Per troppi decenni siamo stati abituati a credere che le ragioni della politica internazionale degli Stati, delle potenze globali, si fondassero su una sorta di etica sovraordinante il mondo, su un principio di regolamentazione etica dell’esistenza dei popoli da parte della ovvia, oggettiva, incontestabile natura paterna dei governi. Ci è stata venduta la favoletta del mondo libero contro il mondo tirannico: dell’ovest democratico e liberale contro l’est autocratico, teocratico, post o ancora facente riferimento al comunismo come la peggiore delle dittature possibili.
L’unico merito che possiamo attribuire ad un conservatore, autoritario e retrivo Presidente della Repubblica degli Stati Uniti d’America è questo: aver mostrato a tutte e tutti come realmente stanno le cose. Niente più infingimenti, niente più finte cortesie; al bando il galateo istituzionale. Pane al pane, vino al vino, occhio per occhio e dente per dente. Abbiamo finito i proverbi e le circonlocuzioni per dire che Trump e Vance non usano mezzi termini, non fingono: quel che vedete, pur nella rappresentazione teatrale del gioco a due, è quello che realmente sono.
E quello che dicono è quel che realmente pensano, dopo aver concordato dei tatticismi per dare qualcosa di più di un segnale al mondo nel momento in cui incontrano i loro corrispettivi europei o mentre, nell’occasione di conferenze stampa solitarie, si lanciano in dichiarazioni di assimilazione di sempre maggiori fette di pianeta all’impero americano. Il modo di esprimersi, un linguaggio veramente gretto, platealmente aggressivo, con toni di saccenza muscolare e di irriverente protervia, fa parte di un nuovo corso involutivo dell’amministrazione delle amministrazioni.
Le formalità sono relegate in secondo piano: Trump getta in pasto ai media tutta la sua naturale prepotenza che, del resto, non è una novità. Nelle campagne elettorali non ha mai adoperato una comunicazione pacata o misurata: ma, si sa, i comizi hanno in sé quel carattere, l’esacerbazione dei toni è contestuale ad un momento in cui devi galvanizzare le tue folle e stimolare in loro tanto la rabbia quanto la passione e, dunque, sintetizzare il tutto in una fedeltà che si porteranno in cabina elettorale e che si trasformerà in consenso popolare.
Il passaggio dal condiscendente bidenismo, portatore di una declinazione dell’imperialismo americano in netta contrapposizione con la Russia di Putin, collaborativo con l’Unione Europea e dialogante con la Cina di Xi Jinping, alla pratica del neo-isolazionismo trumpiano, volutamente avversario del multipolarismo globale, lo si comprende sempre meglio ogni giorno che passa e, nello specifico, se ne è avuta una plasticissima rappresentazione nei quaranta minuti in cui alla Casa Bianca Volodymyr Zelens’kyj ha esposto le proposte ucraine sull’accordo che avrebbe dovuto firmare.
Un accordo sullo sfruttamento di quelle che vengono un po’ impropriamente definite “terre rare” e che sono delle ancora molto inesplorate zone minerarie critiche presenti nel sottosuolo dell’Ucraina martoriata da tre anni di guerra. Un accordo che, solo in parte, dovrebbe coprire le centinaia di miliardi di dollari che gli Stati Uniti hanno prestato a Kiev per combattere un conflitto in cui si sono scontrati non democrazia e libertà da un lato con autoritarismo e tirannia dall’altro: bensì due strategie neoimperiali per una riproposizione della propri egemonia, se non sull’intero pianeta, quanto meno su vaste zone dello stesso.
Volodymyr Zelens’kyj non è un ingenuo. Ma ha giocato e sta giocando una partita davvero troppo grande per il consenso che detiene e che si è, con l’allungarsi dei tempi di guerra, logorato. La furiosa lite in diretta televisiva, consumatasi nello studio ovale della Casa Bianca, potrebbe rappresentare per lui il principio della fine di una presidenza prolungatissima e che, proprio il carattere emergenziale, ha reso più fragile. Non poteva Zelens’kyj non sapere che, dopo l’avvicendamento tra Biden e Trump, la direzione che avrebbero preso le relazioni internazionali sarebbe stata quella di un abboccamento tra Washington e Mosca, relegando Europa e Ucraina ad un ruolo gregario.
