La Russa non vota ai referendum? Noi cinque volte SÌ!

In tempi in cui la partecipazione democratica è sempre più considerata un accidente cui ottemperare, piuttosto che come un diritto-dovere da considerare in quanto elemento di sovranità popolare, affermare...

In tempi in cui la partecipazione democratica è sempre più considerata un accidente cui ottemperare, piuttosto che come un diritto-dovere da considerare in quanto elemento di sovranità popolare, affermare che si farà propaganda per disertare le urne referendarie l’8 e il 9 giugno non è il miglior modo per rappresentare le qualità delle istituzioni e il loro compito sovraordinante sulla base della delega che viene loro attribuita di volta in volta.

Il fatto che, poi, ciò provenga dalla seconda carica dello Stato, dal Presidente del Senato della Repubblica, è quanto meno sconfortante e, tuttavia, non sorprende, anche se lascia giustamente indignati. Ignazio La Russa ha solennizzato in un incontro pubblico qualche giorno fa: «Io continuo a dire che ci penso, però di una cosa sono sicuro: farò propaganda affinché la gente se ne stia a casa». La singolarità, se così vogliamo benevolmente ed eufemisticamente definirla, si ritrova anche nel fatto che a pronunciare queste parole è una delle massime istituzioni repubblicane; ma, più ancora, nello stridire che queste provocano se messe a confronto con quelle del Presidente della Repubblica.

Mattarella, infatti, ha sempre doverosamente messo al centro di ogni discorso riguardante il voto e le elezioni proprio la questione cuore della democrazia: la partecipazione popolare ai processi decisionali dal basso verso l’alto. La Costituzione e le leggi ordinarie, pur non vincolando i cittadini all’esercizio del voto, ne fanno un “dovere civico”, quindi una espressione libera del singolo entro un contesto comunitario che assume un rilievo proprio perché le volontà si sommano e indicano su quale via il Paese debba proseguire.

Il punto è che una carica istituzionale come quella del Presidente del Senato dovrebbe, proprio da un punto di partenza civico, esattamente come previsto dalla Carta del 1948, indicare alla popolazione l’importanza di una decisione collettivamente ampia, che supporti largamente una delle due opzioni in campo: il SÌ o il NO ai quesiti proposti. Indubbiamente il “non-voto” è, in questi frangenti, una cosiddetta “terza opzione“, più di quanto lo possa essere nelle elezioni di carattere politico o locale. Ma non si può associarlo ad una presa di posizione assolutamente uguale al NO.

Chi non si reca alle urne sceglie di far fallire il referendum e, quindi, di non permettere che le due opzioni si confrontino e una di queste prevalga sull’altra, del tutto democraticamente. Si obietta: ma è democratico anche non prendere parte alla consultazione referendaria. Certo. Eppure, in tempi di così grande scollamento tra cittadini ed istituzioni, recuperare quanto meno questa dialettica di grande sostegno alla civicità della nostra Repubblica e del suo impianto complessivo di equipollenza tra i poteri, sarebbe un atto politico, sociale e civile davvero notevole.

La posta in gioco, lo sanno molto bene le destre e lo sa molto bene quindi il Presidente del Senato, è anche l’affermazione di un recupero di diritti del mondo del lavoro che sono stati via via cancellati con le riforme liberiste (leggasi: “Jobs Act“); è anche un ripristino di una rete di tutele che sono state subordinate alla logica mercatista di un capitalismo moderno che impone la variabile dipendente del profitto sempre e comunque. Ed è anche la rivalutazione dell’elemento di classe come sostanzialità che si contrappone alla formalità, alla narrazione favolistica meloniana del “va tutto bene, madama la marchesa“.

Ma, anzitutto, il timore del governo e del Presidente del Senato, in questo specifico frangente, sta nel fatto che decine di milioni di italiani recuperino una memoria dei diritti sociali e civili che, tolti dalla contrapposizione in cui li vorrebbero ancora mantenere i partiti reazionari e conservatori dell’estrema destra, possano quindi ritornare ad essere lucidamente percepiti come imprescindibili e non come qualcosa di residuale o, peggio, anacronistico rispetto alle magnifiche sorti e progressive di un’economia (di guerra) in cui è logico arrivare al 2% del PIL in spese militari e, al contempo, vedere sempre al palo i salari, contratte le pensioni e diminuita la spesa sociale in generale.

Compito di ogni governo della Repubblica è di considerare una sempre maggiore partecipazione alla vita del Paese in ogni suo aspetto, in ogni frangente, sempre e comunque. Se l’appello o la dichiarazione di invito al non-voto provenientÌe da esponenti di partito, ciò può avere una valenza appunto di parte e, quindi, rientrare nel gioco della dialettica democratica: ma una carica istituzionale ha il dovere di disincentivare la lettura populista dell’ininfluenza delle decisioni affidate al risultato, in questo caso, referendario. Non per alimentare delle illusioni, ma per promuovere invece nuova coscienza propriamente civica.

Se alle elezioni politiche e amministrative prendesse parte, come era un tempo, l’80/85% dell’elettorato, si potrebbe anche presupporre che non vi sia una disaffezione conclamata nei confronti del momento della chiamata alle urne e dell’espressione del proprio consenso verso un partito o una coalizione. Ma, ormai da troppo tempo, siamo tristemente abituati a veder scendere sempre di più l’asticella della stessa partecipazione popolare e questa abitudine sta assumendo i contorni dell’assuefazione, della endemica normalità in un contesto moderno di crisi verticale della democrazia.

