Quell'”oltre ogni previsione“, che un po’ tutti i giornali, le televisioni i siti Internet sono stati lieti o costretti a segnalare riguardo lo sciopero dei sindacati di base contro il genocidio a Gaza, dà proprio la dismisura della grande massa di persone che vi ha preso parte e che è andata ben oltre i confini delle associazioni di categoria delle lavoratrici e dei lavoratori e persino oltre quelle studentesche, culturali. Oltre anche i partiti che vi avevano aderito: molto defilato il PD, decisamente presenti invece Cinquestelle, AVS, Rifondazione Comunista, Potere al popolo.
Il punto su cui ci si deve soffermare è l’empatia creata dalle atrocità che il governo israeliano commette a Gaza: è sotto gli occhi di chi vuol vedere (perché dire e scrivere “di tutti” sarebbe una iperbole molto poco veritiera, purtroppo…) un massacro di proporzioni veramente enormi. Si parla ad oggi di oltre sessantacinquemila morti e oltre duecentomila feriti ma, visto cosa è accaduto nelle città della Striscia, praticamente rase al suolo, c’è da ritenere che quelle cifre vanno moltiplicate per chissà quante volte prima di arrivare al conto esatto degli assassinati da un esercito, da una aviazione e da una marina che hanno fatto di Gaza una ecatombe a cielo aperto.
Israele ha fatto di tutto per evitare che questa carneficina arrivasse alle orecchie e agli occhi del resto del mondo. Ma non ci è riuscita. Ha intimidito, cacciato e anche ucciso centinaia di giornalisti che si trovavano a Gaza. Ha provato a falsificare le notizie, ha assoldato influencers di ogni tipo per mostrare l’immostrabile: ossia che gli aiuti alla popolazione civile erano distribuiti e in quantità davvero enormi. Il tutto mentre altre immagini, dai telefonini alle telecamere entrate nella Striscia, mostravano la carestia e l’inedia. Di donne incinte, di bambini ridotti pelle e ossa, di anziani morti mentre cercavano di avere una razione quotidiana di riso o di pane.
Proprio quest’arma criminale, la carestia, che un tempo era propria dei grandi assedi alle fortezze dei nemici di re e imperatori, è tornata in auge come sottile e tremendo, negativissimo ulteriore carico su una guerra che non è mai veramente stata tale, ma che ha, fin quasi da subito dopo l’attacco terroristico del 7 ottore 2023, presentato tutti i connotati politici della vendetta contro i palestinesi, di una soluzione davvero finale del problema che da oltre settant’anni attanaglia un Israele che si concepisce molto più oggi di ieri come l’unico Stato degno di esistere in Palestina.
Le manifestazioni e gli scioperi per Gaza si stanno moltiplicando, così come quelle per la Global Sumud Flotilla che veleggia verso la Striscia: Israele giura di trattarla come un’associazione terroristica al pari di Hamas ma, nello stesso tempo, per non vedere moltiplicate ulteriormente le proteste contro di sé, il governo del trittico criminale formato da Netanyahu, Smotrich e Ben-Gvir si dice pronto a ricevere gli aiuti. Saranno loro a darli ai gazawi. C’è proprio da crederci… Segnale questo che Tel Aviv percepisce il crescente isolamento internazionale che, fatti salvi gli Stati Uniti e pochi altri paesi, non sembra, per la maggiore, provenire da uno spontaneismo disinteressato.
In alcuni casi vi sono anche ragioni storiche che spingono certe nazioni a reclamare una qualche forma di giustizia per i palestinesi; in altri casi invece è anche questo uno dei fattori scatenanti le azioni simboliche come il riconoscimento dello Stato che non c’è, ma si riscontrano pure oggettive constatazioni di una insostenibilità del lungo, continuato massacro etnocida che si sta perpetrando. I paragoni con la storia del popolo ebraico nel corso del Novecento si sprecano e, a volte, hanno anche un certo retrogusto amaro di antisemitismo, indotto dall’odio per quello che viene fatto dal governo di Netanyahu.
Cadere in questa trappola è pericoloso e ogni antisemitismo è deprecabile tanto quanto lo sono i rigurgiti neoimperialisti dei supersionisti dell’estrema destra religiosa dello Stato ebraico che pretende di fondare il “Grande Israele“. Tuttavia la responsabilità è dello stesso gabinetto di guerra che mostrando tutta la sua spietatezza e la sua ostinazione a voler cancellare un intero popolo dalla sua terra, non fa che rinverdire i paragoni con il passato di altri popoli (tra cui quello ebraico) che hanno subìto l’odiosa, criminale pratica del genocidio.
Tanto che, per le azioni quotidiane dell’esercito israeliano, si parla di “massacri“, mentre se si inquadra il tutto in un contesto biennale, si può vedere chiaramente l’intento genocidiario previsto, studiato e messo in atto. La percezione di ciò non è solamente un riflesso di quella che viene etichettata come una “trovata propagandistica antisemita“, oramai fin troppo prevedibile e davvero nauseabonda obiezione del triumvirato dell’orrore, ma è un sentimento che oltrepassa la considerazione empatica sul mero piano etico. Quella tribolazione minuto per minuto della gente di Gaza urla alle coscienze che si muovono e che diventano partecipazione politica a tutto tondo.
Quei cortei sono serpentoni che esprimono una idea di civiltà, di società, di internazionalizzazione dei diritti che i governi oggi non considerano poi così rilevanti: non tutti, indubbiamente, ma molti Stati, importanti sul piano economico e finanziario, si pongono in aperto contrasto con una idea di uguaglianza che fa, senza tema di smentita, riferimento alla pienezza democratica liberalmente intesa in un gioco di un molto azzardato (e finto) equilibrismo col sistema capitalistico e con l’imperialismo.
