La conoscenza di sé stessi è una difficile acquisizione gnostica che, intuitivamente, pare avere un carattere di maggiore risolutezza rispetto all’autoconsapevolezza dell’esistente. Quanto ci si rivolge direttamente al nostro essere, all’interiorità inconscia che non possiamo, oggettivamente, avere presente, in quanto appartenente al lato nascosto di noi, quello che più di tutto ci rende ciò che siamo nella nostra specificità in continuo mutamento, si sa – o per lo meno si dovrebbe sapere – che è imprendibile e soltanto parzialmente apprendibile.
Quando affermiamo, a volte con un piglio tronfio, altre volte con mestizia e rassegnazione, «Io mi conosco, io so come sono fatto» solennizziamo una grande sciocchezza: non fosse altro perché attraverso noi vive tutta una serie di concetti, pensieri, emozioni che ci appartengono solamente figurativamente e che prendiamo in prestito da un campo dell’esperienza che si forma, per l’appunto, mediante l’acquisizione di rapporti personali e col mondo che ci circonda che sono anch’essi dipendenti dal passato.
Non esiste praticamente nulla di realmente autonomo o, se vogliamo, di pienamente indipendente nella sua edificazione come soggetto pensante e cosciente privo di influenze esterne e capace di dirsi ed essere praticamente consapevole di ciò che è in tutto e per tutto. Ciò che siamo è un incessante divenire e, quindi, potremmo affermare che, nel mentre noi proclamiamo di conoscerci, questo stesso proclama entra a far parte di un processo di incessante acquisizione esperienziale; dunque nulla è certo, ma tutto è comprensibile.
Per comprensione si intende la contestualizzazione di quanto accade o, per lo meno, sembra accadere. Non si tratta di relativizzare massivamente tutto e tutti, qualunque cosa o individuo senziente e di minimizzare in questo caso comportamenti e conoscenze nel nome dell’insensatezza dell’esistenza (ossia del non poterle dare un senso ed un significato). Semmai si tratta di coltivare un costante rapporto di raffronto tra il micromondo della quotidianità terrestre e l’infinitudine inconoscibile dell’Universo.
In un simile termine di paragone la conoscenza della verità diventa è inutile, visto che non si può sapere il perché il tutto e il particolare esistano e perché ogni particolare trovi la sua sostanziazione e la sua “storia” e collocazione nell’esistente seguendo precise leggi di sviluppo e di inviluppo in una continua, inarrestabile trasformazione della materia. Mentre Socrate viene biasimato da Isocrate per la sua ricerca della verità in un contesto di condivisione delle esperienze, si potrebbe a nostra volta criticare il retore e filosofo ateniese per una punta di presunzione nel definire il λόγος (logos, ossia la “parola“) il fulcro dello sviluppo etico di una società.
Sarebbe tutto molto più semplice se il linguaggio e l’arte del trattarlo pubblicamente potesse avere un carattere pedagogico universalmente riconosciuto in quanto tale e fosse, quindi, la pietra angolare della formazione di principi di morale tanto singola quanto collettiva. Sarebbe davvero interessante assistere ad una coltivazione tanto dell’oratoria quanto della scrittura che potesse trasformarsi, in modo del tutto spontaneo e naturale, in una sorta di autocoscienza e di istruzione vicendevole in grado di essere il migliore sostegno della virtù.
La virtù, come principio di comportamentalità doppiamente utile all’evoluzione complessiva della propria persona e del contesto sociale in cui si vive, troppe volte è rimasta un concetto astratto, perché troppo lato, disponibile ad essere coniugato in declinazioni così differenti da essere svuotato di un vero e proprio significato etico. Virtuoso è, in qualunque mondo si possa dire di vivere, colui che segue dei princìpi retti, che non fa il male, che non nuoce a sé stesso e agli altri. Virtuoso è, in sostanza, chi vive seguendo dei valori che permettono una crescita consapevole della libertà nella solidarietà.
