La seconda possibilità di Trump, paradigma dell’ipersviluppismo

Tutta la prima presidenza di Donald Trump è stata caratterizzata dalla teorizzazione e dal tentativo di messa in pratica di una politica rivolta a realizzare quello che è stato...

Tutta la prima presidenza di Donald Trump è stata caratterizzata dalla teorizzazione e dal tentativo di messa in pratica di una politica rivolta a realizzare quello che è stato definito, in vario modo, un “ipersviluppismo” o, se vogliamo dirla con Bernie Sanders, un “übercapitalism“. L’idea, tratta da decenni di liberismo diffusosi in più poli competitivi sul pianeta della globalizzazione ultramoderna, che la crescita economia debba essere determinata da una esponenzializzazione tanto della produzione quanto, naturalmente, dei consumi che la determinano (almeno in larga parte).

Donald Trump prometteva, in una economia maggiorata e resa onnipotente, a fronte di una diminuzione dei diritti delle lavoratrici e dei lavoratori, una implementazione dei posti occupazionali e tuonava dall’alto dei palchi nei suoi comizi: «Dobbiamo avere una crescita al 4 per cento!». Non era una previsione; semmai un auspicio. Ma di qualunque cosa si trattasse, mera propaganda elettorale o il tentativo di garantirsi l’appoggio sperticato dei signori del mega profitto (dalle grandi banche alle mega aziende della Silicon Valley), ciò che ne è seguito è stata semmai la smentita di questa previsione.

Il punto in essere era proprio l’esagerazione della crescita economica: i tassi di crescita che si sono potuti registrare durante la sua prima presidenza sono stati piuttosto bassi. David Harvey si è chiesto – molto opportunamente – se poi questa necessità di aumento della produzione, della produttività e della domanda sia necessario all’intera società. Non sarebbe più giusto produrre tanto quanto è il vero bisogno della nazione a stelle e strisce? Ovviamente sì, soprattutto per depredare meno l’ambiente, per consumare anche meno, per sprecare altrettanto meno. Ma l’ipercapitalismo non ci sente da nessun orecchio al riguardo…

Cosa attende, dunque, gli Stati Uniti d’America dal 20 gennaio prossimo, con l’inaugurazione della seconda presidenza del magnate, affiancato dal vero vicepresidente, quell’Elon Musk i cui progetti marziani sono certamente più interessanti delle idee che ha in merito alla società terrestre? Difficile poter fare delle previsioni certe. Di sicuro, la velocità del cambiamento mondiale, degli assetti e degli equilibri geopolitici, così come dei fronti militari e, molto più dirimente, della rivoluzione eco-sistemica in corso, pone interrogativi ancora più allarmanti del previsto.

La risposta del trumpismo al raffronto tra le contraddizioni liberiste e la sostenibilità ambientale, ad esempio, è una iattura per la seconda, perché, anche al netto del negazionismo del cambiamento climatico, prevale nella politica di The Donald una impostazione tutta protesa non alla diminuzione della concentrazione dell’anidride carbonica nell’atmosfera, nell’aria che respiriamo, ma ad un suo disperante aumento. Questo perché il paradigma unico del trump-muskismo è la preservazione di un punto di appoggio unico del sistema capitalistico sul resto del mondo.

Vale solo il mercato, vale solo la produttività, valgono solo i profitti. Ambiente, lavoro, diritti umani, civili e sociali sono delle variabili dipendenti da tutto ciò e, pertanto, la seconda presidenza di Donald Trump sarà ispirata a questo MAGA, al fare dell’America una grandezza in termini di ipersviluppismo, esasperato da una competizione globale con la Cina che, al momento, pare limitata al permettere a Tik Tok di poter apparire ancora sui telefonini degli statunitensi, ma che non è ovviamente soltanto questo. Anzi, non lo è per nulla.

In fondo, la narrazione neoliberista e übercapitalista è piuttosto semplice da descrivere: coloro che teorizzano, dall’estrema destra conservatrice e reazionaria (esattamente quella di Trump, Milei e dell’internazionale sovranista e nera), la massimizzazione della produzione sono gli stessi che pretendono più sfruttamento del lavoro, più sacrifici da parte della grande massa dei salariati, sempre più indigenti, sempre meno garantiti ma da cui, proprio per il grande numero che rappresentano, si può trarre quell’energia gratuita spacciata per “necessità” dovuta al progresso e alla ricchezza della nazione.

Senza smentire Marx sull’involuzione di lungo periodo, la concentrazione sempre più densa del profitto è stata bilanciata, come contraddizione massima proprio della crescita globale (e locale), dalla implementazione della produttività e dalla diffusione delle conoscenze (Thomas Piketty, dixit). La tecnologia, nello specifico anche quella della valle del silicio, ha fatto fare un balzo in avanti allo sviluppo di nuovi bisogni innovativi (pensiamo soltanto alle telecomunicazioni, ma pure all’informatica) a cui, però, e lo si vede con grande enormità nella diffusione del trumpismo, non è corrisposto un eguale sforzo nella direzione del rafforzamento democratico americano.

Gli Stati Uniti d’America di oggi, eredità di quell’ipersviluppismo che non si è fermato nemmeno con la presidenza bideniana, sono il prodotto di una lacerante, antisociale commistione tra urgenti necessità interne di stabilizzazione economico-finanziaria e una nuova grande (si fa per dire…) visione globale dell’influenza della Repubblica stellata nella nuova fase multipolare dell’era moderna del mondo globalizzato. La destra di Trump e Musk, così ovviamente devota ai dogmi mercatisti e iperliberisti, dovrà, lo voglia o no, fare i conti con l’eccesso di produzione che vorrà mettere in essere.

