La forza della democrazia: antifascismo, giustizia sociale, partecipazione

Con un tono paternalistico, tipico degli autoritarismi e, in particolare, di quelli che tentano di mascherarsi dietro princìpi democratici con cui vogliono superare la stessa democrazia, ci è stato...

Con un tono paternalistico, tipico degli autoritarismi e, in particolare, di quelli che tentano di mascherarsi dietro princìpi democratici con cui vogliono superare la stessa democrazia, ci è stato chiesto di festeggiare questo Ottantesimo della Liberazione d’Italia dal nazifascismo in modo “sobrio”. Un termine che è divenuto subito l’icona della mala sopportazione da parte delle destre di governo per una data che evoca potentemente tutta la vicenda della Resistenza alla dittatura di Mussolini e dei suoi complici.

Un termine che pretenderebbe di essere sinonimo di minimizzazione, di reductio, per tentare una normalizzazione della festa nazionale per eccellenza: quella che ci ricorda come la Repubblica Italiana sia figlia della lotta civile, sociale, morale e anche intellettuale che ha messo fine all’occupazione tedesca e al criminale regime fascista del più crudo, torturatore, spietato finto Stato repubblichino indipendente insediatosi dopo la caduta del fascismo stesso il 25 luglio 1943.

La sobrietà che esige questa prepotente destra di governo è necessaria alla sopportazione per un insieme di valori che sono altro dalla loro storia di pseudo post-fascisti. Interiormente, fin nel profondo delle loro convinzioni, ogni giorno mostrano l’attaccamento per un passato fatto di atti, gesti, leggi che hanno umiliato il popolo italiano fin dai primordi del regime mussoliniano. Lo si evince in tutta chiarezza dall’impossibilità oggettiva che tutti i più alti dirigenti della maggioranza di governo che, essenzialmente, è al traino di Fratelli d’Italia e di Giorgia Meloni, hanno nel non potersi dire antifasciste e antifascisti.

Noi possiamo continuare a chiedere che questo atto, prima o poi, venga fatto, seppure dietro il paravento di una quinta teatrale improntata ad un mero formalismo. Ma non avremo neppure quello. Al massimo il necessario galateo istituzionale dovuto. Niente di più e tanto di meno. Perché chi non si è potuto fino ad oggi riconoscere nella storia della Resistenza, in quella del partigianato e della ribellione (fin dai primissimi anni del regime) alla dittatura di Mussolini e, pur non essendo nato al tempo in cui tutto ciò avveniva, ne conservava magari un ricordo familiare, una affezione particolare, non potrà riconoscervisi oggi.

Non è qualcosa di poco conto, su cui si può sorvolare nel nome del rispetto delle culture e delle singole posizioni: semplicemente perché ciò che esponenti del governo italiano non riescono ad abbracciare nella sua pienezza è l’insieme complesso e, per questo, altamente importante ed imprescindibile dei valori fondanti la nuova comunità nazionale nata ottanta anni fa con la Liberazione, con la fine di un periodo ultraventennale di repressione sistemica, di crimini spietati.

La democrazia, si dice spesso, è debole e fragile. Ed è vero, perché è tanto preziosa quanto complicata nell’espletazione delle sue particolari funzioni che dinamizzano la vita politica, sociale e civile dell’Italia e, più in generale, di ogni altra nazione, di ogni paese. Ma, proprio perché la democrazia consente, grazie al massimo delle libertà di delega possibili, contenute nella Costituzione repubblicana, anche alle forze politiche che le sono meno afferenti di arrivare al governo del Paese, la stessa democrazia è in grado di creare le premesse e le condizioni per archiviare questo periodo.

La fase meloniana della politica italiana induce a considerazioni critiche che riguardano non solo le politiche del governo in senso stretto, bensì il ruolo stesso che la maggioranza intende esercitare di qui in avanti, dopo aver assistito in questi ultimi anni ad un progressivo logoramento degli spazi di agibilità democratica, di partecipazione, e ad una continua compressione dei diritti fondamentali: da quelli sociali a quelli civili ed umani.

