La destra mondiale travolta dalla guerra di Netanyahu

La turbinosa velocità degli eventi bellici non risparmia niente, nessuno, nemmeno le fantomatiche tregue tronfiamente annunciate da Donald J. Trump sui suoi amati social. Mentre scrivo queste righe, missili...

La turbinosa velocità degli eventi bellici non risparmia niente, nessuno, nemmeno le fantomatiche tregue tronfiamente annunciate da Donald J. Trump sui suoi amati social. Mentre scrivo queste righe, missili iraniani stanno dirigendosi nuovamente su Israele. Ma questo non fa di Teheran un combattente peggiore degli altri: ognuno ha violato non qualcosa, ma praticamente tutto. Del diritto internazionale è stato fatto ampio strame e non se ne parla quasi più.

Dell’ONU si accenna solo formalmente, per richiedere qualche seduta del Consiglio di Sicurezza che è impotente davanti alla sciarada di un risiko quasi ormai globale e che, comunque, risvolti planetari li ha ad ogni dichiarazione tanto proveniente da Est quanto da Ovest. Qualcuno gioca la carta della follia trumpiana, ma il presidentissimo non è pazzo. Lo si pensava anche di Adolf Hitler. Ma il dittatore austriaco, naturalizzato tedesco, era lucidamente megalomane.

Proprio come lo sono i leader mondiali di oggi: con tutte le debite e opportune eccezioni; se non altro per avere – quanto meno il più possibile – chiaro come si muovono sia i rapporti di forza che determinano gli stati di guerra, sia quelli di un potere politico che li utilizza per rimanere a galla nel peggiore dei casi e vivacchiare nel migliore. Sta di fatto che la guerra si allarga: questa è una delle poche considerazioni oggettive, e quindi non interpretabile e condivisibile sotto ogni aspetto, che i giornali hanno scritto e con cui hanno titolato nelle ultime quarantotto ore.

Ma l’allargamento della guerra non è solo riferito al fatto che dal fronte di Gaza, da quello del Libano, da quello con gli Houthi, Israele passa a quello con l’Iran. Tanti altri fattori determinano un coinvolgimento sempre maggiore dell’Europa o, per meglio dire, della NATO. Rutte lo ha detto chiaro e tondo: serve il 5% del PIL (scimmiottando apertamente la richiesta di Trump) di ogni paese dell’Unione per rifinanziare il riarmo dell’Alleanza e del Vecchio Continente.

Una previsione macabra a cui si ribellano in pochi: voce che vaga nel deserto, la Spagna di Sánchez non ci sta e ottiene una rinegoziazione in merito. Si vedrà nelle prossime ore al vertice che si sta per tenere all’Aja. Giorgia Meloni invece obbedisce: se serve è pronta persino, dietro un passaggio parlamentare (in cui è scontato che la maggioranza voterà a favore), a permettere che gli Stati Uniti d’America utilizzino le basi che hanno in Italia per bombardare l’Iran. Chi pensava che la guerra fosse tanto lontana da non poter arrivare da noi, ebbene si sbagliava. E di molto.

La guerra ci sta scovando, presto arriverà se non si metterà in campo una vera azione diplomatica. Ma nessuno sembra esserne propenso e, forse aspetto ancora peggiore, esserne all’altezza ed in grado. La voce di papa Leone XIV è l’unica che parla di recupero delle posizioni, di un ripensamento tra le parti, ma è molto più flebile di quella di Francesco, perché utilizza una prudenza nei toni che non le permette di bucare con una certa determinazione il muro di omertà che c’è rispetto alla volontà di espandere i conflitti.

Tutti lo negano, ma tutti (o quasi) lavorano nella direzione della guerra e non certo dell’interesse dei popoli che sono martoriati. Gaza è oscurata dai nuovi avvenimenti, ma negli ultimi giorni, sempre sui palestinesi che stavano cercando un po’ di pane, di farina, di riso, di alimenti essenziali, sono stati sparati colpi da parte dell’esercito israeliano che hanno causato oltre duecento morti. La tregua tra Israele e Iran, annunciata da Trump e smentita nei fatti poco fa, era il frutto di due debolezze, di due fiati corti.

