La pace è rivoluzionaria, la guerra è conservatrice

Può questa destra che oggi regge gran parte delle sorti del pianeta essere davvero una sostenitrice della pace? La domanda, che potrebbe a prima lettura apparire ingenua, vorrebbe non...

Può questa destra che oggi regge gran parte delle sorti del pianeta essere davvero una sostenitrice della pace? La domanda, che potrebbe a prima lettura apparire ingenua, vorrebbe non risultare tale e, quindi, non esserlo. Partiamo dalle affermazioni dei vari capi di governo e di Stato: da Meloni ad Orbán, da Trump a Milei, tutti giurano che i nazionalismi di nuova generazione sono il cardine politico, il punto di appoggio su cui in questo senso si può rivoluzionare il mondo.

La Storia ci insegna che, sempre e comunque, i nazionalismi sono stati invece la premessa oggettiva di una commistione di interessi con classi dirigenti economiche e finanziarie che hanno inteso salvaguardare i propri privilegi a discapito di tutta una serie di popoli evidentemente preda della superiorità anzitutto militare e, quindi, destinati a diventare delle colonie direttamente o indirettamente (come, in questo secondo caso, avviene ancora oggi per gran parte del continente africano, dell’America Latina e di ampie fette di Asia).

Perché, quindi, dovremmo credere alle parole di Trump sul voler mettere fine alla guerra in Ucraina o su quelle di Meloni sul voler preservare un qualche equilibrio pacifico entro il travaglio europeo di questi ultimi mesi (ed anni…)? Si può credere a tutto ed a tutto il suo contrario, ma qui è bene fare il punto di una situazione globale che non appare in via di risoluzione nel darsi una sorta di nuovo ordine mondiale (il che non significa fine dei conflitti regionali e multipolari).

Diciamocelo ancora: Trump ha tutto l’interesse possibile nel voler mettere la parola FINE alla guerra in Ucraina. Questa è la precondizione per dislocare non soltanto nuove truppe, ma spostare nettamente l’attenzione e le mire della politica estera statunitense sul fronte asiatico, sull’obiettivo cinese. Uno dei problemi più recenti della fase di rimodulazione del sistema capitalistico su scala mondiale è la crescita di una parte dell’economia globale: per quanto possa apparire strano, veramente bislacco, la crescita in quanto tale non è sempre soltanto sinonimo di benessere.

Un aspetto trascurato della crescita è la sua stessa massa. In base al quantitativo di crescita assoluta registrata, uno Stato dovrebbe saper impiegare la massa prodotta. La forbice delle diseguaglianze, paradossalmente, si registra sempre più ampia nella fase in cui il capitale è in sovrapproduzione perché non riesce a piazzare le sue merci sul mercato tanto nazionale quanto mondiale. Risulta abbastanza evidente il fatto che se i più ricchi diventano sempre più tale e la loro pletora pesa sui miliardi e miliardi di salariati e sulle centinaia di milioni di disoccupati e precari a livello planetario, la pace sarà sempre e comunque una vera chimera.

Presupposto della pace non è soltanto l’assenza della guerra, ma la fine delle condizioni sistemiche per cui le guerre sono, per l’appunto, la prosecuzione della politica con le armi che non siano il dire, il fare entro i termini di una contesa democratica, istituzionale, nel rapporto tra popolo che delega e rappresentanti che sono delegati all’amministrazione dello Stato, del potere nell’interesse comune e pubblico. La destra è rivoluzionaria nell’essere conservatrice: aggiorna la sua identità reazionaria identificandosi con il precetto liberista del potenziamento dello Stato come regolatore degli interessi esclusivamente privati.

I Chicago boys tornano e nemicamente ritornano laddove prende corpo la simbiosi tra ristrutturazione capitalistica e ristrutturazione politica: l’esempio, per l’appunto, statunitense è, sotto questo punto di vista, davvero emblematico e, forse, paradigmatico. La stabilità è data oggi non dalla crescita, come potrebbe falsamente apparire logico, ma dalla decrescita. I drammi dell’oggi sono figli di una accelerazione produttiva che ha reso la competizione mondiale un campo di battaglia dove i conflitti sono stati creati ad arte per cercare di conquistare sempre nuove aree di sfruttamento delle risorse naturali, delle materie prime.

