La pace e il disarmo perdono la più importante voce (inascoltata)

Saper cogliere gli aspetti di una singola, irripetibile personalità è, soprattutto se si tratta di vite che sono al centro dell’attenzione pubblica, una virtù che, spesso e volentieri, sembra...

Saper cogliere gli aspetti di una singola, irripetibile personalità è, soprattutto se si tratta di vite che sono al centro dell’attenzione pubblica, una virtù che, spesso e volentieri, sembra essere fiaccata da tanti preconcetti, da molti apriorismi. La morte di un papa rientra in questo contesto. Ognuno di noi è potenzialmente importante agli occhi del mondo, anche in qualla «umanità che si fa tanto per fare» (Carmelo Bene). Ma non c’è dubbio sul fatto che alcune donne, alcuni uomini, anche prescindendo dal loro volere o dalle loro ambizioni più o meno marcate, finiscono sul podio degli attori degli eventi.

Sono costretti ad esercitare un ruolo, oppure sono loro stessi che vi puntano. Ma qui non si tratta di discernere, sulla base di un giudizio etico, tra mitezza e sfrontatezza, tra mestizia del rassegnato e tronfietà del vanaglorioso. Non sempre nel tentare un ricordo, a volte anche un giudizio, su una donna o su un uomo che l’intera comunità mondiale ha reputato importante o presuntamente tale, si deve per forza di cose parteggiare, schierarsi. Le tifoserie sono veamente patetiche e i fanatismi non di meno. La loro postura è quella dell’esacerbazione di un singolo dato che viene assolutizzato.

Marxisti da operetta di quart’ordine da un lato e fanatici conservatori iperclericali dall’altro si contendono la palma d’oro della critica preventiva, del pregiudizio di bassissima lega e a buonissimo mercato. Le legioni di imbecilli di echiana memoria si contendono il primato su Internet, sui social e nei messaggini che scambiano nelle chat. Ma la morte di un papa dovrebbe essere un argomento su cui riflettere da più punti di vista, senza ritenere che il proprio sia l’unico veramente vero, degno di nota e che, quindi, escluda tutti gli altri in quanto ipocriti e falsi nel senso più lato del termine.

Di papa Francesco qualunque marxista moderno ha potuto apprezzare, soprattutto dopo la sua elezione al soglio di Pietro, una attitudine che ha in parte modificato la sua giovanile origine di peronista di destra. Ogni essere umano vive nelle contraddizioni non soltanto dettate dalla naturalità dell’esistenza, che si nutre della dialettica degli opposti e che, quindi, non è mai veramente in equilibrio con sé stessa: bensì si barcamena nel tentare di trovare un centro di gravità permanente proprio nel dividersi tra luce ed oscurità, molto spesso nel bel mezzo di quei chiaroscuri in cui, diceva Gramsci, nascono i mostri.

Evitare di diventare tali è già un bel progresso, una conquista di cui si può andare fieri. Papa Francesco, criticabile tanto da sinistra quanto da destra, tanto per la sua giovinezza argentina quanto per la sua età matura e senescente nel contesto europeo e romano, non era un mostro perché aveva evitato le zone intermedie dell’ambiguità, del fraintendimento: un uomo che aveva il pregio di parlare chiaro, senza troppi giri di parole. Magari non un fine teologo come Ratzinger, non un paludato politico come Wojtyła, ma di certo non uno sprovveduto. Qualcuno ha provato anche a dargli questa etichetta di sempliciotto prestato al ruolo di pontefice.

Diciamo senza troppe circonlocuzioni: Bergoglio era un uomo pratico prestato ad un ruolo da intellettuale moderno che, proprio attraverso l’osservazione dell’esistente, ha saputo cogliere le novità dei rapporti di forza esistenti che la Chiesa di Roma aveva davanti e che, per la maggior parte, erano e sono sinosimo di grandi mutamenti epocali dell’era di un neocapitalismo di rapina che continua a depredare il mondo e lo fa a discapito di miliardi di salariati indigenti, di poveri senza alcun diritto, di tutta una parte del pianeta che è costretta a sopravvivere nella miseriea più assurda e, per questo, sistemica.

