Il sogno di Putin è quello di tornare all’estensione territoriale della Grande Russia di Stalin.
Putin ha scelto l’Est e ha deciso di metterlo in lotta contro l’Ovest, ha dichiarato guerra ai valori delle democrazie liberali a partire dalla libertà e ha deciso che nessun luogo, un tempo russo, avrà mai il diritto di accedere a quegli ideali, a quel modello, a quegli stili di vita. E’ stato questo il primo motore della guerra all’Ucraina, non una ragione meramente economico-militare, certo non una nuova guerra contro i nazisti o il bisogno di proteggersi dall’espansionismo della NATO; a muoverlo è stato qualcosa di ancestrale che il nuovo zar sente come una missione.
Gigante coi piedi d’argilla, imbalsamato dalla nomina di Cernenko alla guida del Cremlino, il sistema sovietico non può proseguire la corsa agli armamenti e d’improvviso il Muro cade dando il via ad una fase radicalmente nuova. L’Occidente, pur potendo tentare di scambiare aiuti in cambio di riforme, compie probabilmente un errore storico perché non gioca la carta della pressione per una trasformazione democratica, dei diritti, del diritto e delle istituzioni dell’Unione Sovietica ora ridivenuta Russia, ritenendo Mosca oramai ridimensionata nelle sue ambizioni e nella sua influenza al rango di potenza regionale; è una grave sottovalutazione ma soprattutto un’incomprensione perché non tiene conto che la dimensione imperiale della Russia non è una sovrastruttura dello stalinismo.
Il consenso di Putin e la ripulsa postuma di Yeltsin e poi di Gorbaciov si spiegano proprio attraverso questa perennità imperiale che vuole sopravvivere, un’autocoscienza a cui l’Occidente non ha dato segno di riconoscimento.
Putin non rimpiange il Comunismo, la bandiera rossa, la falce e il martello, ma la solidità del comando che quella dottrina conferiva a Mosca dandole la potestà di rappresentare l’altra metà del mondo. Non ha bisogno dell’investitura bolscevica per esercitare un dominio assoluto sul paese, garantito da un metodo autoritario che ha raso al suolo ogni opposizione, concentrando direttamente sulla sua persona l’esercizio del potere assoluto, ma è convinto che l’esaurimento dell’esperienza sovietica abbia prosciugato anche l’autorità storica delle Russie mutilandole non solo del territorio di rispetto che le circondava soggiogato, ma anche dalla capacità di influenza internazionale che le rendeva soggetto imperiale.
Putin impersona quella generazione cresciuta nel mito della vittoria patriottica nella Seconda Guerra Mondiale, diventata adulta nello scenario della competizione imperiale con gli Stati Uniti e infine invecchiata con la frustrazione della sconfitta nella Guerra Fredda. Si tratta di un sentimento popolare che non si nutre di nostalgie politiche, anzi, non solo tra gli oligarchi che hanno depredato lo stato ma anche una parte degli intellettuali e della società semiaperta hanno visto nella caduta dell’Urss un’occasione di liberazione.
Durante la prima fase dei suoi 25 anni di regno Putin si è accontentato di rivestire l’eredità sontuosa ma decadente della potenza russa e sovietica accettando di gestire quel ruolo ridimensionato di Mosca. Ad un certo punto però decide di sfidarlo e lo fa andando direttamente all’attacco della cultura liberale che sta alla base delle costituzioni e delle istituzioni europee. Lo fa attraverso un pensiero politico che separa la democrazia dal principio liberale aprendo la strada a un’inedita democrazia autoritaria. Accumula in pochi anni antagonismo militare con la penetrazione in Medio Oriente e le mire sul Mediterraneo, espansionismo cominciando dalla Crimea, poi la guerra vera e propria in Ucraina e l’infiltrazione strategica attraverso i cyber attacchi.