Da un lato Tel Aviv che iniziava a sentire il peso politico e materiale dei bombardamenti iraniani a cui l’Iron Dome non faceva più da scudo efficace; dall’altro Teheran che, dopo l’intervento statunitense sui suoi siti nucleari, ha risposto lanciando uno stormo di missili su una base USA in Qatar, preavvisando la Casa Bianca e lanciando quindi il messaggio della rappresaglia formale, non di una vera e propria rabbiosa risposta. I due pugili, con al centro l’arbitro a stelle e strisce, mostravano tutti i sintomi di un quasi-KO vicendevole.

Poco serve che Teheran neghi l’attacco missilistico di stamane. Che sia stato orchestrato da Israele e Stati Uniti, per mostrare tutta l’inaffidabilità degli iraniani, o che sia invece un loro diretto prodotto, ormai è irrilevante nella caterva di menzogne su cui, coerentemente, si regge sempre qualunque guerra. Tanto più quelle in cui i pretesti servono a valanga per giustificare azioni che sono, oltre che al di fuori del perimetro del diritto internazionale, anche ben oltre qualunque precetto etico, negando così i diritti fondamentali di ogni vivente.

Indubbiamente nell’attuale svolgimento dei conflitti in corso in Medio Oriente c’è una buona percentuale, da parte di Israele, di improvvisazione: lo si evince de quello che è un dato comune un po’ a tutti gli analisti e che, in sintesi, riguarda la mancanza di un vero e proprio progetto per il dopoguerra. Su Gaza nemmeno a dirlo: se persino Giorgia Meloni, in Parlamento, arriva al punto di affermare che la reazione israeliana nei confronti della Striscia sta avendo “forme inaccettabili“, significa che la propaganda non copre più il genocidio in atto.

La pulizia etnica non osa quasi più contestarla nessuno. Sul termine “genocidio” invece rimangono le perplessità di una parte anche ampia del mondo progressista perché, naturalmente, il termine riguarda quegli eventi della Seconda guerra mondiale che sono, poi, la tragica, orrorifica ossatura storica e attualistica su cui si è fondato lo Stato ebraico nel 1948. Comunque sia, il governo di Netanyahu inizia ad essere valutato per quello che è: non un gabinetto di guerra, ma un esecutivo di criminali contro l’umanità.

Tuttavia l’attenzione ora è concentrata sulla nuova guerra tra Israele e l’Iran. Non che non ve ne sia ragione. Ma per comprenderla, è abbastanza chiaro che non si può prescindere da Gaza, anche dagli eventi del 7 ottobre, ma soprattutto dalle relazioni che Tel Aviv ha avuto in questi ultimi decenni nell’area mediorientale: Teheran era e rimane il nemico numero uno. Forse più ancora dei palestinesi che sono un nemico “facile“, da questo punto di vista: non sono uno Stato, non hanno un esercito consolidato e strutturato, non posseggono centrali nucleari, non arricchiscono l’uranio.

La minaccia di distruzione dello Stato ebraico è divenuta quanto prima il pretesto per regolare i conti una volta per tutte con il sanguinario e repressivo regime degli ayatollah, in una fase in cui sembra proprio che Israele intenda stabilire una sua egemonia regionale sul Medio Oriente: Libano, Siria, Giordania, Egitto, Arabia Saudita, Yemen, Qatar, Emirati Arabi Uniti e Iran hanno, ognuno, in questo contesto a che fare con una ridefinizione delle politiche tanto bi quanto trilaterali con Tel Aviv.

Rimane fuori l’Iraq che è il crocevia di passaggio aereo dei missili dell’una e dell’altra parte e che è ancora indaffarato nella gestione di un post-ISIS tutt’altro che messo da parte nel nome di chissà quale instaurazione dell’esportazione democratica promossa con le nuove Guerre del Golfo. Guerre che non accennano, come si vede, a diminuire: dallo stretto di Hormuz a rischio di blocco iraniano, passa il 30% del petrolio mondiale… Non una cosetta da ridere… Chi controlla quei cinquanta chilometri di spazio marittimo, controlla alla fine una fetta importante di economia globale o, quanto meno, la condiziona.