Socrate aveva mostrato che, per arrivare ad una sorta di virtuosismo prima di tutto cerebrale, interiormente demonico e, quindi, potersi tradurre favorevolmente in esseri capaci di tradurre lo spirito della conoscenza e dell’amore per la medesima (appunto della “filosofia“), era necessario interrogarsi anzitutto, autocoscientemente, sull’essenza umana; senza prescindere dall’esternità ma puntando il nostro occhio invisibile (quello della coscienza) fin dentro il nostro più profondo e ancestrale, sconosciuto mondo dell’inconscio.
Guardare alla propria anima (alla propria psiche, quindi) era il compito dell'”io consapevole” che metteva così in pratica, o per lo meno provava a farlo, una autoeducazione che non si esauriva in un tacito dialogo con la propria essenza imprendibile ed invisibile, ma che, partendo da questi presupposti, proprio nel dialogo, nel racconto, nel confronto con le altre esperienze e con una oggettività inconfutabile dell’esistente, tentava di andare oltre la semplice percezione.
Qui sta il divario tra Socrate e Isocrate: per il secondo, infatti, l’arte dell’eloquenza è propedeutica alla formazione del cittadini virtuosi in quanto eccellenza della conoscenza, portatori di una eleganza oratoria che è anche spiccata dedizione al bene comune, all’interesse per la comunità che non si esaurisce nell’importante compito politico che hanno gli esseri umani ma che, proprio da lì, prende lo spunto per allargare gli orizzonti e vivere – come sottolinea Ludovico Geymonat – «conformemente a quei princìpi che normalmente loda».
La superiorità della parola è, quindi, per Isocrate ciò che differenzia l’essere umano civilizzato da quello incivile, privo di una afferenza con la capacità dell’essere un animale socievole e politico. Il logos è, come nell’incipit biblico, il principio di tutte le cose: del progresso morale, civile, sociale, scientifico. La parola è uno strumento in grado di stabilire una interdipendenza libera tra l’essere autocosciente e gli altri esseri viventi, così come con tutto ciò che esiste ma è inanimato. Per il filosofo ateniese (così gli piaceva essere definito, piuttosto che “retore“) la civiltà è espressione “logica” che, non per niente, etimologicamente si rifà proprio al logos.
Possedere una capacità oratoria e narrativa è, sostanzialmente, avere – quanto meno nella Grecia coeva ad Isocrate e alle competizioni tra le scuole di pensiero e di educazione dell’epoca – uno strumento di successo che, però, non deve essere utilizzato alla stregua dei sofisti. Nessun fine venale nell’essere capace di influenzare gli altri e di istruirli, ma solo uno scopo etico e politico al tempo stesso. Qualcuno ha provato ad attribuire a questo impianto paideutico (o pedagogico, per dirla più modernamente) una sorta di fisionomia disciplinare.
Ma Isocrate non ha mai tentato e tanto meno ha preteso di fondare una scuola di pensiero in merito. Il suo elogio dell’eloquenza non è messo al servizio di una precostituita moralità che fa riferimento al benessere civile e sociale. Semmai, un pizzico di presunzione – che noi possiamo oggi leggere così sulla base dell’esperienza più generale nel raffronto con le altre dinamiche del pensiero filosofico nel corso dei millenni successivi – poteva riscontrarsi nel fare dell’arte della parola il mezzo da cui far originare un’etica condivisa.
Abile maestro, capace di competere con la titanica importanza del platonismo, Isocrate intende la παίδευσις (“paideusis“, ossia l’insegnare, l’istruire, il far conoscere) come processo educativo che conduce ed ispira la dedizione per la conoscenza verso un fine tutt’altro che ambiziosamente e di mero sterile teoricismo. Recuperando concetti platonici, dimostrando di non avere pregiudizi di alcun tipo nei confronti della scuola di colui che si diceva discendente di Solone e del re Crodo, Isocrate assegna all’educazione – possibile mediante la parola – il compito di istruzione per divenire guide dello Stato.
