Appena reinsediatosi alla Casa Bianca, Donald J. Trump ha messo mano a carta e penna e ha firmato una valanga di ordini esecutivi: sono atti che il presidente emette e che sono indirizzati a tutte le agenzie governative federali. Tra questi, uno dei primissimi provvedimenti emessi riguardava la militarizzazione del confine con il Messico: una frontiera dalla quale passavano non solo il narcotraffico e altri commerci illeciti, ma un gran numero di migranti provenienti dall’America Latina e da molte altre parti del mondo.
La costruzione del muro non bastava secondo Trump. Serviva qualcosa di più: dare ai militari il controllo della zona, consegnare loro la diretta responsabilità delle operazioni sia di pattugliamento sia di (letteralmente) «sigillare i confini, preservare la sovranità, l’integrità territoriale e la sicurezza degli USA respingendo forme di invasione comprendenti le migrazioni di massa illecite, il traffico di narcotici, di esseri umani». Si potrebbe concordare solo negli ultimi due casi.
A patto che si trattasse di una vera buona fede politica e non di un ennesimo doppio peso propagandistico per dissimulare le vere ragioni di questi ordini presidenziali: alimentare nell’opinione pubblica americana la mancanza di empatia nei confronti dei migranti definiti ancora più marcatamente come “irregolari” e, quindi, associati a ciò che di altrettanto irregolare passa dal confine segnato dal Rio Grande. Il dilagare ormai irrefrenabile del trumpismo, come modello di neoautoritarismo collocato in una cornice fintamente democratica e rispettosa dello Stato liberale, è possibile grazie a gravi errori del passato.
Del recente passato, ma anche di una impostazione iperliberista che ha consegnato la più grande democrazia del mondo (almeno così sulla carta…) ad una torsione davvero impressionante verso qualcosa di ancora più singolare delle trasformazioni in democrature dei vecchi regimi parlamentari o presidenziali di fine Ottocento e di tutto il Novecento. Il muro costruito al confine con il Messico, infatti, non è stato opera soltanto dei repubblicani conservatori e xenofobi. Anche i democratici hanno partecipato all’impresa: a partire dagli anni Novanta del secolo scorso. Si trattò di un esperimento che, sul piano psicologico-culturale, funzionò.
Dava l’impressione, con la sua staticità visibile e incontestabile, di essere la barriera per eccellenza e che sì, doveva stare lì, per fermare le migrazioni date ad intendere come fenomeni non storici e, quindi, non contenibili più di tanto (basti pensare alle migrazioni dei popoli asiatici verso l’Europa e il Medio Oriente romani; oppure all’espansione proprio europea nel resto del mondo con intenti devastanti segnati dal marcato intento imperialista e colonizzatore…). Il messaggio delle amministrazioni americane era chiaro: sicurezza al di qual del muro, in patria; completa insicurezza e disumanizzazione al di là del muro.
I migranti sono diventati in questi decenni l’oggetto di una politica che ha preteso di imporsi come una sorta di chiave di volta per problemi di più ampia natura, perché provenienti da molto più lontano, nel senso temporale del termine: la questione dell’indigenza crescente, della crisi economica globale con tutti i suoi riflessi locali, continentali e nazionali, è stata opportunisticamente attribuita alla causa di una immigrazione irrefrenabile piuttosto che alle politiche di protezione dei profitti, di spietata concorrenza tra le parti e le nazioni emergenti nella fase del nuovo multipolarismo.
La frammentazione sociale è divenuta, ad un certo punto, qualcosa di essenziale per un capitalismo che ha sostenuto una ragione politica innestata sulla non universalità dei diritti: un enorme passo indietro rispetto all’Illuminismo settecentesco, alla ventata rivoluzionaria francese, a tutto ciò che è, lentamente, progredito in materia di uguaglianza civile, sociale, morale e culturale tra i popoli di mezzo mondo. Perché si è teorizzata l’ineguglianza ancora una volta? Perché lo si riesce comodamente a fare in questa nostra presunta “modernità“, in cui abbiamo dati per scontati tanti diritti?
Perché, in estrema sintesi, le diseguaglianze prime, quelle materiali, quelle date da un sistema economico in profonda crisi di identità e di crescita, proprio nei nostri tempi ottusamente moderni, andavano non ascritte al capitale, all’imprenditoria, al mondo della grande finanza. Andavano scaricate sulle povere spalle dei più miseri e derelitti ultimi del mondo: i migranti. Tanto nel primo Novecento, quando frotte di italiani passavano l’Atlantico per andare nell'”America lontana e bella“, quanto oggi, in un primo quarto di secolo del nuovo millennio in cui ci sono tante guerre sparse per il pianeta quante mai se ne sono viste in un singolo lustro.
Le rivolte di questi giorni contro la stretta repressiva di Trump sui migranti, ed il nome che il movimento spontaneo si è dato “No Kings“, ci dicono che c’è molto di più rispetto ad una rivolta episodica: il fatto che si stiano diffondendo in tutti gli Stati Uniti è il segnale di un malessere diffuso contro una maestà della Casa Bianca che disprezza il diritto umano tanto quanto la separazione dei poteri liberalmente intesa per oltre due secoli e mezzo. Non si può dire che l’altra parte dell’America, quella che ha votato Trump, abbia preso consapevolezza del fatto che la sua politica reazionaria non abbia nulla di sociale e di popolare.