Ciò che sembra più prendere corpo è un condizionamento da parte israeliana delle decisioni di Trump: il presidentissimo si era mostrato come il nuovo alfiere della pace mondiale, con tutta quella ipocrisia che è spavaldamente esibita dall’alto di una egoticissima sicumera. È persino giunto ad affermare che meriterebbe il Nobel per la pace, con tutto quello che ha fatto… Forse meriterebbe di più un Nobel per la faccia di bronzo che ha…. Tuttavia, è innegabile che la Casa Bianca abbia rincorso Netanyahu nella sua furia assalitrice dell’Iran.

Per non rimanere fuori dai giochi, per rimanere nella partita del nucleare iraniano e mostrare la sua capacità di influenza multipolare, Trump ha biascicato ora una affermazione, ora un’altra, smentendosi più volte e, forse anche tatticamente, promettendo due settimane di riflessione circa l’attacco ai siti nucleari di Teheran, salvo, appunto, attaccarli in meno di due giorni da quelle dichiarazioni. Della parola del presidente a stelle e strisce non si può fare affidamento alcuno.

Quando non è lui a smentire sé stesso, lo sono i fatti che gli si rivoltano contro e lo costringono a recuperare in consenso pubblico e, quindi, elettorale. Di fatto c’è che il disordine mondiale si è fatto ancora di più disordinato e che non si può più parlare di “crisi locali“, di “guerre regionali“: dall’Ucraina a Gaza, dal Libano all’Iran, i conflitti interessano tutto il pianeta. Russia e Cina non staranno a guardare se l’espandersi delle ostilità sarà la cifra prossima ventura delle politiche tanto mediorientali quanto europee ed nordatlantiche.

Il “Liberation day“, tanto esaltato come nuova data di orgoglio nazionale per lo Zio Sam in salsa MAGA, è stato prontamente accantonato e la guerra dei dazi con Pechino messa da parte. L’indebitamento statunitense è tale che non si può pensare di fare la guerra alla Cina con dazi del 125 o 145%: sarebbe un vero e proprio embargo commerciale, una condizione economica e finanziaria in cui gli USA non possono reggere a lungo. Forse nemmeno a brevissimo termine. Infatti, dalla dichiarazione ampollosa sulla liberazione americana dal gioco asiatico, passarono pochi giorni e tutto mutò radicalmente.

Trump non è credibile mai: né quando parla di politica interna, né quando tratta i più complessi temi delle relazioni internazionali. Non è pazzo, è soltanto senza bussola, naviga a vista e non ha un progetto chiaro in nessun settore politico ed economico: vive di contrasti in una fase in cui la minaccia della stagflazione che gli si prospetta davanti ogni volta che prova a riproporre l’unipolarismo di Washington, negando il multipolarismo. L’interdipendenza del mercato mondiale è un fattore oggettivo con cui il presidentissimo deve fare i suoi più amari conti.

Date queste premesse e le varie crisi aperte in tante parti del pianeta, pare evidente che né la Cina e né tanto meno gli Stati Uniti di Trump avrebbero voluto che si aprissero nuovi fronti di guerra. Ma Israele ha spinto l’alleato americano nel conflitto con l’Iran e questo potrebbe costare molto, in termini di consenso politico, al magnate-presidente. Per questo i messaggi di pace lanciati dopo l’attacco ai siti nucleari. Per questo la tregua che, tuttavia, non è durata. Probabile che la tattica di piccolo cabotaggio faccia capolino in questa fiera delle falsità.

La guerra è questo: omicidio, infingarderia, tradimento. Di tutto e di tutti. Il riarmo europeo ed italiano vanno nella stessa direzione. Giorgia Meloni si gioca, al pari di Trump, una buona parte di elettorato. Se dovesse concedere le basi americane in Italia per fare la guerra all’Iran, il suo destino politico seguirebbe quello del suo amico americano. E se questo significasse il tracollo, non vi sarebbe altro se non augurarsi che ciò avvenga. Ma se il prezzo fosse la guerra mondiale, allora quel prezzo sarebbe decisamente troppo, troppo alto.

Le destre vanno mandate via da Palazzo Chigi, ma democraticamente e non augurandosi il tanto peggio, tanto meglio.

MARCO SFERINI

24 giugno 2025

foto: screenshot ed elaborazione propria

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