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Corso Cinema

Joséphine Baker. Viva la libertà

Corso cinema n. 142

Ballerina, cantante, attrice, spia, attivista per i diritti civili. Una grande del Novecento

“Comedian” è probabilmente l’opera d’arte che più ha fatto discutere negli ultimi decenni sul concetto stesso di “arte”. Una banana attaccata a un muro con del nastro adesivo venduta nel 2024 per oltre 6 milioni di dollari al miliardario delle criptovalute Justin Sun che non ha esitato a stupire il mondo mangiandola davanti alle telecamere.

1. Joséphine Baker col celebre gonnellino composto di sedici banane

Ma un secolo prima non una, ma sedici banane avevano già segnato la storia dell’arte e dello spettacolo, facendo sognare il mondo intero. Non semplice frutta, ma un gonnellino che una giovane artista indossava completamente nuda con leggerezza, ironia e sensualità. La sua danza, insieme audace e giocosa, rompeva tabù e ridefiniva immaginari, mescolando cultura popolare e avanguardia, diventando al tempo stesso un simbolo universale di libertà espressiva. Un’artista che sarebbe stata anche un’attrice, una cantante, una spia, un’attivista per i diritti civili. Il suo nome era Josephine Baker.

Freda Josephine McDonald nacque il 3 giugno 1906 a Saint Louis, nel Missouri. Sua madre, Carrie McDonald, era figlia adottiva di due ex schiavi, Richard McDonald ed Elvira McAfee (l’abolizione della schiavitù negli Stati Uniti era avvenuta solo nel 1865). Carrie era cantante e ballerina, e intrecciò una relazione – non solo artistica – con Eddie Carson, musicista di strada di origine spagnola. Da quell’unione nacque Josephine.

Ma già nel 1907 Carson abbandonò la famiglia. Pare non gradisse il legame della compagna con una famiglia di ex schiavi e non riconobbe mai ufficialmente la bambina. Josephine assunse così il cognome della madre. Carrie, costretta a rinunciare alle sue aspirazioni artistiche, trovò lavoro come lavandaia. In seguito incontrò un nuovo amore, Arthur Martin, un operaio che accolse con affetto anche la piccola Josephine. Negli anni successivi la famiglia si allargò: nacquero Richard (la cui paternità rimase incerta), Margaret e Willie Mae. Una famiglia povera, nera, nel cuore di uno stato del Sud, dove le discriminazioni razziali segnavano profondamente la vita quotidiana.

GIOVANE BALLERINA

2. la piccola Freda Josephine McDonald

“Eravamo tutti spaventosamente poveri”, ricorderà nella sua autobiografia “Mémoires” (uscito in Italia per EDT col titolo “La mia vita”). Da bambina, Tumpie come la chiamavano in famiglia, dopo la scuola, raggiungeva la madre nelle abitazioni dei ricchi bianchi per lavorare come domestica o baby sitter. Lì sperimentò fin da subito la segregazione: aveva appena otto anni. E poi ballava. Per passione, ma anche per il freddo.

Viveva nel quartiere di Chestnut Valley, “riservato” agli afroamericani. Una zona malfamata, principalmente costituita da edifici privi di servizi igienici e ovviamente senza riscaldamento. Josephine scendeva in strada e ballava, perché in fondo quella era la sua passione, anche se la madre spesso cercava di ostacolarla, probabilmente per evitarle le stesse umiliazioni vissute da lei. Ma la piccola non si arrese: scappò di casa, andò a vivere con la nonna Elvira e, a dodici anni, abbandonò la scuola. Visse anche per strada. E ballava. Sempre.

A tredici anni trovò lavoro come cameriera in un club. Lì conobbe un operaio di fonderia, Willie Wells, che sposò giovanissima. I due andarono a vivere con la madre di Josephine, ma il matrimonio si concluse presto e male, nel 1920, con tanto di bottigliata in testa data dalla giovane ragazza.

