La rinascita della NATO nel furore del riarmo generale

Peggiore locuzione per far intendere ciò che lei reputa il percorso del tacere delle armi, Giorgia Meloni non poteva usare: «Si vis pacem, para bellum». Se vuoi la pace,...

Peggiore locuzione per far intendere ciò che lei reputa il percorso del tacere delle armi, Giorgia Meloni non poteva usare: «Si vis pacem, para bellum». Se vuoi la pace, quindi, prepara la guerra. Chi l’ha anticamente adottato, come emblema iconico dell’imperialismo del mondo romano, come esibizionistica manifestazione di brutale forza, è stato, a sua volta, conquistato qualche secolo dopo: non c’è guerra che tenga davanti ai capovolgimenti sociali, alle rotte delle migrazioni di interi popoli che cercano la sopravvivenza.

L’Impero dell’Urbe ha preparato tante guerre e ha, certamente, anche vissuto periodi di pace: tra tutti quelli celeberrimi, il più giustamente citato è la “Pax Augusta“, altrimenti detta appunto “pace romana“, di tutto il popolo. Le porte del Tempio di Giano vennero allora chiuse: i conflitti interni allo Stato erano terminati e, anche per mare, i successi delle flotte del princeps davano adito al fatto che, ben presto, pure sulle acque non vi sarebbero più stati eclatanti scontri con bande di pirati.

Tuttavia, se la Storia insegna, continua ad avere pessimi scolari. La megalomania trumpiana spinge l’Europa ad abbracciare il diktat di Rutte: almeno il 5% del PIL di ogni paese dovrà essere investito in armamenti, per la difesa nazionale e comune, per foraggiare l’Alleanza atlantica. Plaudono un po’ tutti, si inchinano più o meno ossequiosi davanti al magnate-presidente. Tranne il premier spagnolo Pedro Sánchez che non ci sta. Il suo paese può sostenere già a fatica il 2,1%, figuriamoci l’aumento di tre punti in percentuale.

Lo dice senza mezze misure e fa indispettire il presidentissimo a stelle e strisce che, infatti, minaccia – come è suo costume politico fare – nuove sanzioni, dazi più alti per la sola Spagna. Difficile anche tecnicamente pensarlo, visto che Madrid fa parte dell’Unione europea e che, quindi, le imposizioni fiscali estere si applicano all’intera UE e non ad uno solo dei suoi Stati membri. Misteri del trumpismo. Tant’è, i problemi sul tappeto ora riguardano il rapporto del riarmo europeo (e mondiale) con lo stato sociale.

Non c’è molto da discutere in merito: per avere le risorse necessarie a soddisfare le percentuali imposte dalla NATO i governi dovranno muoversi o sul piano di una maggiore tassazione o su quello del taglio delle già magrissime risorse per la sanità, la scuola, le pensioni, le infrastrutture, la cultura, l’ambiente… Non se ne esce da questo ingarbugliato ginepraio di una economia di guerra che non lascia presagire nulla di buono sul fronte delle tutele sociali.

Siccome è altamente improbabile che il governo di Giorgia Meloni faccia una patrimoniale per pagare l’implementazione dei costi della spesa per la difesa, ci si deve attendere un ulteriore taglio per le voci che riguardano diritti fondamentali di ogni cittadino. Migliore alleato della NATO riguardo la furia per il riarmo a tutto spiano è la Germania di Merz che, ancor di più rispetto a Macron, reputa necessario rafforzare il “pilastro europeo” dell’Alleanza. Un proposito che è vincolato ad un potenziamento della Bundeswehr per farne – letteralmente nella prima dichiarazione del cancelliere ad inizio mandato – «l’esercito convenzionale più forte d’Europa».