Ma si può invece affermare che c’è del malcontento anche nel suo elettorato e che, visti i mancati interventi proprio in materia economica, si stia diffondendo quanto meno uno scetticismo diffuso: la politica dei dazi, venuti più a miti consigli con il gigante cinese, ha fino ad ora penalizzato anche i settori produttivi e le aziende coinvolte, ma soprattutto si è riversata nei suoi effetti negativi su una vasta fascia di popolazione che ha visto aumentare i costi delle materie prime e dei prodotti di largo consumo.
Trump evita di affrontare la questione strutturale di una economia già in declino. Per evitare di fare questi conti primari, sposta non solo l’attenzione ma tutta la narrazione della sua politica sui migranti come causa originaria del disastro in cui versano i conti a stelle e strisce. Per troppo tempo gli Stati Uniti d’America sono vissuti al di sopra delle loro possibilità, aumentando il debito, implementando il riarmo, sostenendo spedizioni belliche disastrose qua e là per il mondo, coltivando un sogno neoimperiale e coloniale che si è infranto contro la dura realtà del multipolarismo.
Il problema della sostenibilità del debito americano ora viene al pettine. Gli indicatori economici ci dicono che il debito federale si attesta, nel rapporto tra deficit e PIL sul 7%. Una soglia tollerabile ma sempre più difficile da reggere sul lungo-medio termine. Trump può anche spacciare tutto questo come il frutto delle sole politiche sbagliate di Biden e Harris, ma non è così. I democratici hanno la loro parte di responsabilità, non c’è alcun dubbio, ma non sono gli unici ad aver alimentato un paniere dei sogni e alla fine un drammatico risveglio.
Le politiche migratorie, in tutto questo disastro finanziario ed economico, hanno una parte relativa e non certo sono la causa scatenante della disaffezione che il mondo ha nei confronti degli USA: la percezione un po’ comune è che non ci si possa poi tanto fidare di Washington. Soprattutto ora che Trump è stato rimesso alla Casa Bianca da un voto consolidatosi attorno ad un populismo che nuoce al Grande Paese perché crea delle distinzioni che erodono l’essenza stessa del liberalismo americano, mettendo soltanto il liberismo alla guida di tutto.
Non solo la Cina, ma anche l’Europa, vista come una palla al piede, un’irrilevanza, una sorta di colonia di secondo, terzo ordine, dubitano della stabilità politica di un esecutivo che, per l’appunto a soli sei mesi dal suo insediamento, oggi incontra il primo grande ostacolo di massa: il movimento contro la repressione degli immigrati. Il presidente parla di deportazioni senza nessuna remora: di arresti in massa, migliaia su migliaia. Impone agli Stati un pugno duro che rischia di alimentare tensioni difficilmente gestibili localmente.
La coltivazione del razzismo a buon mercato, unita alla crisi economica e sociale, ha dato seguito ad una trasformazione del senso di comunità, della percezione dello stesso persino tra i migranti di altri paesi giunti negli Stati Uniti, creando così un trasversalismo molto inquietante e pericoloso. Parallelamente alla fine dell’unicità americana in materia di costituzionalismo democratico e separazione dei poteri, sembra oggi venire progressivamente archiviata anche la straordinaria stagione del dominio economico globale da parte degli USA. Quando si parla di affermazione del multipolarismo, è proprio questo che si vuole intendere.
Gli Stati Uniti nascono, coast to coast, come nazione colonizzatrice, a discapito dei nativi americani, con il genocidio dei cosiddetti “indiani“. Eppure riescono ad affermarsi mondialmente come i campioni della democrazia. Quella anglosassone, quella di uno ius di provenienza europea, in quanto di antica discendenza romana, unitamente alla cultura democratica ellenica. Sono la nazione che si ribella ai re e che, quindi, getta a mare i privilegi aristocratici e vince la Guerra di Indipendenza. Tutto nasce da qui. Per oltre due secoli e mezzo sono stati questo.
Pur essendo solcati dalle contraddizioni del razzismo schiavistico, del segregazionsimo, del maccartismo, della violazione dei diritti umani più elementari nelle prigioni di Abu Ghraib e di Guantanamo. Proprio quest’ultima dovrebbe essere il luogo di deportazione degli arrestati da espellere: si parla di novemila persone. Novemila migranti, tra cui anche degli italiani. Metà della popolazione statunitense plaude al presidente perché viene indotta a credere che si possa fare a meno dell’immigrazione e viene raccontata solo ed esclusivamente come un problema.
Ma le migrazioni non sono un qualcosa di straordinariamente eccezionale nella lunga storia del cammino (dis)umano. Sono una regolare normalità: i popoli si spostano e lo fanno per cercare di sopravvivere su un pianeta che, oggi, ha il grande problema della gestione dello squilibrio ecosistemico. Dove ci sono fame, guerre, carestie, i popoli emigrano. Trump può tentare di far credere agli americani che sia un problema risolvibile con la forza dell’esercito (che compie due secoli e mezzo di vita proprio il giorno del compleanno del re-presidente), ma non è e non sarà mai così.
MARCO SFERINI
12 giugno 2025
foto: screenshot ed elaborazione propria