Risparmiando con fatica, Josephine riuscì a comprarsi un biglietto per assistere agli spettacoli del Boxer Washington Theatre, riservato esclusivamente ai neri. Fu lì che consolidò il suo amore per il ballo e per il canto, finché, dopo molte insistenze, convinse il direttore del teatro a concederle un provino. Da quel momento ebbe inizio la sua carriera di ballerina nei piccoli teatri di Saint Louis.

Entrò così a far parte di un trio di artisti di strada, la Jones Family Band, che in seguito sarebbe confluita nella compagnia itinerante dei Dixie Steppers. Durante un tour a Philadelphia, ballava allo Standard Theater, Josephine incontrò William Howard Baker, fattorino presso il Pullman Hotel della città. Nonostante la disapprovazione della famiglia di lui, che mal sopportava l’età, le origini e soprattutto il colore della pelle della giovane artista, i due si sposarono. Quel matrimonio durò poco quando Josephine lasciò il marito per trasferirsi a New York e inseguire il suo sogno. Eppure, da quell’unione rimase qualcosa di indelebile: il cognome Baker, che Josephine avrebbe portato per tutta la vita.

3. il cast di “Shuffle Along”

Ad appena sedici anni, con due matrimoni già alle spalle, Josephine si presentò al Daly’s 63rd Street Theatre di Broadway. Fu rifiutata più volte, ma non si arrese. Alla fine venne assunta come sarta per lo spettacolo “Shuffle Along”. Sembrava il destino di sua madre Carrie che si ripeteva, ma un giorno una corista si ammalò e Josephine fu chiamata a sostituirla.

“Shuffle Along” era uno spettacolo composto interamente da afroamericani, in un’epoca in cui la segregazione era ancora fortissima. Restò in tournée per due anni e segnò la storia del teatro: fu infatti il primo musical nero a essere rappresentato in numerosi teatri “bianchi” a livello nazionale.

In seguito Josephine ottenne un ruolo nella rivista “Chocolate Dandies”, anch’essa formata da soli artisti afroamericani, e poi entrò al Plantation Club. Fu lì che incontrò Caroline Dudley Reagan, donna elegante e mondana, moglie dell’addetto commerciale dell’ambasciata americana a Parigi, Donald J. Reagan (nessuna parentela con il futuro presidente USA), che in seguito diventerà compagna del poeta Joseph Delteil.

La donna rimase colpita dal talento e dal carisma della giovane Baker e le fece una proposta decisiva: 250 dollari a settimana se avesse accettato di seguirla in Francia, dove stava organizzando uno spettacolo che avrebbe avuto Josephine come protagonista. Accettò. E la sua vita cambiò per sempre.

A PARIGI

Caroline Dudley Reagan era in contatto con l’attore e produttore André Daven, da poco nominato direttore del Théâtre des Champs-Élysées di Parigi. Dopo anni di crisi, il suo obiettivo era quello di riportare il teatro al centro della scena culturale, portando sul palcoscenico le nuove avanguardie che attraversavano l’Europa, in particolare il fascino del Primitivismo, capace di evocare e reinventare un’esperienza “primitiva”. Con l’aiuto del pittore cubista Fernand Léger, Daven immaginò uno spettacolo interpretato interamente da artisti neri, con musica, canti e danze.

Da New York furono ingaggiati dodici musicisti – tra cui Sidney Bechet, uno dei più grandi clarinettisti del XX secolo – e otto coristi, tra cui Josephine Baker, che stava ormai attraversando l’Atlantico sul transatlantico Berengaria. Partita il 15 settembre 1925, sbarcò a Cherbourg il 22. Pochi giorni dopo, il 12 ottobre, debuttò la “Revue Nègre”, davanti a un pubblico d’eccezione che includeva Fernand Léger, Kees van Dongen, Robert Desnos, Blaise Cendras, Jean Cocteau.

4. il charleston di Josephine Baker in “Revue Nègre”

Nella prima parte dello spettacolo, alcuni ballerini acrobatici, accompagnati da buona musica, non suscitarono particolare clamore. Ma fu la seconda parte a cambiare tutto: quando il sipario si alzò, apparve un fondale con grattacieli disegnati da Paul Colin. I ballerini introdussero Sidney Bechet con la sua orchestra, e poi entrò lei. Josephine. Folgorò i presenti, fermando il tempo e lo spazio.