La struttura delle diseguaglianze dovrà, in un certo qual modo, avere voce nei capitoli di spesa del nuovo governo del magnate: perché la disparità sociale aumenterà e sarà sempre più evidente nel raffronto tra composizione del salario (quindi del reddito da lavoro) e profitti privati, derivanti dalle proprietà del capitale. Quella che Thomas Piketty chiama “disuguaglianza finale” è destinata ad aumentare nella misura in cui il governo americano imporrà una legislazione praticamente tutta a tutela dell’aumento della crescita economica, trascurando un bilanciamento in termini sociali.

Non c’è dubbio inoltre sul fatto che, mentre la diseguaglianza dei redditi da capitale poggia essenzialmente sull’andamento di una macro-economia (intesa come multilivello, multipolare e interdipendente dalle complesse relazioni internazionali), il che, comunque, non è certamente un dato di poco conto (sic!), quella dei redditi da lavoro subisce il condizionamento di tutta una rete di diritti sociali che fanno riferimento ad un tempo ben più ridotto rispetto a quello cui guarda il capitalista.

Senza una adeguata remunerazione, il lavoratore non può – come sosteneva Marx – riprodurre la propria forza lavoro per il giorno successivo rispetto a quello appena trascorso. Senza una adeguata domanda e una altrettanto adeguata offerta di competenze, senza un sistema educativo e una previdenza dei bisogni fondamentali, non ci può essere un vero sviluppo economico nazionale. Né per i paesi ancora in via di espansione, né per quelli come gli Stati Uniti d’America che danno da centinaia di anni per acquisito un retroterra capitalistico consolidato che, tuttavia, subisce gli effetti delle sue stesse crisi come nel biennio 2008-2009.

Donald Trump parte seconda, dunque, affronterà una nuova fase della globalizzazione: quella multipolare in stato avanzato, pienamente concretizzatasi dall’Asia all’America, facendo il tifo per una competizione che diventa, nei fatti, quello che Limes ha descritto come uno “spartiacque storico“. Ed in effetti è e sarà così nei prossimi anni, forse decenni. Il MAGA è l’estremizzazione di un recupero di un “sogno americano” che è sbiadito nel corso degli ultimi lustri: piegato da una flessione del ruolo egemone degli USA nel mondo, con una NATO che ha ripreso vigore col tentativo imperialista di avvicinamento ai confini russi.

Con un giganteggiare bellico sulla pelle dei popoli, primo fra tutti quello ucraino, spacciato per nuova difesa della democrazia nel mondo ancora da occidentalizzare. Come se non fossero bastati i colonialismi otto-novecenteschi e l’espansionismo europeo e anglo-americano a partire dalla fine del Quattrocento con la conquista delle Americhe e l’occupazione di tutto ciò che era disumanamente occupabile. Di nuovo, in questa fase di recupero del trumpismo e di aggiornamento agli ultimi eventi globali, c’è l’attacco iperliberista al ruolo sociale dello Stato.

Lo ha fatto Milei in Argentina, lo persegue naturalmente Trump nella Repubblica stellata: siamo in pieno dogma mercatista. Il governo come propaggine delle necessità impellenti del capitale, della strafinanziarizzazione di una economia perversa che devasta, prende, non risparmia nulla (anche nel vero senso letterale del termine) perché sciupa tutto, compresa sé stessa in un logoramento competitivo che non ha eguali nella sua storia multicentenaria. La “classe media” è un termine che poco o niente oggi si attaglia tanto al popolarismo in risalita o allo scivolamento verso il basso degli agiati di un tempo.

Popolo ed élite si contendono uno spazio, una intercapedine in cui c’è assenza di valori, perché il ruolo dello Stato diviene marginale da un lato ed essenziale dall’altro: nel primo caso conta poco o niente per le classi modernamente proletarie; nel secondo caso, invece, è sinonimo di regolazione, di temperamento degli eccessi, di ristrutturazione permanente nel nome della stabilità spacciata per benessere sociale e collettivo. I tassi di interesse salgono, ma quelli dell’ipocrisia capitalistica sono davvero ineguagliabili. In questo frangente, possiamo dire che quella di Trump e Musk si preannuncia come una nuova “rivoluzione conservatrice“.

Che si ispira al passato per innovarsi nell’immediatezza di un presente che si fa futuro soltanto per gli straricchi che tenteranno di salvarsi dalle catastrofiche involuzioni ambientali, vissute così da una umanità che ha sperequato, che ha alterato tutti gli equilibri sostenibili e che, quindi, ha reso completamente incompatibile il capitalismo con la natura. Sarà quest’ultima, pur nei suoi mutamenti estremi, a rovesciare un sistema al prezzo della parziale estinzione della nostra specie. A quel punto il trumpismo sarà solo un vago ricordo. Ma certamente potrà essere comunque ricordato come un comprimario nell’accelerazione della disegualità.

Ed ogni diseguaglianza aumentata è un passo veloce verso l’invivibilità della vita su questo pianeta che diviene sempre meno casa comune e sempre più ultimo rifugio per i “si salvi chi può” che potranno permettersi di abitarlo oltre ogni ragionevolezza, oltre ogni naturalezza.

MARCO SFERINI

18 gennaio 2025

foto: screenshot ed elaborazione propria

categorie
Marco Sferini

altri articoli