Quella venatura un po’ salmastra di neoatlantismo nel mediterraneo, italico sovranismo neopopulista dell’oggi e del prossimissimo domani, fa il paio con una striatura marmorea che è il tratto più riconoscibile del compatibilismo delle nostre destre di governo nell’ambito dell’Europa un tempo avversata e anatemizzata come una degli emblemi del capitalismo vorace e verace. Il granitico proposito di autarchica difesa dei prodotti nazionali si è dissolto o, quanto meno, annacquato in uno stagnerello di intenzioni a tutela del “Made in Italy” come prassi di gestione amministrativa.
Di là dall’Oceano atlantico, Donald Trump furoreggia: dazi contro il Canada che tratta male gli Stati Uniti, e altri dazi contro il Messico. Per non parlare della Cina, senza risparmiare l’Unione europea. Ormai amici e nemici vicini e lontani, non c’è più alcuna differenza – o così almeno sembra – tra chi era supinamente un fedele alleato della Repubblica stellata e chi, invece, ne è quasi sempre stato un fiero avversario. Sembra che uno dei problemi più attuali del liberismo, torsione ipertrofica del capitale del XXI secolo, sia proprio quello della tenuta del multipolarismo.
Gli Stati Uniti superconservatori di Trump e Musk non intendono essere di questa partita: se non dal loro esclusivo punto di vista che, nemmeno a dirlo, ripropone un multilateralismo in cui sia Washington a dettare le regole e sia il dollaro la divisa internazionale senza se e senza ma. Altro problema, strutturale tanto quello dello schema multipolare che si è affermato ormai da un trentennio a questa parte, è l’accumulo del debito americano: acquistato in gran parte dalla Cina, fa riferimento in larga scala al rapporto tra esportazioni e importazioni e dice chiaramente – perché le cifre non mentono – che tutto ciò è divenuto ampiamente insostenibile.
Quella che Thomas Piketty ha chiamato la “questione del ritorno allo Stato“, come formula sintetica per significare un recupero delle prerogative sovrastrutturale rispetto ad un’economia che aveva, ha fatto e sta facendo tutt’ora del potere politico e rappresentativo una subordinata del privatismo a tutto tondo, avrebbe una ragion d’essere nella rimodulazione complessiva dei rapporti tra le diverse sfere di influenza del capitalismo liberista; tanto più se si pensa in termini, per l’appunto, di globalizzazione di risorse sempre meno a disposizione per tutta una serie di paesi un tempo al centro dello sviluppo mondiale e oggi pericolosamente in fase declinante.
Ma il conservatorismo trumpiano, non da meno – seppure da un altro punto di vista e con obietti del tutto differenti – dell’impostazione bancario-finanziaria dell’Europa dei Ventisette, intende mettere a terra una traduzione davvero iperliberista del rapporto tra economia e Stato. Soprattutto se si considera il fatto che la gestione del fattore inflattivo non è contestualizzabile entro perimetri esclusivamente nazionali, visti i tanti condizionamenti dati da rapporti di produzione che sono oggettivamente diffusi su vasta scala, in paesi e aggregati di Stati in un cui non è riscontrabile quella benevolenza che Trump esigerebbe da un nuovo mondo unipolare a guida MAGA.
L’inflazione, adoperata come una clava sulla stragrande maggioranza dei salariati e dei moderni proletari, ha avuto nel corso di questi decenni come conseguenza grave nell’instabilità generale dell’economia di mercato e, quindi, del mondo del lavoro anzitutto, non una tassazione in maniera eguale sui prodotti più disparati, sulle merci importate e tanto meno una riduzione del rendimento medio del capitale, bensì una redistribuzione disegualissima del rendimento appena citato. Questo meccanismo di complessa elaborazione della composizione e scomposizione dei salari, mediante l’effetto del costo della vita, ha avuto ricadute davvero devastanti sulle tasche della povera gente.