Putin è riuscito nell’ultimo decennio a insediare nel paese un nuovo pensiero di regime con basi filosofiche su cui è cresciuta una dimensione culturale egemone: il cemento del patriottismo leggendario capace di fermare Hitler unito con la vocazione militare di un popolo guerriero da mille anni, il tutto circondato col profumo di incenso dell’ortodossia resuscitata da Putin, dopo l’ateismo di Stato, riconsacrata dal Cremlino, elevata a custode dei valori tradizionali più conservatori, chiamata infine a benedire l’appartenenza “di carne e di sangue” alla Russia del popolo e della nazione fusi nella stessa parola.
Anche la religione diventa un elemento di distinzione e differenza, sia pure nella genuflessione allo stesso Dio, da mille anni infatti la Russia si è convertita al cristianesimo ma la religione di Mosca è un canone, un rito e una liturgia che non rispetta e non riproduce le forme europee perché non deriva da Roma bensì da Bisanzio.
Alla Russia come diceva il filosofo di riferimento di Putin, Ivan Alexandrovich Ilyn, spetta il compito di redimere il mondo e per esercitare questo compito occorre riconsegnarla al suo destino secondo il mandato che Alexander Solgenitsin consegnò a Putin e cioè mantenere l’originalità russa, la sua differenza dalla democrazia formale dell’Occidente, soprattutto un’opposizione culturale ai valori della democrazia, la cifra comune che aggiunge una dimensione ideale al potere dell’ovest, e contro la omologazione occidentale delle idee.
La predicazione del leader russo non parte da una rivendicazione territoriale ma da un’angoscia della storia che vede deragliare con lo sfregio della secessione dell’Ucraina verso l’Europa e la NATO e che minaccia così di tagliare il sacro nodo storico che tiene insieme Kiev, Minsk e Mosca nel culto slavo delle origini, generatore eterno di identità nell’unione sacra tra Russia, Bielorussia e Ucraina; è la paura del contagio occidentale che ha scatenato l’armata alle porte di Kiev, fantasia nevrotica collettiva indotta di un corpo integro e incontaminato come solidificazione dell’identità nazionale in cui le masse hanno “nostalgia del padre” e desiderano il tiranno che promette l’impossibile e cancella l’incertezza.
Putin rompe la lettura comune del secolo europeo sostituendola con una rappresentazione mitologica che reinterpreta il passato ad uso e consumo del presente, recuperando un dovere sovrano di obbedienza a un destino della nazione in una missione sacra, riscrivendo la storia contemporanea attraverso una interpretazione che potremmo definire mistica, già insegnata ai bambini nelle scuole e diffusa con la forza della repressione di ogni dubbio di sensatezza. Gli organi di sicurezza, per parte loro, rivelano che il loro vero talento non è spiare la realtà, bensì ricrearla reinventandola secondo il disegno del regime, cancellando e riscrivendo la cronaca ucraina della guerra.
La metamorfosi del reale operata dal governo non è un anestetico ma un investimento attivo che coinvolge l’esperienza di ogni cittadino sollecitandolo in modo che da quella visione discenda un giudizio morale e politico verso un senso comune di Stato.
La pretesa neo imperiale di Putin, che infine spezza il codice su cui si regge l’equilibrio mondiale, infrange il sistema di regolazione dei conflitti, cancella il disegno europeo di coesistenza degli opposti tracciato a Yalta quasi ottant’anni fa, ci fa entrare in uno spazio incognito e inesplorato, dove tutto diventa possibile perché sono saltate le tavole della legge e la politica può essere soppiantata dalla forza; se manca la regola, niente è trasgressione, per qualsiasi arbitrio non serve giustificazione e nessuna autorità riconosciuta può impartire la punizione.