Era a casa, quando faceva smorfie incrociando gli occhi. Era la bambina di Saint Louis che ballava per scaldarsi. Era nei locali segregati del Sud degli Stati Uniti, dove danzava il Charleston, ballo sincopato e travolgente degli afroamericani. Ora era a Parigi, dove nulla di simile si era mai visto.

Nessuno in Europa aveva ballato il Charleston. Nessuno aveva mai visto un’artista fare le smorfie, camminare a gattoni. Nessuno aveva mai visto dei capelli così corti su una ragazza (in molti spettacoli si pensò che fosse un ragazzo), nessuna li aveva così schiacciati sulla testa, opera dello coiffeur Monsieur Antoine (lo stesso che inventò il caschetto reso immortale da Louise Brooks). Commercializzò persino un gel per capelli, il Bakerfix.

Ma, soprattutto, nessuno aveva mai visto un gonnellino di sedici banane, ideato per lei dal costumista austriaco Paul Seltenhammer, che Josephine indossava magnificamente, completamente nuda, muovendosi con energia travolgente, improvvisando e scatenandosi in una danza, la Danse Sauvage, che fece impazzire il pubblico. Quel gonnellino sarebbe diventato un’icona del Novecento. Lei, finalmente, si sentì libera: “Un giorno mi resi conto che vivevo in un paese in cui avevo paura di essere nera. Era un paese riservato ai bianchi. Non c’era posto per noi. Stavo soffocando negli Stati Uniti. Molti se ne andarono, non perché lo volevano, ma perché non potevano più sopportarlo… A Parigi mi sentii liberata.”

5. Joséphine Baker venne ribattezzata “la venere nera”

Dopo quello spettacolo, Josephine Baker fu acclamata come una stella. La leggenda racconta che più di 1500 uomini chiesero la sua mano. Sicuramente ebbe grandi amori: lo scrittore Georges Simenon, padre del commissario Maigret, e il calciatore José Leandro Andrade, figlio di un’argentina e di uno sciamano brasiliano, eroe dell’Uruguay che vinse l’oro olimpico nel 1924 a Parigi, nel 1928 ad Amsterdam e la prima Coppa del Mondo nel 1930. Lui, il primo calciatore nero acclamato in Europa, “la maravilla negra”. Lei, la prima vedette nera a conquistare il vecchio continente, “the black Venus”, la Venere nera.

Josephine Baker andò a vivere a Montmartre, nel cuore pulsante della Parigi bohémienne. Amava vestirsi in modo eccentrico: acquistava abiti, scarpe, e perfino animali esotici come il ghepardo Zozo, che più volte spaventò orchestra e pubblico, e un serpente che portava al collo quando frequentava i cabaret dopo gli spettacoli. Sperperava denaro, ma non dimenticò mai la famiglia, che grazie al suo aiuto riuscì a trasferirsi in una casa dignitosa.

Il 24 aprile 1926 debuttò alle Folies-Bergère con “La Folie du Jour”, rivista che, secondo l’impresario Paul Derval, avrebbe dovuto superare il successo del Moulin Rouge di Mistinguett. Ci riuscì: sul palco, mentre il ballerino senegalese Féral Benga suonava il tam-tam, Josephine ballava avvolta in piume rosa o con l’ormai iconica cintura di banane.

I PRIMI FILM

6. “La Folie du Jour”

Fu in questo periodo che conobbe Giuseppe Abatino (Calatafimi, 10 novembre 1898), detto Pepito, sedicente conte di origini italiane ma in realtà il classico “Don Giovanni” figlio di uno scalpellino. Una sera, dopo lo spettacolo, ballò con lui un tango: nacque un amore che si trasformò presto in sodalizio artistico e personale. Pepito divenne il suo impresario e compagno per dieci anni. Sebbene Josephine fosse ancora sposata con Willie Baker, i due annunciarono alla stampa di essersi sposati nel giugno del 1927: la notizia divise l’opinione pubblica, e l’anello di diamanti da 16 carati che lei mostrava non bastò a convincere i più scettici.