A chi gli chiedeva se si riconosceva nella teologia della liberazione, rispondeva che la sua era una teologia popolare, molto diversa dal movimento latino che univa messaggio evangelico e spinta rivoluzionaria socialista. Probabilmente in gioventù è stato anche un fervente anticomunista, ma non è mai stato un conservatore in tutto e per tutto. Il tratto caratteristico del peronismo, del resto, era proprio quello di essere un movimento politico ed istituzionale, e più propriamente poi un potere, capace di mettere insieme tanto la conservazione quanto il progressismo e di piacere un po’ a tutti.

I descamisados argentini poco avevano a che fare con i ribelli spagnoli liberali del 1820, ma la Storia in qualche modo li avvicina in un’opera di avanzamento civile e sociale. Quelli che appoggiavano Peron ed Eva Duarte erano, in fondo, dei proletari che intuivano le potenzialità di un movimento che cercava uno spazio nelle frange sociali più disperate di un paese molto travagliato sul piano politico e piuttosto in difficoltà su quello economico e che, nel fare questo, tuttavia non tagliava i ponti con il ceto borghese ma, di sicuro, non aveva in buon animo il grande industrialismo di matrice nordamericana.

Bergoglio cresce in un contesto di questo tipo e, da responsabile della comunità gesuitica nella sua evoluzione tra spinte conservatrici e rivoluzionarie, tiene ferma una barra difficile da governare, soprattutto nella fase della dittatura spietata dei militari, nel governo repressivo e criminale di Videla. Vicino ai poveri, alla gente comune, è un uomo che comprende le difficoltà dei più reietti e se ne fa interprete: dalla giovinezza fino alla più segnata maturità, per poi portarsi questo bagaglio nel suo ultimo tratto esistenziale con l’inaspettata elezione a pontefice cattolico, apostolico, romano. Le contraddizioni, tuttavia, sono un tratto endemico che – come già evidenziato – ci riguardano semrpe.

Non meno le grandi personalità della Storia le posseggono e le vivono con una esponenzializzazione degli effetti che, per questo, si mettono in rilievo e rischiano di oscurare dalle buone intenzioni fino ai tentativi di riforma di una Chiesa che fatica a rinnovarsi sul piano tanto dottrinale quanto più propriamente pastorale. La morte di Bergoglio lascia molti interrogativi aperti in questo senso: le sue pratiche sinodali, di condivisione aperta e collettiva delle discussioni sulle modificazioni da operare, rimangono un lascito che potrà essere ripreso dal suo successore. Come anche no.

Ed è questo un punto su cui si potrà discutere, scrivere e trattare a lungo: ma solo le decisioni del conclave saranno, a questo fine, decisive. I giochi sono tutti aperti e, pur nell’esortazione del “Veni Creator Spiritus“, nessuno si illude – o almeno nessuno dovrebbe mettersi in questa condizione – che ogni cosa sia affidata alla volontà divina. Per i credenti può, senza dubbio, essere così; per noi laici e in più marxisti, il punto è più semplicemente di messa a punto di una nuova stretegia di governo del potere vaticano, dell’esercizio dello stesso nella grande comunità di oltre un miliardo e mezzo di fedeli presenti nel mondo.

Una enormità numerica che, pur nell’attraversamento delle tante crisi globali, un papa come Francesco ha saputo tenere unita nella riproposizione di un criticismo sociale dedito alla ricerca di un neoumanesimo che si affiancasse al messaggio più spiccatamente cristiano, evangelico e, quindi, capace di essere declinato tanto sul terreno della conservazione dottrinale quanto su quello della innovazione spirituale, materiale e morale. Oltre che, si intende, culturale se si guarda ad una rivisitazione del rapporto tra curia romana e comunità tanto dei fedeli quanto di coloro che non sono credenti. Non è scontata una apertura mentale di questa natura.

