Le parole precise sono queste: «È il momento della pace attraverso la forza». Ed anche queste: «è una tappa per arrivare alla difesa comune, questo mi auguro, vedo e spero. Sono anni che predico la difesa comune, è necessario andare in questa direzione. Quando la Russia attaccò l’Ucraina mi dissi ‘se avessimo avuto un esercito comune, non lo avrebbe fatto’. Poi l’America ha unito gli europei dietro di sé. Ora si deve cominciare con quello che si può fare oggi, poi subito dopo un comando unico. Dentro o fuori della Nato, lo diranno le circostanze».
Le prime sono di Ursula von der Leyen e le seconde, più articolate e dette in una intervista sul canale Nove nella trasmissione di Fabio Fazio, sono di Romano Prodi. Il punto in questione è anche la deterrenza come forma di fronteggiamento di quello che viene delineato con i tratti del pericolo dell’invasione progressiva di altri Stati da parte dell’imperialismo putiniano. Ma, forse, più della deterrenza in quanto tale, dopo i primi mesi di presidenza trumpiana, l’Europa liberal-liberista e tanto guerrafondaia, scopre di essere alla mercé tanto dell’Ovest quanto dell’Est.
E corre ai ripari con un tentativo di unificazione militarista, tenendo conto del fatto che la guerra in Ucraina è perduta e che, quindi, se non si vuole rischiare di rimanere nell’intercapedine asfissiante tra Stati Uniti e Russia, si deve in qualche modo correre ai ripari per quello che Prodi ammette senza troppi giri di parole: la costituzione di un esercito autonomo politicamente ma non poi del tutto tale se si guarda alla gestione pratica dello stesso. Internità o meno alla NATO non dovrebbe essere poi un fatto così sbrigativamente risolvibile con un laconico “ce lo diranno le circostanze“.
Non sarà “come il tempo vuole“, ma come vorranno i Ventisette che, al disperato inseguimento di un coordinamento difensivo che permetta alla Commissione europea di marcare un punto a suo favore presso i grani mercati e mercanti di armi che fanno lucrosissimi affari, hanno l’urgente bisogno di ritrovare un posto nella riconfigurazione globale accelerata dalla rivoluzione delle relazioni internazionali data dalla Casa Bianca, dal triumvirato Trump-Vance-Musk. Il ReArm Europe prevede anzitutto ottocento miliardi di euro per impostare una difesa del Vecchio continente degna di questo nome.
Tutte risorse sottratte ad altri capitoli di spesa e, quindi, se qualcuno aveva pensato che, stante le promesse del presidente-magnate di pacificazione dell’area ucraino-russa, ci si sarebbe diretti oltre l’economia di guerra di questo ultimo triennio, si è probabilmente illuso. La mancanza di una vera e propria azione diplomatica, proprio da parte europea, non lasciava del resto intravedere spiragli di riconversione del bellicismo cieco e sordo verso una piattaforma di riforme anche velatamente pseudo-sociali.
L’impostazione vonderleyena è, pari pari, quella di un asse socialdemocratico-centrista che ha interessato gli ultimi anni del cancellierato di Scholz. Nemmeno si discosta, del resto, dalla tonante propaganda al riarmo a tutti i costi propalata da Macron e rieditata in chiave nettamente autonomistica verso il ciclone trumpiano. Il non dare per scontata la pace entro i confini dell’Unione Europea non è un appello ad una realpolitik che anticipi le mosse del nemico russo. Semmai somiglia ad un messaggio tutt’altro che rassicurante proprio nei confronti di Mosca: si intendono proteggere quegli interessi economico-finanziari che, altrimenti, entrerebbero nella sfera di influenza dell’Est.
Il tutto vorrebbe dire aumentare ancora di più le distanze da una economia occidentale, nordatlantica e fortemente dettata dall’importazione e dall’esportazione di armi: una conseguenza che Bruxelles vuole evitare, visto che questo determinerebbe davvero una crisi verticale del motivo per cui oggi i Ventisette si tengono ancora insieme ma molto poco stretti e sempre meno per mano. Questo motivo è la mancanza di un posto d’eccellenza nella globalizzazione attuale: il multipolarismo non esclude l’Europa nel paniere dei processi di scambio da continente a continente. Semplicemente la relega al ruolo che le tocca.