Probabilmente il presidente ucraino non immaginava che il trumpismo fosse sinonimo di imboscata politica, di trappola mediatica, di umiliazione plateale. Ed invece è tutto questo. Il metodo è quello della bullizzazione dei propri partner se – come ha sottolineato il magnate – non sono soprattutto in grado di avere in mano nessuna carta passabile da giocare. Per quanto aggressivo e fermo sui suoi punti, Trump non ha trattato Macron nel medesimo modo in cui si è rivolto a Zelens’kyj. Questo significa che, anche nella totale grettezza e nella riproposizione di una ipocrita abiezione da parte del neoconservatorismo di Trump e Vance, esiste una scala valoriale.
Non tutti vengono riguardati allo stesso modo. Zelens’kyj è oggettivamente disprezzato dall’attuale amministrazione americana che, altrettanto oggettivamente, guarda a Vladimir Putin come ad un possibile interlocutore nel presente e un alleato nel futuro: i commentatori più esperti azzardano che questo sia un altro segmento di una tattica che punti a scindere gli interessi di Mosca da quelli di Pechino. Ma, almeno per il momento, quello che è dato vedere riguarda una trattativa per il cessate il fuoco in Ucraina in cui l’Ucraina non avrebbe voce in capitolo.
Vance e Trump hanno teso una trappola a Zelens’kyj. Nulla di meno della trappola in cui gli USA e la NATO hanno gettato l’Ucraina, sacrificandola sull’altare degli imperialismi che si combattono nella nuova era multipolare. Termina qui la narrazione illusionistica di una guerra fatta per il bene del pianeta, per la sopravvivenza della civiltà occidentale eticamente superiore al resto del mondo e, quindi, ragionevolmente dedita al riarmo a tutto tondo, ad investimenti sempre maggiori in spese militari per contrastare qualcosa che viene dipinto come una sorta di Quarto Reich putiniano.
Ciò che i repubblicani vogliono è garantire a sé stessi, ai loro referenti economici e finanziari una serie di garanzie che permettano l’ingrossamento di enormi privilegi di sfruttamento di quelle materie prime presenti oggi nel sottosuolo ucraino, ieri in quello afghano, iracheno, siriano… Le guerre imperialiste di oggi non sono poi così differenti da quelle timbrate “esportazione della democrazia” messe in atto contro la minaccia globale del terrorismo da loro finanziato per decenni prima che il gioco, nell’ambito della Guerra fredda, gli sfuggisse grossolanamente di mano.
Il modo con cui Trump si rivolge agli altri capi di Stato ricorda lo svilimento progressivo dei rapporti internazionali tra i governi che si iniziò a vedere nel momento in cui la Germania nazista pretese sempre più e concesse sempre meno, nella quasi totale accettazione delle sue condizioni per evitare che in Europa scoppiasse una guerra totale. Il Commander in chief non finge, non dissimula, non si nasconde dietro giri di parole. Firma decine e decine di ordini esecutivi con cui stabilisce un complessivo arretramento politico, sociale, culturale che riporta gli Stati Uniti indietro di decenni in quanto a conquiste di libertà, di partecipazione e di condivisione dei diritti.
Poi punta su una rimodulazione della politica estera che, nel giro di pochi giorni, spiazza l’Unione Europea, rimette in gioco il bilateralismo tra Washington e Mosca, consegna a Netanyahu le chiavi della Cisgiordania e, per fare filotto, pubblica sui social un video in cui Gaza è ricca di imperiali statue d’oro del nuovo signore della globalizzazione iperliberista, della nuova internazionale di destra che getta la sua ombra su molta parte del globo. Indubbiamente Putin non è una garanzia di pace e di stabilità. Ma si può affermare che Biden e la sua corsa al riarmo lo fossero?