Soprattutto in un papa. Francesco, quindi, non è soltanto il papa dell’approccio universale, che non opera la distinzione relativistica di Ratzinger: è anche colui che, pur nella durezza delle posizioni sull’aborto, sui diritti delle persone LGBTQIA+, sul considerare gli animali non umani un gradino al di sotto di quelli umani, manifesta una comprensione dei grandi drammi globali e individua nel capitalismo liberista il problema dei problemi, la grande tragedia dei tempi attuali che proviene da un Novecento in cui lo sviluppo scientifico, tecnologico ed economico ha fatto passi da gigante, mentre i diritti sociali, civili e umani sono pericolosamente retrocessi.

La grande disumana narrazione che le migrazioni ci raccontano ogni giorno, ormai da decenni, diviene, al pari dell’enormità della crisi climatica, un piano inclinato su cui si riversano le sue riflessioni e gli appelli ad un riconoscimento di una uguaglianza dei diritti anzitutto umani che sia davvero universale. Donne e uomini delle istituzioni, che oggi lo piangono nei comunicati ufficiali, in realtà non gli prestano ascolto perché la seduzione dei mercati bussa con piglio molto più marcato alle porte delle centrali del capitalismo multipolare che via via emerge.

Il papa è un simbolo, lo si voglia o no, e se si muove, se va in una direzione, ebbene anche quella diviene per forza di cose un messaggio che viene lanciato e che può essere raccolto e diffuso: la sua visita a Lampedusa apre un pontificato che fa discutere ma che, non c’è il minimo dubbio in merito, segna la storia della Chiesa cattolica e rimarrà in quella che racconteremo noi più laicamente come un crinale di passaggio dal conservatorismo dei suoi predecessori a, forse, una prosecuzione della nuova via riformista dei suoi successori.

Voci di mille corrodoi dicono che la scelta ottimale del conclave potrebbe ricadere o su un progressista gradito anche ai meno aperti alle riforme dottrinali, oppure su un conservatore non intransigente. Solamente chi esprime, come ha fatto Francesco, una complessità di posizioni che, poi, sono la sintesi di una lunga vita passata tra due mondi molto lontani, può essere amato e al contempo disprezzato. In particolare se, in presenza di eventi mondiali che mostrano un mutamento davvero epocalmente tragico, si prende una posizione netta e distinta: contro la guerra, contro il riarmo. A cominciare dal conflitto siriano, passando per quello ucraino e poi quello di Gaza, Francesco non è mai ambiguo.

Le armi non costruiscono la pace. Le armi e il riarmo delle nazioni sono le premesse per nuove guerre che, messe insieme, fanno quella “terza guerra mondiale a pezzi” di cui aveva, con sagacia, parlato ancora prima che si scatenassero ulteriori conflitti su piani molto più che regionali. Ecco, perché, pure da marxisti e da comunisti noi non dovremmo – secondo certi irriducibili – cogliere ciò che Bergoglio ci lascia in eredità e valorizzare, quindi, ciò che egli ha fatto quando era nel pieno delle sue forze in un pontificato relativamente breve ma densamente vissuto e fatto vivere anche a chi cattolico non era e non è?

Il punto è proprio questo: quante volte abbiamo detto, scritto che eravamo d’accordo col papa? Molte, credo. Questo è ciò che conta: ovvio che sulla “frociaggine“, sull’aborto, sui diritti civili, su molte altre questioni prettamente dottrinali e, quindi, affrontate con un piglio che non può essere quello del laico, del repubblicano, dell’uomo-cittadino che prescinde dal contesto religioso, non si poteva essere d’accordo con lui. Ma nel momento in cui la sua voce è rimasta l’unica a farsi sentire nel mondo riguardo alla fine delle guerre, partendo da una critica obiettiva tanto all’Occidente (e nello specifico alla NATO) quanto all’Oriente, si poteva non condividere ciò che diceva? Ovvio che si condivideva.

Perché questo messaggio di pace dovrebbe essere sopravanzato dalle posizioni teologiche e dottrinali più proprie del papa? Se un pontefice critica il capitalismo per i suoi eccessi, dobbiamo esserne non riconoscenti, perché non gli dobbiamo niente in termini culturali, ma quanto meno lieti perché ogni voce che si leva contro questo sistema omicidiario va valorizzata. Pur nelle molte contraddizioni che la figura del pontefice si porta appresso, ovviamente dal nostro punto di vista laico.

