Se ci fosse capitato di viaggiare nell’antica Persia, avremmo incontrato certamente dei “maghi“. Il termine, caso mai avessimo avuto la possibilità di essere dei navigatori temporali, ci sarebbe sembrato davvero strano, a noi provenienti dal futuro, ma non di meno anche da chi fosse giunto dalla medievalità europea o, comunque, di stampo più occidentale. Il mago, infatti, per noi è sinonimo di stregone, indovino, prestigiatore, persino di incantatore ma non lo accosteremmo mai alla figura del “sacerdote“, del ministro di un culto.
L’origine della magia, almeno etimologicamente parlando, invece sta proprio nella parola persiana “māgh-“, in questa radice che si può appunto accostare al latino “sacerdos“. Diversamente, se invece ci rifacciamo all’idea del mago come, ad esempio, all’iconico e ipnotico incantatore di serpenti, degno dei migliori fumetti di Stan Lee con protagonista l’affascinante Mandrake, la parola da utilizzare è “jâdugar“. Tuttavia esiste una sorta di compiacente e, se vogliamo, anche piacevole sincreticità tra incanto, estasi, rapimento dei sensi e magia favoleggiata da racconti davvero fantastici come “Le Mille e una notte“.
Non esiste confine di sorta in questo frangente: la meraviglia di fronte all’impossibile, all’inimmaginabile, al sorprendente, proprio perché impossibile, ha contagiato tutte le civiltà del mondo antico e non esiste un luogo del pianeta, tanto tre o quattromila anni fa quanto oggi, che possa dirsi così seriosamente cinico e supermaterialista, strarazionale e iperlogico da negare alla propria cultura quella metafisica meravigliosa che è il sogno ad occhi aperti davanti a storie, per lo più sono anche racconti d’amore.
Dai popoli mesopotamici agli egizi, dai greci ai romani, dai parti ai persiani, dall’estremo oriente fino alla misterosisissima valle dell’Indo, la magia affascina. Apuleio ne viene colto fin dentro la più intima giocosità e rischia persino di rimanerne vittima: la sua passione per la mutevolezza delle forme, degli aspetti, della materia stessa di cui siamo fatto, gli ha fatto rischiare pure un processo proprio con l’accusa di essere un “mago“, quello che veniva definito talvolta, scimmiottando ad esempio l’arte medica, un “facitore di prodigi“.
Erodoto è forse uno dei primi a portare nella cultura occidentale le storie dei maghi orientali che vengono guardate sempre con grande sospetto: tanto in Grecia prima quanto a Roma poi. La radice “māgh-” citata pocanzi è letteralmente “colui che può fare…” se non qualunque cosa, certamente ciò che va al di là del fisico e del reale, del pensabilmente razionale, del logicamente provabile seguendo la via della sperimentazione. La magia è quindi, se non altro anticamente, strettamente correlata a fenomeni che si possono soltanto ascrivere alla tipologia trascendentale.
La religione, ugualmente, è trascendente per antonomasia, fissata a parole nei testi cosiddetti “sacri“, ma presupponente tutto ciò che lega il sensibile con l’insensibile, il visibile con l’invisibile, il tangibile con l’impalpabile, la terra col cielo, la coerenza della materia con l’incoerenza dell’aere. Una pluralità di pensiero che in Giordano Bruno si trova nell’affascinantissimo immanentismo del frate domenicano di Nola e che si mescola ad un pizzico di neoplatonismo (seppure molto indirattemente e non per manifesta adesione filosofica) in una interpretazione naturalistica dell’esistente.
C’è in questa elaborazione critica del cattolicesimo da parte del Nolano un tratto quasi pagano, un amore per la vita che è indotto a ritenere vivo tutto l’Universo e non a separarlo dal mondo, collocandolo – per l’appunto – nella trascendenza ultraterrena, addirittura ultra-dimensionale. Quando l’Inquisizione romana lo pretende da quella della Serenissima Repubblica di Venezia, per processarlo come “eretico impenitente“, Bruno è anzitutto accusato di esercitare le arti magiche.
Nelle sue “Opere magiche“, darà una definizione di colui che si impratichisce di queste presunte arti: «…magus significat sapientem cum virtute agendi…». E qui ritorniamo, per l’appunto, all’etimo persiano della parola, al suo essere non tanto il vaticinatore, il preveggente, l’interprete del volo degli uccelli, ma semmai lo studioso della fisica e della metafisica, del moto degli astri per avere una idea diversa dell’Universo. Sebbene il copernicanesimo avesse fatto passi da gigante rispetto al modello tolemaico, la vastità dell’esistente era comunque pensata entro certi limiti.
Il senza fine, l’immensità priva di qualunque perimetro, dati come caratteristica prima del cosmo oscuro, fatto di miliardi di stelle, visibili ad occhio nudo davvero molto, molto poche, erano ancora concetti molto poco accarezzati dall’intellettualità dell’epoca e non avevano grande cittadinanza presso le università. Come la Sorbona a Parigi in cui Bruno insegnò. Quella magia che Mocenigo pretende di apprendere dal Nolano, forse per fare ancora più soldi di quelli che aveva come mercante veneziano, non è per nulla quella che Bruno può e vuole insegnarli.