Sotto la guida di Pepito, Josephine comparve nei primi film, La Folie du jour (1927) diretto da Joe Francis e Die Frauen von Folies Bergères (1927) di Max Obal, sostanzialmente una registrazione del charleston ballato alle Folies-Bergère sia per il pubblico francese, sia per quello tedesco. Lievemente più articolato il successivo La Revue des revues, sempre del 1927, sempre per la regia di Joe Francis, che con inserti colorati alla Georges Méliès. Nel film un ragazzo, con padre alcolizzato e violento, sogna di calcare il palcoscenico, ovviamente quello delle Folies-Bergère dove si esibisce Josephine Baker.

Ma un’artista che ballava il charleston come poteva emergere in film muti? E infatti l’esperienza fu piuttosto disastrosa per Josephine che si riscattò solo registrando “Breezin’ Along with the Breeze” canzone iconica per rifatta, tra gli altri, da Lynn Martin, Nat King Cole e Bing Crosby.

Ma in quell’intenso 1927 uscì il primo film a soggetto con protagonista Josephine Baker: La Sirène des tropiques, diretto da Mario Nalpas e Henri Étiévant.

7. La Sirène des tropiques (1927) diretto da Mario Nalpas e Henri Étiévan

Il marchese Severo (Georges Melchior), ricco parigino è intenzionato a divorziare dalla moglie (Regina Dalthy) per sposare la giovane figlioccia Denise (Regina Thomas). La moglie, però, gli ricorda che Denise è innamorata dell’ingegnere André Berval (Pierre Batcheff). Severo finge di approvare la relazione e propone ad André un incarico come esperto minerario nelle Antille, ma in realtà ordina al suo fidato Alvarez (Adolphe Candé) di impedirgli di fare ritorno in Francia. Nelle Antille, André si scontra con Alvarez quando questi tenta di violentare Papitou (Josephine Baker), giovane indigena. Papitou, riconoscente, si innamora dell’ingegnere e gli salva la vita quando Alvarez cerca di ucciderlo. Intanto Denise e la moglie del marchese giungono sul posto: André ha già fatto arrestare Alvarez e scoperto le prove del complotto di Severo. Papitou, però, è delusa nello scoprire che André è promesso a Denise. Decisa a non separarsi da lui, si imbarca di nascosto per Parigi, dove ottiene un contratto in un music hall a condizione di ritrovare André. Ma i nemici del giovane approfittano della situazione: durante la festa di fidanzamento con Denise, Papitou e André vengono fatti incontrare, e la ragazza viene presentata come sua amante. L’ingegnere, disonorato, accetta un duello; ma Papitou interviene, uccide il marchese e svela l’inganno, restituendogli l’onore. Infine, consapevole che il suo amore non potrà essere ricambiato, sceglie di farsi da parte.

Il film, un dramma esotico dai toni melodrammatici, fu girato con molte difficoltà: a Josephine non venne nemmeno tradotto il copione in inglese. Il suo ruolo era soprattutto quello di farsi ammirare e ballare. Tuttavia, quell’esperienza le servì a capire con chiarezza dove fosse la sua vera vocazione: il palcoscenico.

Pepito aveva aperto a Pigalle il club Chez Josephine e organizzò per lei una grande tournée mondiale nel 1928. L’itinerario toccò Austria, Ungheria, Jugoslavia, Danimarca, Romania, Cecoslovacchia, Germania, Paesi Bassi, Argentina, Cile, Uruguay e Brasile, contribuendo in modo decisivo alla diffusione della sua fama e dei suoi dischi. Ma quasi ovunque la tournée fu accompagnata da minacce di destra e clero per la sua “dubbia moralità”. Manifestazioni, interventi di parlamentari, perfino una sfida a duello tra il reazionario capitano di cavalleria Andrew Czlovoydi e il povero Pepito chiamato a difendere l’onore di Josephine. Odiata e additata dai potenti, amata dal pubblico. La tournée fu un successo (particolari e aneddoti sono raccontati nella già citata autobiografia “La mia vita”).