Alla luce di quello che sta accadendo proprio in queste ore, dopo la lite tra i presidenti nello studio ovale, dopo uno scadimento così gretto del linguaggio e della pratica politica, chi può essere al sicuro da una involuzione repentinissima di eventi che conducano verso uno scontro sempre più aspro tra cancellerie e un irrigidimento delle relazioni internazionali al punto da patirne anche (e soprattutto) economicamente i contraccolpo? Tronfiamente Trump giganteggia in altre minacce verso Bruxelles: verranno messi dazi del 25% su molti prodotti europei.
Se finirà la guerra in Ucraina, senza una pace degna di questo nome, si aprirà un altro conflitto a suon di imposizioni di gabelle e tassazioni che faranno aumentare i prezzi esponenzialmente. Che cosa ha ottenuto l’Europa accodandosi alla linea nordatlantica della NATO e dei democratici prima e durante tutta la guerra in Ucraina? Di essere sfruttata per il suo ruolo geopolitico e di essere gettata come un limone abbondantemente spremuto nell’angolo dell’irrilevanza più completa. Le divisioni interne ai Ventisette non hanno indubbiamente aiutato: la corda viene tirata da due opposti estremi rappresentati dal cieco atlantismo da un lato e dal filoputinismo magiaro dall’altro.
Trump non fa altro se non mostrare la politica imperialista americana per quello che è e, oggi, con tutta una serie di stupori e meraviglie, una vasta schiera di editorialisti finge di scoprire ciò che tutti sapevamo ma che, opportunisticamente, fingevamo di non vedere: non c’è mai stato nessun intento democratico nelle relazioni internazionali di Washington, ma soltanto il perpetuare quel ruolo di gendarme del mondo che gli Stati Uniti si sono dati e hanno avuto per lungo tempo, imponendo al contempo il dollaro come moneta e divisa regolante l’intera (o quasi) economia planetaria.
Il multipolarismo degli ultimi decenni ha messo in crisi questo ruolo primario e ha spinto tanto i democratici quanto i repubblicani (pre e intra-trumpiani) a riproporre, una logica di esistenzialismo unilaterale, la teoria isolazionista come moderno principio di salvezza del popolo americano e, almeno nell’estensione bideniana, della sfera occidentale del pianeta. Trump rovescia in parte tutto ciò e, pur in una accezione negativa della pluralità dei poli in espansione, soprattutto in direzione anticinese e anti-BRICS, mette a valore un divide et impera in cui la Russia ha un ruolo non proprio inaspettato.
Forse pochi pensavano che, in un mese appena dall’insediamento, il magnate si sarebbe spinto così tanto in avanti da rivoluzionare letteralmente lo scenario geostrategico europeo, confermando la linea preferenziale col Cremlino e trattanto l’Europa e Kiev come due servi sciocchi. L’avvertimento è abbastanza chiaro: gli Stati Uniti di nuovo conio conservatore e autoritario non sono disponibili ad amicizie senza se e senza ma. Tutto ha un prezzo e nulla è gratis. Zelens’kyj è il primo a pagare questo conto salato. Difficile poter dire chi abbia sottovalutato o sopravvalutato chi.
Certamente, però, il trumpismo è la politica dei colpi di scena, di un teatro dell’assurdo che non risparmia nulla alla compromissione perché è pronto a negare anche la luce del sole. Quindi, chi dovesse riporre fiducia nel rispetto degli accordi con la Casa Bianca, d’ora in poi è avvisato: nulla è per sempre, nulla vale veramente se non dopo l’approvazione del presidentissimo targato MAGA, a cui non difetta una umoralità che non gioca di sicuro un ruolo secondario nella presa delle decisioni da cui dipende la sorte di centinaia di milioni di esseri umani e del pianeta per intero.
Chi volesse ancora proporre la tesi della superiorità occidentale, delle guerre fatte per la difesa della democrazia e della libertà, si accomodi. C’è una poltrona dell’umiliazione sotto i riflettori nello studio ovale della Casa Bianca pronta per lui…
MARCO SFERINI
1° marzo 2025
foto: screenshot tv ed elaborazione propria