La risurrezione, esorcismo bimillenario della paura della morte

La vita oltre la morte. La frase di per sé è concettualmente asciutta e non dice molto. Eppure ogni tanto si sente il bisogno, del tutto animalmente umano, di...

La vita oltre la morte. La frase di per sé è concettualmente asciutta e non dice molto. Eppure ogni tanto si sente il bisogno, del tutto animalmente umano, di ragionare e postulare in merito. Le domande sono tante quando si cerca di andare al di là della fisicità, della materialità dell’esistente. Si dice che non tutto quello che c’è è anche visibile e ciò dimostrerebbe il fatto che non è soltanto il senso della vista a determinare la concretezza di un qualcosa che pur essendoci non è percepibile direttamente da tutti i sensi o dalla maggior parte di loro.

Facciamo l’esempio più facile: l’aria, il vento. Ci sono, ma non le vediamo. Tuttavia le percepiamo mediante proprio la nostra corporeità: nel momento in cui siamo investiti da una folata di un fortunale, allora ci rendiamo perfettamente conto che non solo il vento esiste ma che è uno degli elementi naturali che, unito agli altri, condizionano la nostra vita sulla Terra. La materia, dunque, di per sé, può essere visibile o invisibile: basti pensare che – riferiscono gli scienziati – la materia oscura presente nell’Universo rappresenterebbe ben il 90% dell’intera materia di cui è formato lo stesso.

Mentre il 27% della densità di energia totale dell’universo osservabile sarebbe ascrivibile alla stessa materia oscura appena citata. Siamo nel campo delle ipotesi, perché parliamo di una componente dell’esistente che non emette radiazioni elettromagnetiche e, quindi, non è in nessun modo osservabile e riscontrabile. Tranne mediante gli effetti gravitazionali che produce. Ricorda un po’ – per chi ha visto la saga di “Star Wars” – quello che il maestro jedi Yoda chiama «lo sfuggente pianeta del maestro Obi-Wan», là dove si dibatte del fatto che nelle mappe interstellari manca un pianeta ma resta il contorno della gravità.

Lì si trattava di un complotto interno alla Repubblica galattica e, quindi, qualcuno aveva cancellato quel pianeta dalla memoria dell’archivio. Ma per noi, invece, si tratta di qualcosa che c’è e che non è stato cancellato da nessuno: semplicemente non è visibile né ad occhio nudo, né con i sofisticati mezzi che possediamo grazie alla scienza. Ma torniamo alla frase iniziale: la vita oltre la morte. Il visibile oltre l’invisibile. Perché l’esistenza è percezione, è tangibilità, mentre la morte è annichilimento seppure nella trasformazione. Sappiamo, nonostante quello che ne possano pensare alcuni teologi, che nulla va veramente perso e disperso.

Tutto si trasforma. Il dilemma sta, da millenni e millenni, nell’intuire – perché capire vorrebbe significare arrivare ad una qualche forma di conoscenza, seppure primordiale – se caso mai esista una parte di noi che non finisce al pari del corpo in un irrigidimento e raffreddamento degli organi interni così come di quelli esterni. La questione dell’anima che prende un’altra strada rispetto a quella della materialità fisica del corpo, è, a dire il vero, un problema che non nasce con il Cristianesimo predicato da Paolo di Tarso. Di rinascita e di risurrezione si parla quasi esclusivamente quando ci si riferisce a quella di Gesù di Nazareth, del Cristo.

Ma risurrezione e vita oltre la morte sono la medesima cosa? Ad un primo sguardo parrebbe di poter rispondere affermativamente. Invece esistono delle micro differenze di chiara matrice teologica che, nel corso dei secoli, hanno raffinato (o complicato, a seconda delle interpretazioni fideistiche o laiche) il quadro già piuttosto ginepraico del teleologismo cristiano e, nello specifico, cattolico. Tra i tanti dogmi imposti dalla Chiesa di Roma, ci si può comunque fare strada nella ricostruzione evangelica del momento della risurrezione.

Perché abbiamo affermato che c’è una qualche differenza con quella di tutte le altre creature di Dio rispetto al Figlio di Dio? Perché quella di Gesù antecede la credenza escatologica della risurrezione della carne, quindi del ricongiungimento delle anime dei defunti con i loro corpi nella condivisione della vita eterna con tutti i loro cari, congiunti e persone a cui hanno voluto bene. Senza offendere la fede di nessuno, è evidente che se questa visione ultraterrena e post mortem la si affronta con il beneficio della sola razionalità, pare veramente in-credibile, nel senso di impossibile da credere.