E questo ruolo è una comprimarietà: ora dell’Ovest, ora dell’Est. A fare la parte del leone sono Washington, Pechino, Mosca, persino le monarchie mediorientali verso le quali l’Italia – per fare un esempio – esporta il 70% del suo mercato di armi che, nell’ultimo quadriennio, è esploso al 138% in più rispetto a quello precedente (quindi 2015-2019). Non c’è dubbio alcuno sul fatto che la guerra in Ucraina abbia fatto rialzare le quotazioni tanto delle vendite quanto degli acquisti di armamenti leggeri e pesanti. Ma l’Italia eccelle (si fa per dire…) tra i paesi europei in questo mercato omicidiario di massa.
Piuttosto che finire nell’occhio del ciclone altro dall’Occidente, l’Europa liberale e liberista è pronta a trasformarsi aprendo le sue porte ad una sorta di Ministero delle Guerra dominato dalla NATO in tutto e per tutto. Romano Prodi non nasconde questo proposito: l’ombrello dell’Alleanza atlantica è divenuto da tempo una cappa asfittica sotto cui ripararsi dall’espansionismo russo e far valere quel minimo di autonomia politica che si finge ancora possa essere rimessa insieme dopo la detonazione delle elezioni presidenziali americane. Con la caduta dei democratici, Bruxelles ha perso il vero, riconoscibile, storico alleato.
Il trumpismo non è disposto a condividere le sue mire con un continente atomizzato e fintamente tenuto insieme da interessi economici sempre meno unificanti e competitivi sulla scena globale di un mondo in sommovimento costante. Una puzza di infingarderia che il governo Meloni ha fiutato, nonostante gli ottimi rapporti con il presidentissimo, ed in cui non vuole rimanere imbrigliato: le tenaglie cominciano ad essere davvero troppe. Dai rapporti bilaterali a quelli con l’Europa, per non parlare delle simpatie di una parte della maggioranza che occhieggia a Putin, mentre un’altra preferisce l’asse con la ferocia israeliana nei confronti della Palestina.
Si tratta pur sempre di cinicissimo affari: Alberto Sordi ce l’ha insegnato con “Finché c’è guerra c’è speranza“, amarissima riflessione un po’ facilona sul mercanteggio di armamenti svenduti o venduti là dove le guerre si protraggono per decenni, dove gli stermini si fanno a man bassa mentre si parla di esportazione della democrazia e di ristabilimento di un “nuovo ordine mondiale“. L’Italia del melonismo cerca un centro di gravità permanente o, per lo meno, strettamente riguardante l’oggi e il prossimo domani, per rimanere a galla in mezzo alla contesa tra l’asse franco-tedesco e gli autoritarismi del vecchio pateracchio visegradiano.
Domandiamo: è questa l’Europa che Michele Serra vuole difendere, proteggere? Con cui vuole solidarizzare per evitare che il nemico dell’Est ci soverchi e dopo l’Ucraina tenti magari di prendersi la Finlandia, i Paesi Baltici o la Polonia? Sempre più difficile dire dove finisca il confine della realtà e dove inizi quello della fantapolitica. Ma una cosa è abbastanza sicura: il riarmo a tutto spiano voluto dall’élite europea e applaudito da Prodi (che rompe così con la linea comunque sempre indulgentemente morbida di Elly Schlein sull’invio della armi all’Ucraina) non è il sintomo ma la malattia conclamata di una Unione che tanto spende per le armi e niente per un riequilibrio sociale dopo anni e anni di crisi e di nuove povertà crescenti.
Il massacro sociale, unitamente a quello bellico, è già in atto e verrà moltiplicato esponenzialmente proprio dalla decisione di dare incremento alla spesa militare, di fare del ReArm Europe il nuovo PNRR della guerra come politica estera permanente della UE. Le sorti del conflitto ucraino, se si presta fede alle dichiarazioni ufficiali di von der Leyen e dei suoi commissari, potrebbero essere decise dal riarmo europeo in funzione, quindi, offensivo-difensiva al tempo stesso. In realtà, sembra davvero più concreta la minaccia di Elon Musk di spegnere Starlink sul territorio ucraino e far precipitare così il fronte in un batter d’occhio.
La maggior parte delle armi che comperiamo sono controllate da programmi sviluppati negli Stati Uniti d’America perché è da Washington che noi acquistiamo di più rispetto ad altri importatori di materiale bellico. La dipendenza dalla Repubblica stellata trumpiana è quindi un qualcosa che va ben oltre il rapporto politico in quanto tale. Tentare una sorta di autonomia reale dell’Europa vuol dire anzitutto sviluppare delle tecnologie di elaborazione, costruzione e assemblaggio delle armi con impianti produttivi non più americani e importare il meno possibile. Tutto questo non è realmente fattibile perché non è concepibile.