Nessuno si illude che, dall’oggi al domani, anche nel giro di pochi lustri e nell’ambito di una conquista di Palazzo Chigi solo insperabile qualche decennio fa, le destre estreme, eredi dell’a-costituzionalismo del MSI-DN, siano improvvisamente state folgorate sulla via della democrazia repubblicana che include laicità e antifascismo come pilastri che ne reggono la complessa struttura ottantennale. Le esternazioni del Presidente del Senato indignano proprio per questo: per la coerenza che mantiene col suo passato, per l’affezione che ha nei confronti di un’idea di partecipazione che vale soltanto se consolida la tenuta dei “valori” della propria maggioranza.

La “terzietà” della carica impone di non esprimere pareri sulle tornate elettorali: ma quella di La Russa è, nel dichiarare il suo invito al non-voto e nel manifestare la sua intenzione di adoperarsi in tal senso, un abbandono non di una consuetudine, bensì di un vero e proprio status istituzionale che permette al Parlamento, in quanto tale, di avere la garanzia di una imparzialità dentro e fuori delle Aule. Ugualmente si comporta la stragrande maggioranza dell’esecutivo meloniano (si salva “Noi moderati” che invita a votare NO ai referendum): i referendum propongono con la vittoria del SÌ di riaffermare il diritto di non essere licenziati senza giusta causa, ad esempio.

Retoricamente ci domandiamo: perché le destre estreme, sempre così pronte a dirsi popolari, vicine alle lavoratrici e ai lavoratori, non condividono la reintroduzione dell’articolo 18 che stabiliva il reintegro di chi viene allontanato dalla sua occupazione senza un giustificato motivo? Perché, se davvero sono forze sociali, non condividono uno stop ai contratti a termine praticamente infiniti che rappresentano un vero e proprio abuso della precarietà e un incentivo esponenziale per gli imprenditori ad uno sfruttamento senza fine?

Perché, se sono veramente delle forze politiche che hanno a cuore il mondo dei più fragili e deboli, non si dicono a favore dell’abolizione del lavoro a chiamata che viene davvero ipocritamente chiamato “flessibilità“, quindi opportunità di passare da un’occupazione ad un’altra mantenendo (e non è vero) i diritti (tutt’altro che) acquisiti? Perché, se rappresentano moderne istanze sociali, i partiti del governo di Giorgia Meloni non ritengono necessaria una responsabilità solidale negli appalti, così che chi lavora non debba scontare quelle che sono altrui colpe?

Le risposte le abbiamo già, ovviamente. Questo piccolo gioco retorico serviva soltanto a mettere in luce una serie di contraddizioni che sono tipiche di forze reazionarie, populiste e conservatrici completamente asservite – come nella loro pregressa storia neo e postfascista, oltre che secessionista e fintamente autonomista – alle istanze fondamentali del capitalismo e del neoliberismo. L’Italia che hanno in mente è quella dei privilegi e non dei diritti. L’Italia del lavoro inteso come continuo ricorso ad una ricattabilità delle lavoratrici e dei lavoratori con contratti sempre più precari.

La Legge Fornero prima e immediatamente dopo il Jobs Act di Renzi, basandosi su decenni di decostruzione dei diritti sociali, hanno strutturalizzato una lotta di classe fatta dal padronato moderno contro il mondo del lavoro. Flessibilità e precarietà sono stati i mantra su cui si è davvero costruita una idea dell’occupazione non come fondante la dignità della persona e del cittadino al tempo stesso: ma come opportunità benevolmente concesse dal sistema dei profitti e delle merci verso quella grande massa di sfruttabili a tempo sempre più determinato ma senza soluzione di continuità.

I referendum promossi dalla CGIL sul lavoro, nonché quello sulla cittadinanza, sono la grande occasione di invertire questo senso di marcia iperliberista. Chi invita al non-voto sfregia la democrazia partecipativa che, proprio nel momento referendario, ha, più ancora che nelle elezioni politiche ed amministrative, il carattere di decisione popolare che prescinde dagli schieramenti (almeno nella sua accezione primigenia, ideale, concettualmente intesa nello strumento utilizzato). Si può definire l’invito di La Russa in molti modi, ma rimane, nella migliore e meno istintivamente reattiva delle emozioni espresse per iscritto, una contraddizione palese proprio con il regime democratico.

L’antica antinomia tra destra extra-costituzionale e partecipazione della stessa ai processi di formazione della politica nazionale (e locale) è, per l’appunto, un tratto storico di un percorso che prosegue e si ritempra, oggi, dati gli attuali rapporti di forza elettorale, parlamentare e istituzionale dell’estrema destra. Compito della partecipazione popolare è anche questo: dimostrare che è possibile restituire la Repubblica a sé stessa, la democrazia alla democrazia, sottraendola all’abbraccio mortifero di una serie di forze che la utilizzano soltanto, la strumentalizzano e, nel concreto, non la condividono.

I riferimenti esteri del melonismo confermano tutto ciò: Orbán, Trump, Abascal, Milei… Basta fare un giro nelle cronache dei giornali più diversi di quei paesi per rendersi conto che il pericolo della torsione autoritaria è sempre dietro l’angolo. Anche in Italia. E non da oggi. Da molto, troppo tempo. La partecipazione ai referendum dell’8 e 9 giugno e la vittoria del SÌ possono essere – e lo saranno se tutti cogliamo fin da subito il valore morale, civile e sociale del momento – un punto di svolta davvero sostanziale, concreto e fattivo. Facciamo contare i diritti della stragrande maggioranza della popolazione. Dei “milioni del cui lavoro vive l’intera società” (Rosa Luxemburg).

MARCO SFERINI

10 maggio 2025

foto: screenshot ed elaborazione propria

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