8. Joséphine Baker nel 1930

Oltre alle danze travolgenti, ormai Josephine si distingueva anche per una voce personale e riconoscibile. Nel 1930 Henri Varna, direttore del Casino de Paris, tramite l’impresario Émile Audiffred, la scritturò per guidare la rivista della stagione 1930-1931. Qui ottenne un successo memorabile interpretando “J’ai deux amours”, brano di Vincent Scotto. Pubblicato su disco a 78 giri, vinse il Grand Prix du Disque e rimase per sempre legato alla sua figura, con il celebre ritornello “Ho due amori: il mio paese e Parigi”.

Fu proprio a Parigi che Josephine si sentì finalmente libera e realizzata, pur vivendo per alcuni anni nella vicina Vésinet. Dopo la crisi del 1929 si impegnò anche nel sociale: sostenne i disoccupati, distribuì pasti ai senzatetto e divenne madrina dell’associazione Pot-au-feu des Vieux, dedicata a garantire un piatto caldo e popolare – il pot-au-feu, tipico del Nord della Francia – agli anziani in difficoltà.

ZOUZOU E LA PRINCIPESSA TAM TAM

Nel frattempo l’infaticabile Pepito, che non sarà stato un conte, ma che aveva un intraprendenza trasbordante, insieme al fratello, scrisse due soggetti cinematografici per la sua Josephine. Il cinema aveva scoperto il sonoro.

Il primo fu Zouzou diretto da Marc Allégret (Basilea, 22 dicembre 1900 – Parigi, 3 novembre 1973), fratello maggiore del regista Yves Allégret. Nel cast anche un giovane Jean Gabin e Yvette Lebon che durante l’occupazione fraternizzò eccessivamente coi nazisti. Girato nell’estate del 1934 tra Parigi e Tolone, il film venne distribuito nelle sale il 21 dicembre dello stesso anno.

9. Zouzou (1934) di Marc Allégret

Zouzou (Josephine Baker) e Jean (Jean Gabin), due orfani di diversa origine, crescono insieme nel circo ambulante Romarin, dove il direttore (Pierre Larquey) li presenta al pubblico come “gemelli”, nonostante l’evidente differenza di carnagione. Fin da bambina, Zouzou sogna la scena: si diverte a truccarsi e a imitare gli artisti del circo, coltivando il desiderio di diventare una stella. Con il tempo, però, il suo amore fraterno per Jean si trasforma in un sentimento profondo, non ricambiato. Diventati adulti, Zouzou lavora in una lavanderia mentre Jean presta servizio in Marina. Al suo ritorno, la famiglia decide di trasferirsi a Parigi, e per la giovane si apre finalmente l’occasione di inseguire i suoi sogni. Grazie a Jean ottiene un numero di danza in un teatro, conquistando subito il pubblico e avviandosi a una brillante carriera. Ma sul piano personale è costretta a soffocare i propri sentimenti, poiché Jean è innamorato sinceramente della sua amica Claire (Yvette Lebon).

Josephine Baker riuscì finalmente ad esprimersi anche sul grande schermo, cantando tra l’altro la celebre “Fifine”, in un film che unisce musica, storia sentimentale e tratti noir, e che contribuì a lanciare la carriera di Jean Gabin, durante le riprese rischiò di essere imbarcato per davvero vista la sua straordinaria capacità di immedesimarsi (con tanto di scazzottata). Secondo il quotidiano comunista “L’Humanité” Zouzou era “L’unico film di music-hall realizzato in Francia in grado di fare la concorrenza alle produzioni americane”.

Il secondo film scritto da Giuseppe “Pepito” Abatino per Josephine Baker fu Princesse Tam Tam (La principessa Tam Tam), questa volta al fianco di Albert Préjean, uno degli attori più amati da René Clair, questa volta diretto da Edmond T. Gréville. Il film uscì il 2 novembre 1935.