La destra illiberale che governa oggi questa nostra Repubblica partigiana, resistente, laica ed antifascista, è tutto il contrario di questi aggettivi che la riguardano e la caratterizzano ad ottanta anni di distanza dalla fine del bestiale fascismo. Per poter apparire consoni al loro ruolo di governo, coloro che oggi siedono a Palazzo Chigi devono obbedire alle ritualità, fingere di essere dei convinti sostenitori della Costituzione in tutto e per tutto e, quindi, di non essere poi così lontani da quella cesura netta che fu il processo dell’alta assemblea che redasse il testo della Carta fondamentale.

Ma la repubblica che vorrebbero è ben diversa: premieristica e non parlamentare, con al centro l’azione del governo e non quella della Camere; divisa in venti piccoli staterelli autonomi con una differenziazione tra ricchi e poveri a tutto discapito di questi ultimi. Fondata non sul lavoro, bensì sulla tutela dei profitti e dei privilegi. Lontana da qualunque valorizzazione delle differenze, ma intrisa invece di stigmatizzazioni per tutto ciò che devia da quello che è un mediocre ed ipocrita patriottismo più che altro neonazionalista nel senso più esclusivista del termine.

La loro repubblica sarebbe (e vuole già essere oggi) forte con i deboli e condiscendente con i forti: al servizio di un capitalismo a cui anche il criminale Mussolini aveva fatto l’occhiolino quando si trattava di ottenere prebende per il proprio movimento politico da trasformare in partito. La tanto sbandierata cultura sociale del fascismo e, poi, del neofascismo postbellico, è sempre passata in cavalleria quando si è trattato di avere a che fare con personaggi che foraggiavano le casse nel nome del conservatorismo, del golpismo e dell’alterazione delle fondamenta democratiche della Repubblica.

Quelli che oggi ci invitano alla “sobrietà” nelle manifestazioni, con un ipocrita riferimento al periodo di lutto (opportunamente proclamato per cinque giorni invece di tre, come solitamente si usava fare anche per i papi che, pure, non sono i capi dello Stato italiano…) per la morte di Francesco, sono gli stessi che plaudono alle manifestazioni ad Acca Larentia o che tollerano quelle di Predappio o che, difficile dire cosa sia peggio, affermano che il battaglione Bozen che pattugliava Roma (città aperta) era composto non da giovani soldati delle SS bensì una sorta di scalcagna banda musicale di teutonici senescenti.

Ma sono anche gli stessi che, con grande disinvoltura, parlano di “sostituzione etnica” quando si riferiscono al grande tema delle migrazioni, decontestaulizzandolo e riducendolo ad una sorta di scontro tra civiltà dove, ovviamente, quella occidentale, italica e magari anche un po’ ariana assume la connotazione ineguagliabile della superiorità civile e morale. Sono gli stessi che hanno affermato che nella Costituzione non c’è alcun riferimento all’antifascismo. Ma può l’antifascismo essere riferimento a sé stesso? Può la Costituzione che è l’antifascismo, l’espressione massima della democrazia formale e legale, della laicità citare sé stessa?

Le provocazioni di questi postfascisti, che non hanno nulla a che vedere con la cultura della libertà civile e della giustizia sociale, sarebbero state duramente apostrofate dai grandi padri e dalle grandi madri costituenti: da Teresa Noce a Sandro Pertini, da Luigi Longo a Umberto Terracini, da Tina Anselmi a Pietro Nenni, tanto per citare alcuni dei nomi più eminenti tra i tanti che hanno dato vita al nuovo Stato italiano tra il 1946 e il 1948.

La forza della democrazia sta, ancora oggi, nel porre questi neo-postfascisti, liberamente, senza alcuna costrizione, innanzia al necessario confronto con una Repubblica che gli è aliena, con una Costituzione che non gli appartiene anzitutto storicamente: perché il loro partito di riferimento, quell’MSI dei reduci di Salò che ben presto si alleò anche con i peggiori elementi del monarchismo, era fuori dal cosiddetto “arco costituzionale” formato da tutti i partiti che si erano riuniti nel Comitato di Liberazione Nazionale (CLN e CLN Alta Italia) e che avevano dato vita all’ultima, grande fase della Resistenza popolare al regime e all’invasore nazista.