Ma i moderni patrioti alla Trump, Meloni, Milei, Orbán e anche le petrolmonarchie del Golfo persico, hanno fatto spallucce alle implicazioni sociali, marciando per la via di una internazionalizzazione dei problemi evidenti, rimandando il tutto ad una sorta di constatazione molto poco amichevole di un mutamento generale dell’economia capitalistica dovuto ad una svalutazione del captale ingestibile in prima persona tanto dai singoli governi quanto dai centri regolatori delle oscillazioni del sistema liberista. Sono proprio i fondi petroliferi uno dei perni attorno a cui viene fissato l’asse di un equilibrio non nuovo ma, comunque, al tempo stesso molto diverso dal passato.
L’Occidente democratico, ricco e benestante scopre, mentre esibisce tronfiamente tutta la sua capacità di regolamentazione dell’economia mondiale secondo i princìpi del nordamericanismo e dell’imperialismo che lo sostiene (e dal quale è a sua volta impalmato e rinvigorito), di essere molto più dipendente oggi rispetto ai decenni ultimi del Novecento da un rapporto stretto, di interconnessione asfissiante con l’oro nero e con le materie prime sottoterrestri che Trump annusa ampiamente quando si riferisce alla conquista della Groenlandia. Stars and strips: il vessillo piantato su un grande subcontinente ghiacciato che è un crocevia di interessi non da poco.
La propaganda MAGA ha bisogno del nemico cinese per ingigantire davvero esponenzialmente la necessità di una chiamata alle armi per un popolo da patria in pericolo, per almeno una metà e poco più di quei duecentocinquanta milioni di americani che pensino a Pechino come alla minaccia prima del loro benessere e di quello dell’Occidente dai valori democratici, sacri, minacciati tanto dal molto residuale comunismo del grande drago, così come dall’alleanza dei BRICS. Ma, se si fa qualche ricerca anche non troppo approfondita ma su fonti indubitabili (tipo sfogliando gli strilloni del capitalismo propriamente nordamericano, come il Wall Street Journal), si avrà contezza di tutto questo.
La paura, anzi la vera e propria sinofobia alimentata in questi anni dalla, del resto, evidente mega crescita cinese in ogni settore economico che esporti in ogni dove nel mondo, è divenuta la cifra essenziale della valutazione distorta dei numeri che riguardano il caso Pechino. Si tratta di un timore non da sottovalutare ma, almeno al momento, non proprio così fondato: nazioni come gli Stati Uniti d’America sono molto più ricchi di quello che si può immaginare. E questo nonostante il loro esorbitante debito (ventitré mila miliardi di dollari!). Sempre il preziosissimo Piketty trae dai suoi meticolosi studi dati davvero molto interessanti. Per primo quello dei patrimoni e delle proprietà immobiliari e finanziarie.
In Europa «la totalità di questi patrimoni, al netto dei debiti, delle famiglie equivale oggi a qualcosa come settantamila miliardi di euro. Mentre la totalità delle attività detenute dai vari fondi sovrani cinesi e dalle riserve della Banca della Cina equivale a circa tremila miliardi di euro, ossia è più venti volte inferiore»¹. Piketty ne conclude, o per lo meno, chiosa sulla motivazione di questa paura fobicissima. Si tratta di una tattica che non è una esclusiva di Trump ma che, se si va leggermente indietro di qualche decennio, è un tratto distintivo dei governi di vario colore. Tanto di quello americano, quanto di quelli dei vicini ed alleati europei e nordamericani.
Una tattica che punta a scrollarsi d’addosso le responsabilità per il progressivo pauperismo che attanaglia sempre più decine e decine di milioni di persone: il frutto avvelenato di quelle politiche liberiste che scriteriati pseudo anarco-capitalisti come Milei mettono in pratica per esacerbare gli animi e nascondere, nello stesso istante, le veramente criminali necessità protezionistiche dei capitali privati da parte di governi compiacenti come quello del presidente della motosega. Servi sciocchi di un nuovo ristretto ceto dell’alta finanza che si struttura come nuova classe dirigente globale e locale al tempo stesso.