L’ultimo Marx è proprio quello che si rende conto di come il mito della crescita economica non sia portatore dell’evoluzione sociale e civile dell’umanità. Si può superare il capitalismo abbracciando il mito del lavoro per una sempre maggiore produzione di merci, facendo della trasformazione del ciclo produttivo l’unica leva rivoluzionaria? Negli anni cinquanta dell’Ottocento, Marx avrà parole piuttosto dure, ad esempio, nei confronti delle comunità indiane: le considererà passivamente statiche, definendole «del tutto prive di storia».

In quel periodo di maturazione delle organizzazioni sindacali e del movimento delle lavoratrici e dei lavoratori su scala europea e ultraeuropea, c’è nell’analisi del Moro un riferimento ad un’eurocentrizzazione del progetto rivoluzionario. La pace del futuro è agitazione del momento attuale: lo sviluppo dell’economia borghese accelera, le contraddizioni del sistema si ingigantiscono e ciò produrrà le premesse per il rivolgimento delle società e la traformazione in senso non più capitalista dei rapporti (anti)sociali.

Ma, come già si scriveva sopra, nell’ultimo periodo della sua vita, Marx si rende conto che quelle comunità indiane che aveva criticato per la loro impassibilità davanti ai mutamenti storici, per il loro essere fondamentalmente statiche, figuravano invece come forza più compatta di resistenza al dominio coloniale e, così facendo, erano in prima linea nel contrastare l’avanzata della globalizzazione capitalistica che, pure, gli sembrava – ed effettivamente era – inarrestabile.

Parlare ieri, come oggi, di pace, di fine delle guerre, vuol dire anzitutto prendere in esame gli attuali rapporti di forza tra i poli neoliberisti che, fatte salve le caratteristiche particolari continentali che li contraddistinguono e li differenziano, sono in lotta per la contesa mondiale. Non esiste quindi una vera lotta pacifista se non in una accezione che comprenda anche l’anticapitalismo come elemento primo per una considerazione altra tanto della società quanto della civiltà: termine adoperato così tanto e da tanti da aver perso quel valore originario di progresso che lo aveva contraddistinto nei secoli precedenti.

La svolta trumpiana fa dell’accelerazione produttiva liberista un dogma del programma politico MAGA: solo espandendo la propria economia interna verso l’esterno gli Stati Uniti d’America saranno nuovamente protagonisti di una egemonia su scala mondiale. La guerra in Ucraina è un ostacolo nella competizione con il gigante cinese ma, comunque, è una opportunità di mettere le mani, ad esempio, sulle ormai famosissime terre rare ricchissime di minerali utili per i comparti tecnologici (e non solo).

Non di meno va trascurata la contesa mondiale ai bordi dell’impero (o degli imperi…): ne fa una lunga e dettagliata analisi già Rosa Luxemburg quando descrive il sistrema imperialistico come un qualcosa di omogeneo e disomogeneo al tempo stesso. Si creano i poli di concentrazione degli interessi nazionali, ma nelle periferie del mondo non è che non vi siano interessi simili che, mano a mano che le colonizzazioni si strutturano, emergono con sempre maggiore vigore.

Se dalla fine dell’Ottocento, periodo in cui l’analisi luxemburghiana inizia e continua con grande lucidità e approfondimento, passiamo alla nostra contemporaneità, sarà abbastanza facile osservare il crocevia di linee di sviluppo e di opposte convenienze che è divenuto, nel giro di qualcosa di più del mezzo secolo, il Medio Oriente. Non per nulla, le guerre più sanguinose che si ricordano negli ultimi trent’anni, si sono svolte quasi tutte in quel settore del mondo: Iran, Iraq, Kuwait, Siria, la drammatica situazione del conflitto israelo-palestinese, i curdi e, ora, anche le guerre civili yemenite.