Ma, del resto, è proprio delle scritture considerate sacre la sottolineatura della parole di Gesù che, appena risorto e apparso ai discepoli, innanzi all’incredulità di Tommaso, afferma: «Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno!» (Giovanni, 20, 26-29). Quindi, la fede vera risiede non tanto nella prova oggettiva dell’esistenza di Dio e della risurrezione del suo Figlio unigenito: l’unico quindi avuto da una madre mortale e da un padre immortale. Possiamo aggiungere, l’unico ad avere questa progenie. La morte, dunque, non poteva vincere Gesù Cristo.

Per il racconto evangelico e la predicazione di Paolo nei suoi viaggi in Oriente, era necessario che si affermasse questo principio: che non solo le anime avevano diritto all’immortalità, ma anche i corpi. La promessa dell’eternità dell’esistenza non è un qualcosa che riguarda l’impalpabilità eterea di quello che gli antichi identificavano più che altro in un “soffio” vitale, ma deve afferire anche alla fisicità vista come completezza del tutto, come elemento consustanziale ad una parte che potremmo definire più “spirituale” di noi stessi, prescindibile fino ad un certo punto dalla materialità che ci riguarda.

Visibile ed invisibile giocano, quanto meno psicologicamente, un ruolo non di poco conto nella presa in considerazione di queste ipotesi religiose cristiane e cattoliche. Un conto è la materia oscura dell’Universo su cui si può indagare facendosi spazio tra mille dubbi; un altro conto è affidarsi ad un principio di fede che concerne la risurrezione dei corpi. Quando il cadavere di Gesù viene posto nel sepolcro di Giuseppe di Arimatea, di cui Marco ci dice essere stato un «membro distinto del Sinedrio» (15, 43), sappiamo che si trattava di un giorno denominato “parasceve“, ossia la vigilia del sabato, il giorno di riposo obbligatorio, il giorno sacro per il popolo ebraico.

Il corpo di Gesù viene frettolosamente deposto dalla croce perché ogni attività, anche quella della sepoltura di un morto, non era fattibile nel giorno del sabato. Il Deuteronomio informa che: «Il suo corpo non passerà la notte appeso, ma lo seppellirai senza fallo lo stesso giorno, perché colui che penzola dal legno è maledetto da Dio» (21, 23). Dunque, il corpo di Gesù, secondo l’usanza ebraica, viene preparato con una unzione di mirra e aloe (forse diluiti in olio di oliva), bendato o avvolto in un lenzuolo (“sindón“) e lasciato nel sepolcro chiuso con una pesante pietra.

Il particolare, tutt’altro che irrilevante, del panno che avvolge il corpo, darà seguito alla disputa plurisecolare sull’autenticità della celebre “Sacra Sindone” custodita a Torino: rappresenta un uomo certamente torturato e crocifisso che, secondo la tradizione cristiana, sarebbe appunto il Figlio di Dio risorto, la cui immagine sarebbe rimasta impressa nelle sottili fibre di lino. A questo proposito, il problema della risurrezione, del visibile oltre l’invisibile, della vita oltre la morte, si fa piuttosto interessante (caso mai non lo fosse ancora…).

In un interessante libro di Giuseppe Baldacchini, fisico e dirigente dell’ENEA di Frascati, si fa riferimento, come spiegazione della scomparsa del corpo di Gesù al fenomeno dell’annichilazione materia-antimateria. In sostanza, il lenzuolo rimane integro nel sepolcro, ma Cristo scompare. Come se si fosse dissolto, come se non fosse mai stato presente in quel luogo. Semplicemente, quando arriva Maria di Magdala e trova la tomba aperta e uno o due angeli ad annunciare la risurrezione, il cadavere non c’è più.

L’ipotesi più probabile che avrebbe fatto qualunque investigatore dell’epoca avrebbe coinciso con i timori dei sacerdoti: il trafugamento da parte dei discepoli per realizzare la profezie del terzo giorno. Gli evangelisti vogliono dimostrare che le parole di Gesù stesso si sono avverate: «Il terzo giorno risorgerò» (Marco, 9, 31; Matteo 17, 23; Luca, 9, 22). Il terzo giorno è la Pasqua, la domenica nostra, il giorno del Sole per i pagani romani. La commistione simbologica tra la risurrezione e lo splendore di Elio non si riferisce soltanto alla più importante festività ebraica ma è stata riportata dal Cristianesimo direttamente al tempo della nascita di Cristo.