Ambizioni che l’Italia non ha mai avuto e tutt’ora non ha; ma non c’è dubbio che le compatibilità continentali (e più latamente globali) inducano la Presidente del Consiglio a rimettere mano al paniere della spesa, rassicurando per ora sulla sostenibilità dei costi, salvo domani iniziare, nel lungo decennio che ci attende in questo senso, a tagliare là dove si è già tagliato tanto, troppo e a far dimagrire il comparto dei servizi nel nome di Mark Rutte e della fedeltà ribadita a Donald J. Trump.

Spalmata, appunto, su dieci anni, questa implementazione della spesa bellica significa, in cifre nude e crude passare dagli attuali 45 miliardi (35 per la difesa, 10 per la sicurezza) a 145 miliardi. L’aumento annuo oscillerebbe tra i 9 e i 10 miliardi. Non sono proprio noccioline o, come avrebbe detto Totò, fiaschi che si gonfiano. Già solo per arrivare al 2% richiesto anzitempo dalla NATO, l’esecutivo aveva messo dentro al capitolo “difesa” le spese correnti in ambito cyber, spazio, telecomunicazioni, mobilità militare e quelle per tutti gli altri corpi militari come Guardia Costiera e Guardia di Finanza.

Sintomo evidente di una oggettivissima difficoltà a reperire già quel “poco” di risorse in più che venivano chieste per affrontare lo sforzo bellico contro la Russia. In Parlamento le parole di Giorgia Meloni sono state tutte rivolte ad un carico della spesa ulteriore sul deficit di bilancio. Il che, tradotto papale papale, vuol dire che peseranno sulle spalle di tutti i cittadini e che, quindi, come volevasi dimostrare il governo taglierà sui servizi sociali, sull’assistenza, sui comparti scolastici, sulla cultura, sulle tutele territoriali…

Là dove non dovrebbe essere toccato nulla e dove, anzi, si dovrebbero aggiungere nuovi introiti da parte dello Stato, proprio in quegli ambiti si registreranno i tagli maggiori. Le risorse per la spesa militare vera e propria passerebbero dunque dal 2 al 3,5% e il restante 1,5 sarebbero aumenti di gettito per le infrastrutture comunque sempre legate a scopi di difesa e, quindi, molto indirettamente di guerra. Il punto in questione è l’oramai consolidata strategia dell’asse euro-atlantico per un riarmo a tutto spiano, senza nessun timore per le difficoltà economiche che la UE incontrerà sulla sua strada.

Intento si consumano gli applausi dei dirigenti delle grandi aziende produttrici di armi e di cybersicurezza: si preannunciano, come la tempo del Covid per le industrie farmaceutiche, affari enormi, per usare un eufemismo. Il messaggio che il vertice NATO dell’Aja manda al mondo è chiaro: non smobilitiamo, non vogliamo affrontare la fase multipolare in un regime di concorrenza (liberisticamente comunque spietata) e ci riarmiamo per mettere in guardia il resto del pianeta. Chiunque pensasse di penetrare nell’emisfero occidentale con una politica imperiale, avrà a che fare col trumpismo da un lato e con l’atlantismo dall’altro.

L’opposizione al governo Meloni assume oggi un carattere antibellicista più ancora di ieri, proprio per l’impegno senza se e senza ma messo dalla premier nello stare completamente dentro la tenaglia trumpiano-rutteriana. L’Europa di von der Leyen, a questo proposito, farà la sua parte nel definire le possibilità di scostamento di bilancio di anno in anno, imponendo tutto il rigore che le procedure di infrazione determinano. Una gimkana tutt’altro che facile per l’esecutivo.

Da un lato la sua popolarità potrebbe diminuire per via dei tagli che saranno praticati alla spesa sociale. Dall’altro l’emergenza dei tempi potrebbe essere utilizzata come facile propaganda per giustificare i tagli stessi. Non è quindi affatto detto che, in questo scenario di asperità, anche all’interno della maggioranza di destra-destra, si registri alla fine un salutare contraccolpo che la faccia deragliare per lasciare posto ad una opzione di guida del Paese spostato sull’equità fiscale, sulla giustizia sociale, sulla via del disarmo o, quanto meno, del rallentamento e della fermata della corsa al riarmo.