Il riarmo, di per sé, è il preambolo della guerra a tutto spiano. L’Europa che Michele Serra dice di voler proteggere non può tenere insieme i valori originari e le pulsioni offensivo-difensive di von der Leyen e Prodi. Spiace davvero che una buona fetta di progressismo italico si faccia sedurre da una idea tutta romantica di un continente che vuole la pace facendo della guerra il cuore della sua economia. Impoverendo i ceti già tanto poveri, aumentando le spese militari e sottraendo fondi ai settori chiave del vero sviluppo sociale, l’Europa per cui scendere in piazza non può essere questa: che legame c’è mai tra riarmo e diritti del mondo del lavoro?
Che legame può mai stabilirsi tra il ReArm Europe e nuove politiche comunitarie su cibo, ecosostenibilità, salute, previdenza, tutele dei più fragili, diritti civili e diritti umani? Non si può tenere insieme tutto questo pensando che, nel nome della difesa, ci si prepari ad una fase di guerra poiché la pace non può più essere data per scontata. Chi lo afferma sta preparando l’Europa alla guerra stessa. Hanna Arendt diceva: «La guerra non restaura i diritti ma ridefinisce i poteri». Ed è proprio quello che sta avvenendo in questa fase di multipolarismo in pieno sviluppo. Le mani libere che Trump vuole avere sull’Asia necessitano della conclusione del conflitto in Ucraina.
Nemmeno le risorse americane sono infinite e, per questo, il dirottamento di quelle impegnate in Europa, in una guerra giudicata un inutile spreco di denaro e di armi (che sono soldi…), è necessario ad una politica estera a stelle e strisce che punti direttamente contro l’espansionismo cinese anche tramite un riavvicinamento alla Russia. La convivialità politica tra i due dittatori non è poi così una bizzaria di qualche commentatore: Putin e Trump si somigliano, ma fino ad un certo punto. Almeno fino a quello in cui convergono gli interessi vicendevoli che potrebbero essere una leva per stabilire una nuova egenomia globale a scapito di Pechino.
Trump sa benissimo il legame forte che tiene Russia e Cina, al momento, dalla medesima parte della Storia con la esse maiscuola. E per questo la politica statunitense del clan MAGA va nella direzione del “divite et impera“. Se l’Europa è la zona grigia da sacrificare nel nome di tutto questo, non sembra al presidente-magnate un sacrificio poi così tremendo. Di qui la disperazione dei leader di Bruxelles che avevano immaginato qualcosa del genere ma, forse, in tempi più lunghi, con minore impatto tanto sul conflitto ucraino quanto sull’intero Vecchio continente. Trump sembra correre più veloce della Storia, per anticiparla e per prevenire le mosse del vero nemico.
La domanda che molti si fanno è: ci vuole lasciare in balia di Putin? Può essere, ma si può affrontare una crisi di questa portata pensando soltanto in chiave difensiva, riarmandosi a tutto spiano e mostrando una muscolarità bellica che non reggerebbe alla prova dell’impatto con una vera guerra mondiale in cui, questa volta, gli alleati di un tempo non sarebbero tutti uniti seppure nelle differenze? L’opzione della pace non è un disco rotto da suonare retoricamente. Vuol dire sapere molto bene che di guerre se ne combattono di molti tipi. A cominciare da quelle prettamente economiche.
La classe dirigente europea (ammesso che così la si possa definire) non pensa ad una risposta sociale alla crisi, ad un dialogo economico anche con la Russia putiniana. Pensa solo in chiave offensivo-difensiva. Pensa male, otterrà il peggio. Il destino del riarmo è oggi la povertà sul piano della redistribuzione delle risorse ai ceti popolari, mentre domani sarà la sollecitazione continua alla provocazione, all’esacerbazione data dalle provocazioni vicendevoli. Mostrare un atteggiamento meno ostile nei confronti di Mosca forse servirebbe ad essere considerati interlocutori anche sul piano diplomatico.
Niente di più lontano oggi dalle intenzioni di von der Leyen. Niente di più vicino ad un futuro prossimo di conflitti che metteranno a dura prova l’ultima possibilità dell’Europa di essere un qualcosa di realmente confederativo e condiviso: non solo monete, non solo armi, ma anche un po’ di quel sogno postbellicamente umanista che era all’origine del federalismo continentale. Tanto tempo è passato, altrettanto ne passerà.
MARCO SFERINI
11 marzo 2025
foto: screenshot ed elaborazione propria