La rivoluzione dei dazi trumpiani: forzatura unipolare a stelle e strisce

Economisti di varie tendenze, per intenderci: liberali, liberisti, ultraliberisti e di segno opposto keynesiani e marxisti, convergono nell’affermare che una crescita annua dell’1% del prodotto interno lordo genera un...

Economisti di varie tendenze, per intenderci: liberali, liberisti, ultraliberisti e di segno opposto keynesiani e marxisti, convergono nell’affermare che una crescita annua dell’1% del prodotto interno lordo genera un indirizzo di rinnovamento sociale di non poco conto. Confindustria, appena pochi istanti dopo la smargiassata trumpiana sui dazi a stelle e strisce da imporre al resto del pianeta, si preoccupava del fatto che il contraccolpo sarebbe stato, almeno nell’immediato (quindi, un biennio almeno) di una perdita dello 0,6% del PIL. Sostanzialmente circa una ventina di miliardi di euro sonanti.

La tabella mostrata dal presidente-magnate è sufficientemente chiara: alla Cina toccheranno dazi per un 34% più un 10% di tassazione “universale” che, quindi, va sommato a ciò che Trump e la sua amministrazione hanno riservato alle importazioni. L’Europa si vede assegnato un 20% che sale, dunque, al 30%. Sarebbe, nella visione ultraprotezionistica dei repubblicani esagerati ed esagitati, la risposta a decenni di ruberie perpetrate nei confronti degli Stati Uniti d’America dalla UE come da molte altre nazioni che si sarebbero arricchite alle spalle di Washington.

Siccome nell’economia globale nessuno può veramente dire di essere autonomo rispetto al resto del pianeta, faceva notare un cronista della CNN che, a questo proposito, non esiste nemmeno nella grande patria dell’automobile una macchina americana al cento percento. E non si registra oggi una crescita tale, tanto negli USA quanto negli altri conglomerati economici del sistema multipolare (per intenderci: Cina, Russia, India, Giappone, Europa), da poter convertire le produzioni in un regime di autarchismo di nuovo moderno modello.

Che cosa accadrà, quindi, dopo la mossa di Trump? Sarà guerra commerciale mondiale? Le probabilità sono alte e si deve sempre tenere conto del fatto che l’obiettivo di una economia, molto tra virgolette “sana”, dovrebbe essere quello di coniugare la crescita con la sostenibilità anzitutto ambientale, oltre che, non in secondo piano, con la giustizia sociale. Il tema della globalizzazione commerciale si ripropone oggi in termini veramente nuovi, perché la svolta sovranista e populista del trumpismo fa il paio con l’ultraliberismo di Milei in Argentina e sfida i poli del capitalismo odierno sul terreno dell’espansione oltre che economica anche finanziaria.

All’impetuosa crescita liberista, a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, si è accompagnata un’enfasi davvero sproporzionata, costringendo quasi alla constatazione del fatto che il nuovo modello capitalistico era risolutore di tutta una serie di storture registrate dal dopoguerra in avanti. In realtà – come nota Thomas Piketty ne “Il capitale del XXI secolo” – risulta abbastanza probabile che sia la Francia sia la Germania, nel contesto ovviamente della aumentata estensione dell’unità europea (quant’anche più che altro sul piano monetario), avrebbero recuperato un ritardo della crescita che sembrava divenuto endemico.

L’America, per tutti questi ultimi decenni, ha provato a restaurare un tentativo di unipolarismo capitatole fra le mani alla fine della Guerra fredda quando la potenza sovietica era in disfacimento, la Cina era ancora priva del mordente produttivo sia civile sia bellico che dimostra possedere oggi, e l’Europa, oggettivamente, andava al traino di ciò che avveniva oltreoceano. Ciò che è avvenuto, invece, è la sostituzione di tre decenni di dominio pressoché incontrastato a stelle e strisce, con il dollaro come divisa regolatrice delle economie planetarie, con un multipolarismo che, proprio in questi ultimi anni, ha accelerato il passo.

Il capitalismo liberista mondiale, dunque, si esprime nella sua competizione moderna su più piani che si intersecano a volte che si separano altre, che si distinguono comunque per una differente interpretazione più generale delle possibilità di aumento della contesa secondo schemi che possono sembrare nazionali (come nel caso della Cina e della Russia) ma che, invece, istintivamente ampliano la platea della condivisione interstatale ad altre aree del globo cui vengono promesse crescite economiche davvero esorbitanti. La lettura che viene data, a questo proposito, della coalizione dei BRICS – almeno da una parte della sinistra anche europea – è una alternativa all’imperialismo americano.

In realtà i BRICS non sono che un insieme di interessi altri, di altri imperialismi che operano esattamente nella direzione uguale e contraria rispetto, ovviamente, al loro principale competitor: ossia gli Stati Uniti d’America. Ma non c’è dietro ai BRICS nessuna idea del mondo in chiave sociale o ambientalmente sostenibile rispetto al liberismo spinto, a quello che Bernie Sanders ha definito l’übercapitalismQuando Trump spinge le grandi multinazionali a produrre nei confini della Repubblica stellata, comunica al mondo la volontà di riconsiderare una produzione non tanto autarchica, ma americocentrica. I dazi sono l’avviso agli altri poli in competizione: l’accumulazione del capitale viene riformulata.