Scherzando proprio sul rapporto tra comunismo e cristianesimo, in una intervista Bergoglio una volta disse che i comunisti avevano rubato un po’ del messaggio egualitario del Vangelo e che, purtroppo, molti cristiani, invece, lo avevano male interpretato e male tradotto nella realtà. Quindi, non esiste una parte che sia completamente nel vero e nel giusto. Ognuno di noi continuerà a lottare seguendo la propria coscienza, ma se esistono dei punti di convergenza, valorizziamoli. Sappiamo che la Chiesa cattolica rimane, oltre che una grande comunità spiritale, anche un grande, enorme centro di potere, di affari, di giochi spesso loschi e poco chiari.

Questo sta nella natura, per l’appunto, delle religioni che si strutturano temporalmente, che diventano quindi altro rispetto ad una semplice credenza metafisica, ad un tentativo di collettivizzazione della spiritualità nel tentare di dare un senso all’esistente che, per l’appunto, diventa in questa traduzione fideistica il “Creato“. Il nostro addio a papa Francesco è quindi sincero perché ne abbiamo apprezzato lo sforzo pacificatore tra i popoli e, più di tutto, in questi ultimi anni, l’appello incessante al disarmo.

Sarebbe un grande segnale, in risposta all’esasperazione dei nazionalismi e delle contrapposizioni tra gli Stati, nell’epoca dei sovranismi populisti che mostrano i peggiori artigli insieme all’istinto predatorio liberista, se il conclave eleggesse un papa non solo nella continuità di Francesco, ma addirittura ancora più innovatore. A cominciare dalle riforme interne alla Chiesa che potrebbe, così, dimostrare di volersi adeguare ad una società che va aiutata nella risposta plurale ai problemi anzitutto sociali.

Differente sarebbe la scelta di un papa che rimettesse in auge il confronto-scontro con una laicità già piuttosto precaria, reintroducendo – come fece Ratzinger – un principio di moralità assoluta, valutata sulla base della veridicità del cattolicesimo come unica fede sincera, come parametro non solo religioso ma etico. La condanna di quello che Benedetto XVI definiva cosi: «La pluralità dei valori, che è legittima ed è europea, crescerà a vista d’occhio verso un pluralismo dal quale viene sempre più escluso ogni ancoraggio morale del diritto e ogni ancoraggio pubblico del sacro e del timore di Dio come valore anche collettivo».

Francesco non ha lavorato contro questo timore, tutto cattolico e pregno di conservatorismo, ed ha per certi versi frenato sulle sue stesse innovazioni: soprattutto quando si è trattato – come nel caso dell’America Latina – di rispondere alle osservazioni sull’apertura del presbiterato anche sposati. Una timida apertura in tal senso venne osteggiata dall’intransigenza dei custodi di una dottrina della fede che alzarono critiche così dure da costringere il papa ad uno stop in tal senso. Poco coraggio? Può darsi, ma una frattura interna alla Chiesa un papa, oggettivamente, deve evitarla.

Quindi è difficile poter parlare di Francesco, come fanno imprudentemente in tanti, come di un pontefice “rivoluzionario” in senso ecclesiale, dottrinale, sociale e morale. Ma possiamo forse pretendere che il papa sia un marxista? Soltanto la dura, cocciuta ostinazione di un settarismo preconcetto impedisce ad una parte della sinistra di vedere la molteplicità dei fattori sociali, civili, morali e culturali che abitano l’umanità fin nel profondo e nell’esteriorità dell’esistente.

Ognuno fa la sua parte. Sempre entro il perimetro, a volte molto asfittico, delle contraddizioni più che palesi e che non sono per forza solamente negative. Sono parte di una dialettica che ci fa crescere. Così, possiamo essere marxisti e comunisti in questo nuovo millennio e al contempo essere un po’ più soli perché, da ieri, manca nel mondo una autentica voce per la pace, un sincero uomo che si è speso contro la guerra, contro il riarmo a tutto spiano di nazioni che si dicono democratiche e che sono, invece, le nemiche prime della vera democrazia, del vero interesse popolare.

MARCO SFERINI

22 aprile 2025

foto: screenshot ed elaborazione propria

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