La felicità, il bene e la virtù: dal mito ellenico al compito filosofico

L’antichissimo ellenico concetto di εὐδαιμονία (eùdaimonia) è stato spesso tradotto con una faciloneria molto approssimativa con il non proprio equivalente termine “felicità“. Etimologicamente parlando siamo di fronte al “demone”...

L’antichissimo ellenico concetto di εὐδαιμονία (eùdaimonia) è stato spesso tradotto con una faciloneria molto approssimativa con il non proprio equivalente termine “felicità“. Etimologicamente parlando siamo di fronte al “demone” del bene (εὖ, eù). Ma filosoficamente parlando se ci si riferisce ad uno stato di questa natura, si potrebbe più che altro trattare dell’atarassia, dell’assenza di angosce, di turbamenti, di arrovellamenti continui in una girandola di emozioni negative che sono, sovente, il frutto di frustrazioni in parte congenite e in parte derivate da un’esperienza di vita per ognuno di noi oggettivamente singolare.

Parlare di emozioni negative congenite potrebbe far sorgere qualche sospetto di ultra-neo-platonismo del XXI secolo. Non vuole essere così, perché nessun paragone è possibile concretamente con l’innatismo delle idee dell’aristocratico filosofo ateniese; mentre è forse utilizzabile se non altro la consapevolezza radicata in noi, col passare del tempo e con la crescita, della finitudine umana, della percezione dei confini non soltanto materiali ma anche metafisici che ci riguardano. La limitatezza della nostra mente è comunque compensata dalle grandi potenzialità, partendo dalla proprietà più distintiva: l’autoconsapevolezza di sé stessi e del resto dell’esistente.

Lo stato di felicità assoluta è un non-luogo, una utopia che può altalenarsi tanto tra le sensazioni puramente fisiche (il benessere, la salute, l’agilità e la possibilità di svolgere tutte le mansioni che ci riguardano nel nostro quotidiano) quanto tra quelle che invece sono riconducibili alla sfera della psiche, del soffio interiore, dell’anima così intesa nel mondo precristiano. Aristotele intende lo stato della serenità interiore come un processo di acquisizione anzitutto di comportamenti che si riflettono nella complessità della vita, anche e, forse, soprattutto sociale. Quello del filosofo, di colui che ha un oggettivo amore per la conoscenza e per l’indagine sulla medesima, è un compito piuttosto arduo.

Lo era un tempo ma lo diviene oggi ancora di più, perché l’osservazione e l’ascolto sono, in un’epoca in cui le informazioni viaggiano velocissime, diventate discipline meno gestibili rispetto ai millenni addietro. Non solamente perché la marea di notizie, di sensazioni che ci provocano e di risposte che siamo sollecitati a dare è veramente inarrestabile e di vastissima portata, ma pure perché è davvero impossibile comprendere ogni cosa, nel senso di afferrare con la mente ciò che ci si presenta innanzi e fermarsi, contravvenire all’irrequietezza spasmodica degli avvenimenti e decelerare nelle analisi.

Se la filosofia oggi ha, come un po’ sempre ha cercato di fare, il compito di costruire dei ponti tra le diverse scuole di pensiero, tra le più divergenti scienze e coscienze, se ne conviene che questa sua missione, volta a cercare di rasserenare l’animo degli esseri viventi, anzitutto di quelli autocoscienti umani, è in questa presunta nostra “modernità” davanti ad una sfida davvero notevole e che difficilmente riuscirà a risolvere. Parimenti la religione, in quanto fenomeno derivato da una necessita di assolvere alla tensione numinosa che il sapiens percepisce quando si raffronta e si parametra con la potenza della natura e con il mistero dell’esistenza stessa, è, separata dal connubio col secolarismo, un lenitivo della frustrazione.