In fondo, questa dipende oggettivamente anche dal comportamento che i singoli governi decidono di attuare proprio nei confronti della produzione della ricchezza mediante il privato e da destinare al pubblico con una serie di rincari che fanno impallidire anche i salari più alti. Non parliamo, quindi, di quelli italiani… La domanda ulteriore è questa: Trump spinge le aziende a produrre negli USA. Ma il capitale non fa niente per niente. Anzi. Quindi, quali saranno le richieste delle grandi imprese se decideranno di produrre negli Stati Uniti piuttosto che in Europa o in Cina? Pare abbastanza semplice ipotizzare che, a quel punto, prevenendo le stesse richieste, l’amministrazione repubblicana si darà alla defiscalizzazione dei profitti.

Pagherete meno e produrrete tutto. A patto che questo tutto porti nelle casse dello Stato un ingente quantitativo di soldi e faccia, naturalmente, guadagnare un po’ tutto l’indotto che si appresterà a fare da compiacente parterre di corifei a coloro che stabiliranno i nuovi impianti produttivi nei cinquanta Stati. David Harvey, a questo proposito, ha scritto – come esempio – della delocalizzazione impiantistica della Foxconn nel Wisconsin. Non di meno la questione si era presentata per Amazon nello Stato di New York. Sostanzialmente il leit motiv era: pensiamo di venire nelle vostre città e nei vostri Stati, ma dovete fornirci tutto l’aiuto possibile e tutti i fondi di cui abbisogniamo.

La geografia del capitale cambia, soprattutto con la svolta ipersovranista dei nuovi conservatori populisti (Trump) e dei presunti un po’ fantasiosi anarcocapitalisti (Milei), ma la sua legge rimane sempre la stessa e lo resta nel principio di espansione costante che riguarda ogni persona e ogni cosa, l’insieme della natura. L’unica limitazione che i progetti trumpiani potranno trovare sarà quella delle difficoltà oggettive poste proprio dalle risorse naturali che, col tempo, potrebbero esaurirsi. Per questo gli Stati Uniti puntano ad occupare nuovi territori come le tanto divenute celebri “terre rare” in Ucraina.

Se proprio si deve avere un qualche ritorno daun impegno bellico sentito come lontano geopoliticamente, osteggiato dalla gran parte dell’opinione pubblica e in contrasto con i piani di espansione verso l’Oceano Pacifico, obiettivo Cina, Taiwan, Nord Corea eccetera, eccetera, allora che almeno se tragga un profitto tramite lo sfruttamento dei preziosi sottosuoli del Donbass. Putin non sembra essere, almeno fino ad ora, un ostacolo in tal senso. La riconfigurazione statunitense dei rapporti economici e di libero scambio (sempre meno libero, ma pur sempre scambio) rischia di tellurizzare per qualche settimana le borse di tutti i continenti. Il dollaro subirà delle flessioni, gli indici dei titoli americani anche.

Ma Trump conta di riequilibrare il tutto ben presto. Le grandi aziende produttrici di auto, General Motors, Ford e Stellantis, almeno stando alle notizie che si hanno, dovrebbero rientrare ancora nel girone dei salvati dalla tagliola dei dazi. Si è calcolato che il costo di produzione per ogni singola vettura composta negli stabilimenti delle tre “big” del settore, sarebbe aumentato da un minimo di tremilacinquecento ad un massimo di dodicimila dollari. Più semplicemente, se un americano andasse oggi a comperare un’automobile, constaterebbe che gli servono circa seimila dollari in più per poterla acquistare. Trump rimane convinto (in buona fede è difficile da pensarlo…) che i produttori prima o poi si sposteranno negli Stati Uniti e i prezzi, quindi, caleranno.

Ma, intanto, anche l’economia americana subirà un contraccolpo non da poco con la politica della guerra all’economia degli altri poli del capitalismo globale. Uno dei punti su cui verte anche tutta questa rivoluzione conservatrice (nel senso più borghese e imprenditoriale del termine) è anche quello dell’eccedenza di capitale. Non c’è dubbio, dati alla mano, che oggi sia la Cina la prima nazione a doversi confrontare su questo tema. A partire dalla crisi del biennio 2008-2009, la direzione economico-affaristica di Pechino ha nettamente cambiato direzione. E questa non può dirsi solamente una coincidenza… Mentre crollavano le esportazioni di merci cinesi, aumentavano a dismisura le importazioni di capitali verso l’impero del drago.

E ancora di più, rispetto a questa direzione degli investimenti, nel mondo prendeva avvio un’esportazione di capitali cinesi che irrorava continenti come l’Africa e l’Europa. Si può dire che ci si è trovati davanti ad una politica nettamente “aggressiva” sul piano dell’intromissione economica da parte di Pechino nelle singole economie di intere vaste aree di interesse geopolitico e, quindi, strutturali per gli interessi del gigante asiatico in emergente potenza dalla fisionomia davvero globale. Il credito commerciale cinese è offerto tanto ai paesi più indigenti e poveri quanto alle altre potenze planetarie. Tanto che gran parte del debito americano è nelle mani del principale avversario.

Trump deve fare i conti anche con questa condizione di dipendenza di una parte della sua economia da fattori tutt’altro che endogeni. Agroalimentare, farmaceutica, automobili e altri mezzi di trasporto, tecnologie anche innovative riguardanti la componentistica per la telefonia, saranno beni di consumo che gli americani pagheranno molto di più rispetto a prima e le ripercussioni avranno un carattere duale: dentro i confini americani l’aumento del costo della vita; al di fuori, la diminuzione possibile della produzione e la ricaduta, anche qui, sui costi più generali del mercato interno nazionale e continentale.

L’America di Trump che sogna la grandezza unipolare, ci costerà cara. L’arretramento economico, unito a quello sociale e civile, getta il mondo intero in una fase in cui il chiaroscuro dei tempi sta già generando i mostri di gramsciana memoria…

MARCO SFERINI

3 aprile 2025

foto: screenshot ed elaborazione propria

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