Così il destino della Russia si autonomizza dal destino del mondo e ancora una volta Mosca si separa dall’Europa, scegliendo l’Oriente come rifugio della sua diversità irriducibile. Si rivela qua esattamente l’elemento culturale e addirittura spirituale della contesa in quanto il grado di pervasività del costume politico democratico occidentale è introiettato dai cittadini al punto da diventare un’espressione naturale della libertà in un sistema di garanzie e riconoscimenti reciproci, un modo di vivere che prende una configurazione politica autonoma senza la costrizione della tradizione e/o della religione. Putin invece costruisce un controcampo guidato dalla Russia dove le tradizioni diventano norma implicita, le memorie e le credenze rinnovano automaticamente le loro promesse eterne e una civiltà antidemocratica esibisce se stessa al mondo con una proiezione nuovamente imperiale e una coscienza politica alternativa.
I cardini dell’operazione sono quattro: 1- la creazione di un mondo multipolare dove l’Occidente non abbia più il controllo decisivo delle dinamiche internazionali 2- il rifiuto dell’egemonia culturale occidentale 3- il passaggio a Oriente dei nuovi equilibri con le grandi civiltà alternative alla cultura Euroamericana come quella Euroasiatica, Islamica e Cinese che entrano in gioco operando come blocchi geopolitici autonomi e con alleanze 4- il ruolo missionario universale della Russia che sentendosi sciolta da ogni vincolo se non con quello del proprio destino immaginifico, si offre al resto del mondo non occidentale come una forza rivoluzionaria post liberale e conservatrice contro il nichilismo, il rifiuto della tradizione, la globalizzazione e la società aperta. C’è tutta una società internazionale che sta scegliendo di vivere fuori dallo stato di diritto, cioè senza la separazione dei poteri, il principio di legalità, la garanzia dei diritti, l’indipendenza della magistratura, il concetto di uguaglianza.
Il trono di un’alternativa ribelle all’Occidente vincitore era vacante e la Russia aveva nella tradizione, nelle ambizioni e nella frustrazione i suoi motivi per provare a conquistarlo
In patria l’enorme burocrazia di Stato appare collegata per funzione e per inerzia con chi comanda, passiva ma interessata a incassare i dividendi di una rinascita dell’autorità dello Stato. Gli oligarchi sotto attacco si mostrano divisi tra il calcolo dei danni ricevuti dalle sanzioni e la fedeltà promessa in eterno al capo che li ha creati dal nulla; ma non è nel vertice che può maturare oggi un cambiamento.
Vale anche nel presente la vecchia massima secondo cui lo Zar può essere soltanto sanguinario o insanguinato, per cui la nomenclatura è obbligata per autotutela a rimanere compatta attorno al capo, salvo poi essere l’unica forza che nel momento decisivo, se ne cogliesse la necessità e l’occasione, potrebbe decretare la fine di un’epoca e operare la sostituzione. Restano i cittadini difficili da decifrare in un paese che non ha mai avuto uno spazio civico autonomo con una struttura organizzata, un paese in cui le manifestazioni di piazza hanno portato a migliaia di arresti, in cui la censura lavora a pieno ritmo e i giornali sono costretti a uscire con le pagine bianche, a chiudere o a spostare le redazioni in esilio in Lettonia.
I russi, passati da sudditi a bolscevichi, potranno un giorno diventare liberi cittadini all’interno di un concetto di democrazia non nevrotico, democrazia vista come corpo malato, un sistema che deve accettare la propria incompiutezza per non sconfinare nel totalitarismo?
La democrazia è un sanatorio aperto sull’ abisso dove dobbiamo imparare ad ascoltare l’inquietudine dei nostri sintomi. La civiltà sopravvive solo se accetta il carattere inguaribile della malattia e ne ha cura evitando di assecondare le pulsioni di morte che la attraversano.
In una delle più belle pagine del Maestro e Margherita, Bulgakov scrive “Tutto può ancora accadere, perché nulla può durare in eterno”.
LUCA PAROLDO BONI
29 luglio 2025
foto: screenshot ed elaborazione propria
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