La forza della democrazia è la sua resistenza oggi al mutamento incostituzionale che le si vorrebbe imporre: snaturare il ruolo del Parlamento repubblicano e farne un luogo di ratificazione delle decisioni di un governo guidato da un premier forte e con poteri che mettono in ombra anche il Capo dello Stato. Per questo il 25 aprile non è una data da commemorare nel senso più languidamente cerimoniale del termine. Si deve dare testimonianza alla memoria, farne comunione e, quindi, viverla collettivamente.

Ma non si può pensare che il 25 aprile sia una liturgia laica che si esaurisce nella ritualità e che tutto venga quindi vissuto e fatto vivere come una serie di atti e di parole che obbediscono ad una specie di galateo istituzionale. Nel momento in cui ci ricordiamo dei fatti storici che portarono alla fine della dittatura di Mussolini e dell’occupazione del Terzo Reich in Italia, contestualmente al termine della Seconda guerra mondiale in Europa (ed in larga parte del mondo), abbiamo il dovere di rivivere tutto ciò attraverso la pratica quotidiana.

Come si può quindi celebrare il 25 aprile, e poi tra una settimana il Primo Maggio, senza far cadere il tutto nella mera ritualità che dura ventiquattro ore, passa per tornare esattamente un anno dopo? Con un impegno continuo in questo mese e mezzo che ci separa, ad esempio, dai referendum proposti dalla CGIL sui diritti del mondo del lavoro. L’8 e il 9 giugno si terranno cinque consultazioni referendarie: quattro su temi che riguardano proprio coloro che oggi sono i più penalizzati dall’economia di guerra, dalla crisi ambientale, dalla compressione dei diritti tutti.

Compresi quelli civili che, a volte, mettiamo un po’ in secondo piano.

Dobbiamo lavorare, nel nome della Resistenza e della Liberazione da ogni oppressione passata, presente e futura, per archiviare una serie di penalizzazioni nei confronti delle lavoratrici e dei lavoratori, dei precari, di coloro che il lavoro proprio non riescono a trovarlo e anche di quelli che hanno smesso di cercarlo e non sono più in grado – per via del disagio sociale, degli alti costi degli studi – di iscriversi ad una facoltà o di continuare le scuole superiori. Sono generazioni di media e giovane età che non possono essere abbandonate e che hanno il diritto di essere aiutate e il dovere di aiutare, a loro volta, coloro che rimangono indietro.

Sono milioni e milioni di persone che hanno dato tanto a questa società e hanno ricevuto in cambio delusioni, amarezze, ingiustizie. A partire dai migranti che sono una parte importante del tessuto sociale e civile, nonché economico, dell’Italia moderna. Il diritto alla cittadinanza lo meritano coloro che sono cittadini in tutto e per tutto e che, quindi, sopravvivono con occupazioni precarie e in condizioni simili o peggiori rispetto a noi autoctoni.

Celebrare la Liberazione oggi, nel suo Ottantesimo anno, è essenzialmente questo: renderle l’onore di essere stata un movimento civile di grande portata popolare che ha avuto coscienza, dopo vent’anni di spietata dittatura fascista e cinque di guerra criminale, di quanto accaduto e del fatto che era il momento di voltare pagina. Per sempre. Almeno questo era il presupposto contenuto in ogni singolo sacrificio partigiano, in ogni singola vita prestata alla lotta resistente. Non possiamo tradire questo presupposto e lo dobbiamo concretizzare giorno dopo giorno.

Celebriamo il 25 aprile oggi e tra un mese e mezzo, l’8 e il 9 giugno votiamo cinque SÌ per dare più forza ai diritti sociali e civili, per rendere più salda la nostra democrazia che oggi, mai come prima, è in pericolo e rischia di essere logorata, consunta e, così, superabile nel nome di nuovi nazionalismi che sono, davvero sempre, la premessa di nuovi conflitti, di nuove guerre.

Buon Ottantesimo della Liberazione, buon 25 aprile, buon voto a giugno!

MARCO SFERINI

25 aprile 2025

foto: particolare del manifesto della Associazioni antifasciste per l’Ottantesimo della Liberazione dal nazifascismo

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