Tutti gli indicatori vanno, purtroppo, nella direzione opposta. Ma potrebbe essere, a quel punto, la congiuntura internazionale a farla da padrona: le crisi del capitalismo, in questa complessa fase multipolare, dove le guerre sono sempre la prosecuzione di una politica che cerca i suoi più sicuri assestamenti, è capace di generare quel rischio di “stagflazione” che nemmeno l’audacia delle politiche di aumento esponenziale dei dazi da parte di Trump è riuscita a contenere del tutto e a spazzare via dalle ipotesi delle agenzie di rating e di controllo del capitale globale.

Chi può avere la certezza che le ripercussioni inflattive non vi saranno là dove le tassazioni sui prodotti importati saranno esorbitanti? Nessuno. Dopo essere passato dal 2,5 al 18% di aumento dei dazi sulle merci in ingresso negli Stati Uniti d’America, Trump ha dovuto fare molte marce indietro. Anzitutto con il Regno Unito e con la Cina. L’inflazione sembra essere ugualmente sottovalutata anche da Giorgia Meloni: oltre ai tagli che si registreranno sui capitoli di spesa sociali e infrastrutturali, i costi ulteriori si avranno proprio sul classico paniere della spesa considerato dall’ISTAT.

Nel mentre la NATO schiera la sua linea di attacco economico-finanziario e si approvvigiona a suon di lacrime e sangue da parte dei popoli del Vecchio continente, proprio la Banca Europea per gli Investimenti ha approvato un aumento davvero imponente dei finanziamenti per una riconversione dell’economia della UE in chiave bellica: ben 100 miliardi di euro per il 2025. Va da sé che il piano di sostegno all’Ucraina rientra in questa cifra e che vi è contenuta anche quella della costruzione di una base militare in Lituania al “solo” costo di 540 milioni di euro.

L’Alleanza atlantica mette il turbo e l’Europa, con tutte le sicurezze che sarebbero necessarie, a partire da quella delle tutela della salute, entro un più ampio quadro di aggiornamento dello stato sociale, punta quasi esclusivamente tutto sugli armamenti e sull’ipocrita concetto di “difesa“. Se la “guerra dei dodici giorni” non fosse appena terminata (ammesso che lo sia veramente…), la NATO si sarebbe impegnata – come da dichiarazioni del suo Segretario generale – nel garantire l’apertura dello stretto di Hormuz.

La politica di Trump – sostiene Mario Draghi – ha compromesso l’ordine multilaterale irreversibilmente (Coimbra, Portogallo, 14 maggio 2025). Ma l’impressione è che, oltre a questo fattore, che impressiona indubbiamente il capitale internazionale e lo lascia attonito davanti ai punti e ai contrappunti del presidentissismo, la guerra sia la cifra con cui valutare la reversibilità degli avvenimenti globali e delle loro ripercussioni su scala più prettamente continentale e nazionale. La politica schizofrenica dei dazi non ha avuto altro fine se non quello di testare le reazioni dei mercati e di capire quale era il punto di non ritorno.

Fino a che livello poteva spingersi il sogno neoimperiale del MAGA, garantendo tutti gli interessi privati che, a loro volta, supportano il magnate? Gli Stati Uniti ne sono usciti con la reputazione a pezzi e l’avanzata cinese intanto ha continuato la sua strada. I fatti mediorientali hanno, poi, costretto Washington a rimettere in gioco il suo potenziale bellico e, di qui, il recupero del 5% di cui fa sfoggio Trump: effettivamente l’Europa si è piegata al volere dell’imperatore. Solo la Spagna si è ribellata. Dell’Italia si è già, pietosamente, detto abbastanza…

MARCO SFERINI

26 giugno 2025

foto: screenshot ed elaborazione propria

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