La differenza tra un impero e un racket è che entrambi fanno pagare la “protezione” alle vittime ma il primo elabora una cortina fumogena (spesso chiamata ideologia) per giustificare le sue estorsioni, mentre il secondo no. C’è una differenza tra la Pax Romana e il pizzo.
Dovremmo quindi ringraziare Donald Trump per aver mostrato al mondo, in appena sei mesi e dieci giorni, che gli Stati Uniti di oggi si ispirano al pensiero di Totò Riina e non a quello di Alexis de Tocqueville.
Nel caos dei dazi annunciati, ritirati, modificati, modulati e interpretati una sola cosa è chiara: il resto del mondo deve sborsare e l’America deve incassare. Il che è un esempio da manuale della definizione di impero nei manuali di Relazioni internazionali: «Un meccanismo per trasferire risorse dalle periferie al centro». Solo che questo meccanismo oggi non ha una giustificazione politico-culturale, il famoso soft power americano con cui ci hanno tediato per ottant’anni, bensì ha solo la forza dalla sua parte: “Dovete pagare perché dovete pagare”. Naturalmente le minacce funzionano con chi si fa intimidire, come l’Europa: la Cina è un boccone troppo grosso.
Anche se il logorroico Trump giustifica i suoi Executive Order con la consueta nenia del deficit commerciale, la realtà è che i dazi sono un’arma puramente politica per riaffermare il ruolo dominante degli Stati uniti. Tra le decine di esempi basterà ricordare le minacce alla Colombia in febbraio: dazi del 25% o del 50% se non avesse immediatamente accettato i deportati colombiani espulsi da Washington.
Poco tempo fa, Trump ha imposto dazi del 50% sulla maggior parte dei prodotti brasiliani, escludendo alcuni settori chiave, per “punire” quella che ha definito una caccia alle streghe contro Jair Bolsonaro, ex presidente brasiliano e suo fedele alleato, processato per il tentativo di colpo di Stato dopo le elezioni del 2022 vinte da Lula.
Trump ha poi imposto dazi del 25% sulle importazioni indiane negli Stati uniti, a causa dell’acquisto da parte dell’India di grandi quantità di petrolio e armamenti dalla Russia. Ha funzionato: parte degli acquisti di greggio russo è stata sospesa o ridotta da Nuova Delhi.
Il caso del Canada è uno dei pochi in cui la minaccia di dazi del 25% ha trovato una risposta energica: il primo ministro Carey ha detto che il pretesto usato da Trump (non aver bloccato il transito di fentanyl cinese verso gli Stati uniti) era ridicolo e ha mantenuto l’idea di imporre una digital tax sugli affari dei giganti tecnologici Usa in Canada.
I mercati finanziari ieri hanno reagito con prudenza ma i dati sull’occupazione negli Stati uniti rivelano la fragilità dell’economia americana e l’inflazione rimane in agguato, ragione per cui la Fed, la banca centrale, l’altro ieri ha mantenuto i tassi invariati, nonostante le pressioni della Casa bianca per abbassarli e gli insulti di Trump al suo presidente Jerome Powell.
La realtà è, come ha scritto il premio Nobel Paul Krugman, che l’incertezza è «un enorme deterrente per gli investimenti delle imprese. Se costruisci una fabbrica basandoti sull’ipotesi che i dazi torneranno a livelli più normali, rischi di ritrovarti con un investimento bloccato nel caso in cui i dazi del 20-%25% diventino permanenti. Se invece costruisci una fabbrica supponendo che dazi elevati siano la nuova normalità, il tuo investimento risulterà comunque bloccato se Trump dovesse fare marcia indietro».
In tutto questo, l’Unione europea è riuscita anche ieri a rendersi ridicola: Don Abbondio, resuscitato nelle vesti del commissario europeo al commercio Maros Sefcovic, si è precipitato a dichiarare che i nuovi dazi statunitensi «riflettono i primi risultati dell’accordo Ue-Usa, in particolare il tetto massimo del 15% sui dazi onnicomprensivi. Ciò rafforza la stabilità per le imprese europee e la fiducia nell’economia transatlantica». Ciò rafforza la stabilità per le imprese europee… Crozza, dove sei quando abbiamo bisogno di te?
FABRIZIO TONELLO
Foto di Gabriel Douglas da Pixabay