Il problema enorme della pace non è quindi affidabile, per la sua risoluzione, alle dinamiche dei governi retti da forze che fanno della loro acquiescenza al liberismo il cuore dello sviluppo antisociale nei loro Stati, nelle loro società. Destra o centro, centrodestra o centrosinistra poco contano come differenti settori della politica nazionale se sono sempre e soltanto disposti a recepire i dettami dei grandi gruppi oligarchici, delle grandi centrali del capitale, delle banche transnazionali, del FMI come della Banca Mondiale.

La pace è quindi impossibile? No. Ma è difficile da realizzare se l’obiettivo della pace è essere davvero l’elemento rivoluzionario per l’archiviazione delle premesse che hanno condotto il mondo alle soglie dell’autodistruzione nella complessità di una crisi ambientale che necessita di quello che Saitō Kōhei chiama il “comunismo della decrescita” piuttosto che di un liberismo ben temperato, di un contenimento delle pulsioni estreme del mercatismo a tutto spiano. Oggi, ma non meno nell’ieri più afferente alla stretta attualità che stiamo descrivendo, l’espansione del mercato interno è il metodo impositivo di un imperialismo che si fa con esorbitanti dazi.

La guerra messa in campo da Trump contro l’Europa ne è un esempio lampante. C’è una tale abbondanza di merci che potrebbero essere soddisfatte in questo momento nel mondo intero le esigenze alimentari di quasi tutta la popolazione del pianeta. Il fatto che siano merci, ci dice che non possono di per sé essere disponibili se non dietro la soddisfazione, oltre che del valore d’uso, anche e soprattutto del valore di scambio. E se i popoli asiatici, africani e latini non hanno di che scambiare, non hanno moneta sonante, per sfamarsi, tanto peggio per loro.

La civiltà occidentale, una vera e propria invenzione antistorica intesa come costrutto etico-politico di presunta superiorità rispetto al resto del pianeta, ha già conquistato una volta il mondo. Oggi vorrebbe riproporre questo schema di diffusione di un pauperismo sempre più distruttivo e svilente: per le risorse naturali, per miliardi e miliardi di esseri umani, oltre che per tutti gli altri animali non umani che soffrono e patiscono le produzioni su vasta scala di cibi spazzatura a basso costo…

Chiaro che, esistono differenti livelli di pacificazione tra gli Stati, tra i popoli e nell’insieme della globalità mondiale: riuscire già a mettere fine ai grandi omicidi di massa che vengono chiamati guerre, operazioni speciali, interventi umantiari, esportazioni della democrazia, sarebbe un bel passo avanti. Riuscire poi a mettere da parte i governi che sono responsabili di questi conflitti non sarebbe affatto male. Occorre un comunismo, come movimento reale e realistico, adeguato ai tempi, che sia nuovamente – come scrive Marx – «la negazione della negazione» e, quindi affermazione di una nuova stagione di valorizzazione del bene sociale, dell’interesse pubblico.

La pace come obiettivo primo ed ultimo dell’animalità umana è un programma che include la fine di un sistema economico che distrugge e non costruisce, che esclude e non include, che privilegia e non rende eguali. La pace si raggiunge mettendo fine al presupposto antropocentrico della maggiore uguaglianza umana rispetto agli altri esseri viventi. La liberazione umana senza quella animale è liberazione opportunistica: forse non sarà più guerra tra noi simili, ma lo sarà sempre con i dissimili.

Abbiamo volato un po’ alto, ma per poter vedere distintamente le tante nature e le tante contraddizioni dei nostri tempi, serve anche elevarsi al di sopra delle miserie economiche del capitale e della sua lotta per una sopravvivenza di sempre più pochi rispetto alle sofferenze di tutto il resto dei viventi, della Natura in quanto tale. Utopia non è guardare alla radice delle cause delle afflizioni che ci riguardano. Utopia è pensare che questa economia devastante possa avere in sé la chiave per la soluzione delle proprie idiosincrasie nei confronti di ciò che è sociale, comune, pubblico, civile e veramente democratico.

MARCO SFERINI

29 marzo 2025

foto: screenshot ed elaborazione propria

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