La coincidenza (leggasi: il voler far coincidere…) fra la data del Natale e la festività romana del “Sol Invictus” (quindi della luce che non viene sconfitta dalle tenebre dell’incedente inverno) rivela la necessità di creare un ciclo perpetuo tra nascita, morte e risurrezione di Gesù per dare un significato teleologico all’intera narrazione cristiana sul ruolo di colui che, da Paolo in avanti, sarà il Figlio di Dio. Tornando un attimo alla questione della sparizione del corpo del Nazareno nel e dal sepolcro (la distinzione tra le preposizioni articolate va tenuta a mente…), è utile riferirsi ancora all’annichilazione materia-antimateria (AMA) di cui parla il professor Baldacchini.

Nelle attuali conoscenze fisiche che abbiamo, non vi è nessuna spiegazione maggiormente assimilabile all’ipotesi della scomparsa di un corpo se non quella, appunto dell’AMA. Sostiene il fisico dell’ENEA che questo procedimento, riprodotto solo a livello subatomico nei laboratori di particelle elementari, potrebbe dare una qualche ragione di coerenza al racconto evangelico che ci descrive Gesù morto, sepolto e risorto, quindi scomparso da un luogo e poi apparso in altri luoghi in tutte le sue fattezze fisiche e non soltanto in forma di spirito.

Lo stesso studioso (cattolico) ammette che siamo ai limiti tanto della teologizzazione della risurrezione, quanto del tentativo di spiegazione scientifica. In sostanza, si può solo ipotizzare, ma non si può dimostrare nulla di tutto ciò. La risurrezione dei corpi è un passaggio della concezione della vita oltre la morte che implementa le già tante ipotesi fatte da culture e filosofie in molti secoli precedenti la nascita di Gesù di Nazareth. Gli ebrei, popolo a cui egli apparteneva, si riferivano all’esistenza dell’anima, distinta dal corpo, come ad un “respiro” che chiamavano “ruah“: niente di più

Aristotele stesso vi si riferisce col termine πνεῦμα (“pneuma“) quale “forma” dell’essere che ha vita, operando una distinzione con il νοῦς (“noûs“), ossia il pensiero e, ancora, con la ψυχή (“psiché“) definibile in quanto “sentimento“. Paolo di Tarso, invece, assegna all’anima una propria consistenza che, quindi, va di pari passo con la fisicità dell’essere di ognuno di noi. La risurrezione, la vita oltre la morte, è fatta tanto dell’immateriale quanto del materiale. L’anima non è più un soffio pagano, ma diviene, come invenzione del Cristianesimo, qualcosa di molto diverso rispetto alle culture del passato.

Come ha molto ben scritto Marcello Craveri in “Un uomo chiamato Gesù” (Demetra edizioni, 1996): «…l’idea della sopravvivenza dell’anima è una compensazione psicologica della paura della morte, della difficoltà di rassegnarsi al fatto che cessata la vita non ci sarà più nulla». Non è possibile sapere se sia veramente così. Il punto di nonvista dell’agnostico (che è quello di chi scrive qui) consente di mettere da parte la rassegnazione ateistica e, al contempo, la semplicistica spiegazione fideistica dell’ipotesi-Dio nella “creazione” dell’Universo e dell’esistente nella sua accezione più ontologica possibile.

Il fascino di questi intrecci misteriosi lo dobbiamo – riconosciamolo – ad una fervidissima immaginazione degli antichi che, per lenire le sofferenze dell’esistenza, per ridimensionare quanto meno l’incomprensibilità della vita e, non ultimo, per creare un potere da affiancare a quello imperiale romano e gestire grandi interessi economico-sociali, costruirono a poco a poco una narrazione dell’esistenza di Dio che, purtroppo per lei, rimane ampiamente nel metafisico e non può attribuirsi nessuna primazia rispetto alle altre fedi.

La molteplicità delle religioni, del resto, è giustificata dai teologi con un ancestrale istinto primordiale (noi lo chiameremmo “bisogno“) ad affidarsi alla superiorità del divino che può tutto, rispetto alla fallace incompletezza umana che non può, tanto per fare un esempio calzante, sconfiggere la finitudine di sé stessa: è nel tempo, in un contesto dato, e lì rimane. Nasce, cresce e muore l’essere vivente. Non solo quello umano. Ma tutto è e diventa altro da sé stesso: stelle, pianeti… forse anche la materia oscura muta e condiziona l’espansione e l’esistenza dell’Universo.

Godiamoci la straordinarietà del mistero, l’inebriante vertigine che genera…

MARCO SFERINI

13 aprile 2025

foto: screenshot ed elaborazione propria

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Il portico delle idee

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