Aristotele pone il nostro stare in compagnia di un “demone del bene” al di sopra di ogni singolo atteggiamento volto a conservare semplicemente la propria natura: la felicità, la serenità, la tranquillità umana sono il prodotto anche della realizzazione dell’essenza prima che ci riguarda, del nostro particolare stato esistenziale, delle nostre caratteristiche uniche come individui. Ma, anzitutto, sono una sorta di bene comune, di utilità sociale che lo πολιτικὸν ζῷον (politikòn zôon) realizza nella sua pienezza nel momento in cui è l’insieme delle specificità, nella sintesi collettiva, a prevalere come prezioso prodotto dell’interazione vicendevole

La felicità, quindi, diventa un patrimonio condiviso e non qualcosa che riguarda esclusivamente il piccolo, seppure importante, micromondo del singolo, dell’essere soggettivo. C’è una oggettività delle sensazioni e delle emozioni che è riscontrabile, in un passaggio successivo, nella loro concretazione pratica mediante le azioni di chiunque di noi in ogni ambito della quotidianità: dalla vita famigliare alla carriera politica, dal mondo dei commerci al contesto militare. La missione etica del filosofo è sostenere laicamente questo tragitto di avvicinamento tra l’etica singolare e l’etica sociale. La mente diviene, al pari del cuore, un intellettuale davvero collettivo.

Quando si parla di “volontà popolare“, la si intende quasi unicamente come risultato ultimo del voto delle urne, di delega istituzionale: sarebbe più utile, ogni tanto, ricordarci che tanto la filosofia antica quanto quella moderna si sono date come compito il condizionamento di quella volontà o, per meglio dire, l’ispirazione della medesima tramite una serie di esempi e suggerimenti sulla correzione delle nostre azioni se in contrasto con la libertà altrui. Pertanto lo stare in compagnia del “demone del bene” (o “del buono“) significava (e dovrebbe ancora oggi avere questa accezione) ritrovarsi in una condizione di parità tra individui nella dissimilità, nella ricchezza della differenza.

Il nostro demone (un po’ socratico e un po’ platonico-aristotelico…) è la certezza dell’impossibilità dell’onniscienza anche e soprattutto quando ci si riferisce a quei sentimenti di cui si faceva cenno poco sopra: l’amore è una soggettivizzazione tanto particolare del volersi bene che, per l’appunto, non esiste altra forma di empatia tanto singolare da avere un nome che può assumere mille significati e tutti differenti l’uno dall’altro nel momento in cui ci disponiamo al racconto delle nostre esperienze. Cinicamente si può anche trascurarlo, ritenere come Pigmalione di dedicarsi – un po’ cinicamente – solo alle proprie mansioni, a ciò che ci piace e sappiamo fare.

La felicità può anche prescindere da un amore nei confronti di un altro nostro simile. Ma in fondo ognuno di noi ha una statua di avorio presso cui sta e che venera sperando che una dea pietosa la tocchi con le sue mani miracolose e le dia quella vita così da poterla poi abbracciare veramente, stare con lei così come si sta con tutte le altre nostre passioni e così come si anelano cose e si sperimentano nuovi desideri. Se il compito della filosofia oggi è provare a stabilire nuovi orizzonti per oltrepassare le difficoltà del tempo presente, delle tante crisi che si sviluppano sotto i nostri occhi, il mito antico era la psicologia ante litteram che aveva un altro compito: dare agli esseri umani un sufficiente livello di accettazione delle proprie esistenze.

Differentemente dal demone del bene, abitano in noi tutta una serie di inquietudini che non prescindono dalla più generale e ancestrale angoscia per il non senso dell’esistenza, ma che a volte prevalgono su essa perché sono strettamente contingenti e ci riguardano proprio da vicino. Al di sotto della sfera celeste la ricerca della felicità è tipicamente terrestre: fin troppo materialista a volte. La propria proiezione nell’Universo priva l’essere umano non dell’autocoscienza che potrebbe sembrare più legata alla ricerca del senso limitrofo al proprio vivere giornaliero; semmai mette alla prova proprio questa endogena consapevolezza fino alle estreme conseguenze.