Le destre neosovraniste e populiste, dall’Ungheria ad Israele, dall’Argentina agli Stati Uniti trasformano ciò che rimane dei sistemi democratici in regimi in cui la forma del rispetto avvolge la sostanza dell’intolleranza e della repressione. Il governo di Netanyahu – lo ha persino detto Antonio Tajani – «ha superato ogni limite» nella questione palestinese e, segnatamente, per quanto concerne Gaza. Ovvio, una dichiarazione di questa natura non è la misura di tutte le altre, ma comunque ha una sua rilevanza perché vuol dire che l’indecente carneficina è troppo, troppo per quasi chiunque, anche tra i più, fedelissimi amici dello Stato ebraico.
Lo sciopero proclamato dai sindacati di base è dunque riuscito nel migliore dei modi e oggi, proprio considerato tutto questo grande coinvolgimento popolare che travalica le singole posizioni e i perimetri delle associazioni che lo hanno promosso e vi hanno preso parte, possiamo superare le obiezioni di chi afferma che va stabilita una priorità degli scioperi e che alcuni sono più scioperi degli altri perché trattano problematiche inerenti la quotidianità dell’esistenza neopauperistica in cui tendono sempre più a ritrovarsi coloro che sopravvivono o vivono del loro lavoro (precario il più delle volte…).
Questo giochetto è degno soltanto di chi vuole sminuire il portato storico dell’eccidio di Gaza, di quello che il presidente brasiliano Lula ha definito all’ONU «l’annientamento del sogno di una nazione intera». Se provassimo anche soltanto per un istante a fare finta che l’azione di Israele contro la Striscia è solamente ciò che Israele sostiene di aver fatto e voler fare, ossia una rappresaglia contro Hamas, ci renderemmo conto che rimarrebbero intorno a noi i grandissimi numeri di morti che non avrebbero un senso. Per dare un senso a questi omicidi, bisogna contestualizzarli.
C’è una causa che non è il 7 ottobre 2023, ma il piano israeliano di utilizzare quella tragedia per avere il pretesto davanti al mondo di sistemare la questione palestinese una volta per tutte. Un redde rationem, quindi, con una nuova Nakba all’orizzonte: un nuovo esilio di massa, una nuova cacciata che ricorda la diaspora di quasi duemila anni fa del popolo ebraico, sparso per le terre allora conosciute. Non ha più alcuna motivazione storica la determinazione della proprietà della terra. La Palestina può essere vissuta da due popoli in due Stati.
Non ci sono molte soluzioni a questo dilemma: la prima è l’affermazione di Israele come unico Stato e nazione della regione in questione e, quindi, la completa esclusione dei palestinesi da quella che è anche la loro terra. La seconda è l’affermazione di un potere uguale e contrario a quello israeliano, con tutte le conseguenze che ne deriverebbero. La terza è la convivenza tra i popoli, la restituzione di tutto il Territorio occupato dal 1967 in avanti ad una Autorità Nazionale Palestinese magari rinnovata, con lo smantellamento di tutte le colonie in Cisgiordania.
Da qui difficilmente si può sfuggire. Al momento, certo, dati gli attuali rapporti di forza e le condizioni internazionali, l’azione dell’ONU sembra quasi una vox clamantis in deserto ma, ogni giorno che trascorre, si fa sempre più sbilanciato il peso tra ragione e torto, tra imbarazzo e sfacciataggine dei governi nel difendere l’operato israeliano. Soprattutto in riferimento ai fatti del 7 ottobre. Quella narrazione assume i contorni del parossismo se si pensa di poter davvero equiparare l’azione terroristica dei criminali di Hamas ai crimini di guerra e contro l’umanità che stanno durando da oltre settecento giorni a Gaza.
C’è, inoltre, una lezione per le sinistre e i progressisti di questa Italia meloniana di un 2025 che si avvia a test elettorali regionali di una certa importanza. E la lezione è data dal fatto che, quando l’evidenza e la crudezza dei fatti si staglia davanti ai nostri occhi e pervade le nostre menti (oltre che i cuori, si intende) e riguarda l’essenza stessa dell’esistenza di ognuno e di tutti, non c’è come risposta da parte della gente l’indifferenza, ma la partecipazione massiva. Questo dimostra che il disadorno culturame egoistico della destra non è riuscito del tutto a fare breccia nella gente e che, quindi, c’è chi, pur nell’indigenza, sciopera per Gaza.
Poi, certo, ci sono moltissimi italiani che invece non lo fanno, ma quanti possono essere davvero quelli che hanno il coraggio di voltarsi dall’altra parte e di fare spallucce? Molti, ma non così tanti da essere la maggioranza della popolazione. E, quindi, da questi presupposti va anche ricostruito un rapporto di fiducia con un elettorato che non considera il melonismo come un valore aggiunto del presente ma che, purtroppo, ha avuto molti motivi in un recente passato per avere sempre meno fiducia nell’alternativa alle destre rappresentata da una sinistra troppo compromessa con gli affarismi e i poteri determinanti gli assetti economici italiani (e non solo).
Non si può pensare di rimettere insieme un fronte politico senza vere un fronte popolare che gli corrisponda. L’assenza del PD alle manifestazioni e agli scioperi del 22 settembre 2025 è stata notata ed ha un valore politico che non può venire trascurato. L’auspicio è che l’unità mostrata da un grande movimento per la pace e la giustizia sociale, per Gaza come per ogni popolo che è in preda alle guerre e ai massacri, sia messa a valore e non strumentalizzata a fini elettorali. Sarebbe il peggiore dei modi per dare seguito ad un ricambio al governo del Paese che non sia solamente formale. Ma che, invece, deve essere fortemente sostanziale.
MARCO SFERINI
23 settembre 2025
foto: screenshot ed elaborazione propria