In una irregimentazione incostante di questo processo globale del multipolarismo, in cui il trumpismo rappresenta la cifra di una politica ribelle, eversiva e controccorrente, il lavoro subisce un processo di alienazione ancora più disperante rispetto al recente passato. Marx lo spiega nei “Grundrisse“, là dove afferma che lavoro e capitale, entrambi intrisi della contraddizione dell’alienazione, caratterizzante l’evoluzione del processo produttivo globale (oggi sempre più, e molto più ovviamente rispetto all’ieri), si incontrano e si scontrano senza esclusione di colpi. Sempre di più l’espropriazione della personalità del lavoratore è funzionale ad una impersonalità del sistema che agisce senza tenere conto della massivizzazione dei bisogni.
Se riprendiamo le frasi iniziali di queste considerazioni, quelle in cui si è scritto della ventata protezionistica, della guerra dei dazi messa in campo da Trump ma che, come si è osservato, non è una sua maligna intuizione moderna, bensì ha molti padri e molte madri anche nei settori politici del cosiddetto “progressismo democratico” (liberale e liberista…), ci possiamo rendere conto che questo sforzo è tutt’altro che autarchico: è una premessa violenta di un neo-espansionismo commerciale (e imperiale) americano che porta la concorrenzialità alle più estreme conseguenze.
Per cui non importerà dell’aumento dei prezzi su vasta scala, su prodotti comuni e necessari per tutto (oltre che sulle Chevrolet che mancano in quel del Principato di Monaco…). Ciò che conterà per questi somministratori della perversione liberista a tutto tondo sarà la guerra tra America e Cina in un contesto globale di comprimari da un lato e di subordinati dall’altro. L’Europa, che avrebbe potuto, se avesse davvero avuto una politica economica unitaria insieme ad una internazionale altrettanto tale, essere l’intermediario tra queste due posizioni, se sarà atomizzata nelle singole rivendicazioni nazionali dalle spinte MEGA (“Make Europe Great Again“) di Musk, non potrà esercitare alcun ruolo in tal senso.
Il punto è proprio la fragile interconnessione tra i Ventisette su un piano economico che non sia esclusivamente finanziario. La politica monetaria vera, di difesa quindi dell’Euro e di una autonomia del Vecchio continente rispetto a quella che appare come una nuova stagione dell’asservimento allo Zio Sam, non può del resto essere svincolata da una concezione di difesa europea comune. La NATO con la sua guerra in Ucraina, con il suo espansionismo imperialista, è portatrice di una commistione tra politica, economia e militarismo. Un trittico che si tiene perfettamente stretto nel legame che gli riconosce il progetto unipolare trumpiano.
Il finto orgoglio europeista evocato da Musk è, in realtà, una copia della teorizzazione MAGA che prevede la satellitarizzazione del resto del mondo intorno alla Repubblica stellata. Una economia che muta profondamente grazie al progresso tecnologico-scientifico, che si innesta ormai sull’intelligenza disumanamente artificiale, impone alle nuove dinamiche e ai nuovi rapporti planetari delle accelerazioni impreviste. Il capitalismo moderno, come del resto aveva previsto Marx studiandolo a fondo, oltre ogni tentazione dogmatica, ha bisogno della rivoluzione tecnica, dell’innovazione e della riorganizzazione complessiva della sua capacità di incidenza nella vita di tutti i giorni così come nei rapporti più complessi tra gli Stati.
Purtroppo allo sviluppo tecnologico non sempre corrisponde un altrettanto simile sviluppo sociale e pure etico. Il discorso ci porterebbe qui lontano rispetto alle premesse sull’analisi economica degli Stati Uniti di oggi e di domani. Tanto materiale per discutere e scriverne in merito si sta producendo, grazie ad un Trump tutt’altro che avaro sia di manifeste scempiaggini quanto di progetti inquietanti per il futuro prossimo nostro e di quell’Occidente che prova a creders ancora padre e padrone del mondo.
MARCO SFERINI
4 febbraio 2025
foto: screenshot ed elaborazione propria