La sua è una “magia simpatetica” (detta anche “simpatica“, ma non ha nulla a che vedere con la simpatia comunemente intesa): l’etimologia ci spiega che tipo di arte poteva essere questa. Dal greco σύν (“syn“) e πάθος (il famoso “pathos“, è un sentire comune, anche un “soffrire insieme” (se si prende come riferimento il verbo da cui deriva il sostantivo: πάσχω (“pasco“)). La sensibilità condivisa è, dunque, la radice di un approccio verso il mondo che non può non essere condiviso, perché la sperimentazione dell’esistenza, empiricamente intesa, è un qualcosa non di assolutamente o parzialmente singolare, ma di completamente comune.
Aristotele parla dell’essere umano come di un animale propriamente sociale, di un essere vivente che non ha nella sua natura la solitudine, l’estraniazione, la separazione di sé stesso dal resto che lo circonda. L’ascetismo, infatti, è una particolarità, una eccezione, vista come straordinaria stravaganza degli stiliti che, per l’appunto, adottavano questo comportamento come mortificazione e punizione per i peccati, cercando così una maggiore vicinanza nei confronti della divinità.
Nelle tante pagine che Bruno dedica alla magia simpatetica, uno dei presupposti su cui preferisce poggiare i suoi ragionamenti è la controversa ambivalenza dell’essere e dell’apparire, della realtà e dell’immaginazione, del concreto e dell’etero imprendibile, invisibile, incoerente come l’aere (diceva Carmelo Bene). Il termine usato, quello della doppia valenza, non è messo lì a sproposito: non è infatti detto che i caratteri ontologici assegnati dalla filosofia medievale all’essenza e all’apparenza siano così fissi e immutabili da dare come risultate degli opposti netti e irrinunciabili.
La Vita, come suggestione deistica, come rinnovamento concettuale di una religione che appare quasi pagana, è un tutt’uno con la materia, con ciò che esiste nell’interezza dell’Universo. In pratica, questo è un essere vivente, anche se noi spesso ci pensiamo viventi perché senzienti e coscienti della sensibilità che abbiamo, mentre valutiamo come solamente “esistenti” le cose inanimate. Ma, anche una grande roccia come la Terra ha la sua vitalità e noi siamo parte di questa stessa. Non possiamo quindi affermare di essere solo noi animali umani e gli altri animali la vita qui.
La Vita è nell’essenza stessa dell’esistente e, il fatto che tutto questo rimanga un mistero irrisolvibile, ossia privo di quel senso che gli vorremmo poter dare, anzitutto per assegnare un posto in questa storia che ci riguardi, senza più sentirci smarriti e così soli nel cosmo, non fa venire meno l’evidenza di ciò. Per Bruno la magia è un metodo di maggiore apprendimento delle caratteristiche intrinseche dell’essere. Il Nolano si riconosce studioso attento della magia “naturale“: nell’indagine sui fenomeni prettamente empirici.
Ciò non vuol dire che le attenzioni di Bruno riguardino solamente i fenomeni fisici. Anche quelli morali, intrinsecamente propri della nostra interiorità gli interessano come processo ancora più difficile da decifrare rispetto a ciò che è visibile agli occhi, udibile dalle orecchie, respirabile con il naso. Sarà proprio questa magia naturale a procurargli i guai più grossi, perché lo metterà in aperto contrasto con il creazionismo cattolico, con una religiosità ottusa che si è fatta pilastro del potere temporale e che non intende minimamente rinunciare a questo ruolo, a tutti i suoi inverecondi privilegi.
Proprio la religione diventa il principale ostacolo alla verità dell’esistente, alla sua prima essenza. Il mago inteso da Bruno è invece colui che non usa artifici, che non inganna nessuno, che invece disvela l’oggettivo, rivelandone anche tutti i limiti materiali, così come quelli morali dell’essere umano che è uno dei “segni” della naturalità, della Vita in quanto tale. Il panteismo cosmico di Bruno somiglia tanto all’ilozoismo (ὕλη (hýlē, materia), ζωή (zoé, vita)) di Stratone di Lampsaco e, secoli e secoli dopo, attribuito in qualche modo anche al materialismo spinoziano.
Il sacerdote-mago, dunque, è colui che non assume su di sé una dottrina intrisa di dogmi, ma che cerca, cerca e ricerca ancora affascinato da un trasporto interiore che lo porta a fissare la volta celeste ed a chiedersi costantemente il perché tutto ciò esista e se sia un tutto-vivente piuttosto che una creazione da parte di un Essere superiore di cui ci si dovrebbe, come piccoli umani autocoscienti, a quel punto chiedere un altra serie di perché sulla sua esistenza e sul compito stesso della generazione del tutto.
Nessuna risposta è possibile razionalmente. Ma nemmeno nessuno slancio metafisico della mente soddisfa queste domande. Solo il dogma può calmare gli animi: così è perché così deve essere. Ma poteva mai bastare una risposta di questo genere ad un animo continuamente in ri-evoluzione come quello del Nolano. Certo che no. Ed è per questo che il fascino del Bruno con la mente proiettata nell’Universo non viene meno. In lui ci riconosciamo perché non ci basta la porta chiusa del dogma, il dantesco «Vuolsi così colà dove si puote / ciò che si vuole, e più non dimandare».
Noi, con licenza per il Padre della lingua italiana, continuiamo, invece, a domandare. A noi stessi prima di tutto. E, magari, un po’ anche agli altri.
MARCO SFERINI
29 giugno 2025
foto: screenshot ed elaborazione propria