Dunque, il raffronto tra il nostro vivere qui ed ora e l’eternità fa una certa differenza nella ricerca di una atarassia che possa somigliare il più possibile ad una felicità tipicamente intesa come impertubabilità, come lo stare bene sia con sé stessi sia col resto della società. Impresa inumana, perché l’umanità è contraddizione congenita di sé in sé. Aristotele, nell'”Etica Nicomachea” afferma che, considerando la felicità una caratteristica dell’essenza umana che si potrebbe associare alla virtù, diviene logico ritenere che, come massima espressione del bene che possiamo provare, sia anche vincolata alla massima espressione del bene che possiamo produrre.

Una vita felice, dunque, è per logica una vita virtuosa, che non riguarda soltanto l’evitamento del male, ma in particolare il fare tutto ciò che conviene alla comunità che comprende, naturalmente, il singolo e la sua particolarità. Effettivamente quando parliamo di εὐδαιμονία (eùdaimonia), torna e ritorna oggettivamente il senso molto lato del termine che si riferisce ad uno stato di tranquillità dell’animo come di benessere fisico. Non c’è una distinzione possibile: mente, spirito, psiche vanno di pari passo con l’evoluzione di una fisicità che sostiene le proprie pene e quelle del mondo, che è forza ma non brutalità, che è capacità energica del fare ma non del sopraffare.

Aristotele è piuttosto esplicito in questo quadrante di considerazioni: gli esseri umani, sostenuti dall’istinto ma guidati dalla ragione, ricercano il bene come elemento costruttivo di sé medesimi. Il benessere è esattamente questo: lo stare bene, il trovarsi in una condizione lontana dalla distruzione, dall’annichilimento, dall’autoafflizione. L’eùdaimonia è, nella sua vasta accezione concettuale ellenica, traducibile più propriamente così. Ecco che bene e felicità divengono, se vogliamo con un certo piglio un po’ tecnico dal punto di vista meramente filosofico, compentrabili e compenetranti: si simbiotizzano proprio nel punto in cui il bene è essenza del felice e ne è presupposto inaggirabile.

Se vogliamo spingerci ancora oltre, senza forzare nessun concetto e nessuna interpretazione filosofica, possiamo sostener che c’è tutto un “mito della felicità” che ha attraversato i secoli e che è stato variamente interpretato tanto laicamente quanto religiosamente da differentissime scuole di pensiero, di vita, di comportamento. Etica, diritto, arte, letteratura, teatro, scienza e coscienza sono state sempre attraversate dal bisogno di consolidare quelle esperienze che hanno fatto progredire l’animalità umana su un piano di miglioramento delle condizioni di tutti e di ciascuno. Non c’è che dire: parallelamente al bisogno che abbiamo di essere felici, tutta una controcorrente pessimistica ha fatto il suo ingresso sul palcoscenico della Storia.

Senza banalizzare alcunché, quando ci si entusiasma per questa capacità umana di provare a rendere migliore l’esistenza su questa Terra, tutta una serie di contraddizioni si sono fatte largo, cominciando da quelle ispirate dal desiderio di possesso, dalla voglia di privilegio, dalla pretesa di stare e trovarsi in situazioni migliori rispetto ad altri. Spesso e volentieri questa postura di prepotenza è divenuta una dipendenza da quei rapporti di forza economici analizzati da Marx millenni dopo Aristotele. C’è poi una indubbia relazione conflittuale con una Natura che viene considerata talvolta matrigna perché non soddisfa pienamente l’anelito di dominio antropocentrico dell’essere umano.

La felicità, per quanto possa essere ricercabile, riscontrabile e vivibile nel maggiore grado possibile, dovrà fare i conti con avversità che sfuggono alla nostra pretesa di dominare qualunque forza della Natura, qualunque aspetto della nostra vita. Ciò dimostra che l’assoluto è oltre la finitudine umana: non ci appartiene. La vita è fatta di alternanze, di momenti che non sono estendibili ad ogni altro momento. Ogni emozione ha un suo posto nell’esistenza di ognuno di noi e in quella più articolata di quel mondo che dovremmo rispettare come “grande anima” naturale.

MARCO SFERINI

30 marzo 2025

foto: screenshot ed elaborazione propria

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Il portico delle idee

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