Il ruolo di Atene è nel Panatenaico esaltato come centro propulsore di un panellesimo soprattutto culturale, ma la guida politica contro gli incolti e a-democratici che premono da est è rivendicata per la sua città natale. La preminenza etica dell’arte oratoria, l’intrinsecità della ricchezza morale nel logos sono il presupposto fondamentale per una impostazione universalmente umana dei temi che riguardano la convivenza sociale. Scrive Isocrate a questo proposito: «Chi considero educato? In primo luogo chi sa affrontare le comuni vicende della vita e formarsi nelle diverse circostanze un’opinione esatta e capace di cogliere l’utile nella maggior parte dei casi».
Tutta una eredità gorgiana si esprime nel pensiero isocrateo che trascende la mera interpretazione del reale e che, quindi, si dispone senza soluzione di continuità alcuna nella sua trasposizione dal maestro al discepolo nel forgiare la vita medesima. Senza un sincero amore per la conoscenza non c’è per Isocrate nemmeno nessuna disposizione all’arte ottimale della politica. In fondo, il suo ragionamento è, riguardo le differenze umane, la complessità dei comportamenti e delle interazioni dei singoli nella collettività giornaliera, day by day, molto semplice: si migliora personalmente, eticamente e civilmente (nonché civicamente) mediante lo studio.
Per poterlo fare, però, occorre una φύσις (“physis“), una “indole” predisposta a questo importante compito. Senza quella – ed Isocrate sa che molti esseri umani possono non avere quella propensione – il filoso ateniese ammette prima di tutto a sé stesso che è inutile tentare di formare uomini capaci di guidare rettamente la città e, in senso esteso, l’Ellade. Il problema del bene e del male è, al riguardo, un falso problema: si faceva riferimento all’inizio di queste righe che per Isocrate la verità è irraggiungibile e il virtuosismo è qualcosa più di soggettivo e riconducibile alle capacità di comunicazione e di interazione.
Dunque, verità e virtù sono concrete soltanto se concepite entro i cardini di un ragionamento frutto di una opinione che si forma nell’alveo del pensiero. Critico quanto si vuole, ma non esiste una oggettivizzazione del vero e del virtuoso. Proprio perché siamo così singolari da rifiutare astrazioni assolute e tentativi di dimostrazione della possibilità di tendere al raggiungimento di ciò che non è più falso, più ingannevole, o meno falso e meno ingannevole di quanto possa apparirci o essere realmente. L’oratoria è studio concreto e possibilità di sviluppo anche spirituale.
Nessuna sopravvalutazione del potere del logos; semmai una presa di coscienza delle potenzialità che ha, della straordinarietà del fatto che noi, esseri viventi e senzienti autocoscienti, ci rapportiamo con l’esistente mediante la parola e attraverso questa siamo in grado di provare una definizione dell’esistente che ci è intorno e ci riguarda. Noi ne facciamo parte non passivamente ma provando a stabilire un nesso tra coscienza del vivo e del razionale, senzienza dell’essere vivo e istintivo, assenza di consapevolezza dell’inanimato.
L’eccellenza del logos, la sua potenza sta tutta qui: straordinaria perché, attraverso noi, quelli che paiono solo dei suoni sono collegati alle cose, alle persone, agli animali, alla natura. Noi siamo degli interpreti che danno dei nomi che prescindono certamente da ciò che esiste, ma che a noi servono per avere un senso minimo nell’esistente. La roccia non sa cosa sia la roccia, ma noi, nel definirla, così creiamo l’idea della roccia. Platone, torna e ritorna. Se non sempre, almeno spesso e volentieri.
Quell’idea di roccia sarà anche nel mondo delle idee, archetipo iperuranico, ma a noi serve per sapere, per conoscere, per costruire continuamente il presupposto di una conoscibilità che, altrimenti, non sarebbe mai potuta essere tale. Per finire, lasciamo questo passo dal “Panegirico“: «Se gli atleti avessero anche il doppio della loro forza fisica, l’umanità non ci guadagnerebbe nulla, ma se un solo uomo è saggio, tutti quelli che vogliono condividerne le idee possono trarne vantaggio».
MARCO SFERINI
20 aprile 2025
foto: screenshot ed elaborazione propria