenienza sulla base di un aggiornamento che non può e non deve essere l’abbandono dei valori primordiali che ne hanno costituito il vero carattere rivoluzionario durante tutto il travagliato percorso del Novecento. Nel momento in cui plaude ad un papa per la sua unica, sola voce globalmente percepita (e purtroppo molto inascoltata) sul disarmo e sulla pace, la sinistra non diventa clericale, non è papista, non è religiosa. Soltanto chi porta avanti una concezione autoreferenziale della lotta di classe, imperniata sull’immutabilità dei concetti e delle pratiche, sull’impermeabilità a qualunque altra contaminazione culturale e sociale, può essere indotto a pensare così.

Se la condivisione delle lotte è esclusa come elemento dialettico e pratico al tempo stesso, allora ci si condanna ad un isolazionismo che non sarà mai capito e, per primi, non lo comprenderanno coloro che pretendiamo siano il nostro punto di riferimento: le masse delle lavoratrici e dei lavoratori, i miliardi di sfruttati di questo mondo immerso nella rovina ambientale, nel disastro bellico, nelle tante guerre fratricide fondate sui pregiudizi e le supremazie teorizzate dai nuovi razzisti, omofobi e patriarcalisti di ogni destra possibile e immaginabile.

Siamo e rimaniamo marxisti perché siamo convinti che soltanto cambiando alla radice la struttura economica su cui si fonda questa società si potrà anche porre rimedio a tutte le altre contraddizioni che amplificano le diseguaglianze sociali, civili, morali e culturali. Siamo e rimaniamo comunisti perché il mettere insieme i bisogni è l’unica possibilità per risolverli, per farli venire meno come problema singolo e collettivo al tempo stesso. Siamo e rimaniamo, quindi, anticapitalisti senza se e senza ma: perché il capitale è incompatibile con la vita sul pianeta. Con tutta la vita: umana, animale, naturale nel senso più vero e lato del termine.

Ma l’essere tutto questo non ci impedisce oggi di apprezzare qualunque voce si levi nella direzione della difesa dei diritti umani, sociali e civili. Sia che venga dal mondo laico, sia che venga da quello religioso. Non conta la provenienza. Conta la sincerità di quella voce e la determinazione nel mantenerla tale soprattutto quanto tutti, o quasi, intorno ti dicono che stai sbagliando o, peggio, provano ad ignorarti per farti sentire solo. Non solo Francesco, ma anche Ghandi, così come Rosa Luxemburg, l’Ernesto Che Guevara boliviano, oppure i comandanti zapatisti accerchiati dalle forze governative messicane, ci hanno insegnato che la giustizia sociale ha tanti colori, tante voci ma un’unica eco: domanda libertà nel progresso.

Ed il progresso ha un solo nome: uguaglianza. Ciò per cui i partigiani, ottant’anni fa si sono battuti con tutta la loro giovanile, impetuosa e appassionata voglia di vivere: dare la possibilità ad un mondo nuovo di nascere sulle ceneri di quello omicidiario delle dittature totalitarie prodotte dai nazionalismi che, a loro volta, sono sempre la premessa di nuove guerre. Ogni voce di pace, per il disarmo universale, non può non trovare posto in un coro che lo rivendica come premessa per la rifondazione di una umanità non più al centro del mondo, ma accanto a tutti gli esseri che hanno diritto di vivere senza essere più al servizio di niente e di nessuno.

MARCO SFERINI

24 aprile 2025

foto: screenshot ed elaborazione propria

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