10. Princesse Tam Tam (1935) di Edmond T. Gréville

Max de Mirecourt (Albert Préjean), scrittore di successo ma deluso dall’infedeltà della moglie Lucie (Germaine Aussey), parte per la Tunisia in cerca di ispirazione. Qui conosce Aouïna (Josephine Baker), una giovane vivace e spontanea che lo affascina al punto da trasformarla nella protagonista del suo nuovo romanzo, intitolato “Civilization”. Max decide di introdurla alla società parigina: dopo averle insegnato le buone maniere, la presenta come una misteriosa principessa indiana, la “Principessa Tam Tam”, usando l’espediente per suscitare la gelosia della moglie, legata al Maharaja di Datane (Jean Galland). L’ingenua autenticità di Aouïna, però, sorprende tutti: la sua freschezza e naturalezza conquistano Parigi, facendola diventare una figura di grande curiosità e fascino. Alla fine, l’espediente ottiene l’effetto sperato: Max e Lucie si riconciliano, mentre Aouïna sceglie di tornare in Tunisia, confessando la sua vera identità al Maharaja.

La pellicola mescola commedia sofisticata, melodramma e fantasia coloniale, costruendo attorno alla figura di Josephine Baker un racconto che riflette tanto le mode quanto i pregiudizi dell’epoca giocando sul contrasto fra civiltà occidentale e spontaneità “esotica”, ma il film non ebbe il successo sperato.

RITORNO SUL PALCOSCENICO

11. Joséphine Baker e Pepito Abatino

Josephine tornò così sul suo amato palcoscenico. Conquistò un pubblico ancora più vasto, cantando e ballando brani come il tango “Voluptuosa” di José Padilla Sánchez, arrivando persino a offuscare la celebre Mistinguett. Grazie a Pepito, nel 1935 fu protagonista dell’operetta di Jacques Offenbach “La Creole” e l’anno successivo entrò nel cast delle “Ziegfeld Follies of 1936” a Broadway.

Nell’ottobre del 1935 si era, infatti, imbarcata sul transatlantico Normandie per intraprendere un lungo tour negli Stati Uniti, con la speranza di affermarsi anche nella sua terra natale. Tuttavia l’esperienza americana si rivelò deludente: il pubblico rimase freddo e la critica la attaccò per l’abitudine di parlare talvolta in francese o in un inglese dal forte accento francese. Non solo. Seguendo stereotipi e pregiudizi la voce di Josephine non venne considerata un’autentica voce “nera”, che detta dai bianchi fa un po’ ridere, perché non sufficientemente profonda, e per questo non le fu mai affidato un ruolo da protagonista e il sogno di brillare a Broadway svanì rapidamente.

Delusa, Josephine tornò a Parigi nel maggio del 1936, sempre a Bordo della Normandie, dove ottenne nuovi ingaggi alle Folies Bergères per la rivista “En Super-Folies”. Poco dopo, nell’autunno del 1936, Pepito morì improvvisamente, quando la loro relazione era già in crisi, ma grazie al finto conte italiano, Josephine Baker divenne una stella. La prima stella nera della storia.

Una stella che continuò a brillare anche negli anni successivi. Nel 1937 Josephine, che poteva cantare in francese, inglese, portoghese, spagnolo, italiano (registrò anche la napoletanissima “”Munasterio ‘e Santa Chiara”) e tedesco, incise uno dei suoi successi più noti, “La conga blicoti”, ripreso molti decenni più tardi da Woody Allen come parte della colonna sonora del film Midnight in Paris (2011).

12. Jean Lion

Nello stesso anno Josephine Baker sposò Jean Lion, industriale francese di origine ebraica attivo nel commercio dello zucchero. Le nozze si celebrarono il 30 novembre a Crèvecœur-le-Grand, paese natale dello sposo. In quell’occasione l’artista ottenne la cittadinanza francese. Quasi ad esaltarla aggiunse l’accento al suo nome, trasformandolo in Joséphine e cambiò la pronuncia del cognome.

I due si trasferirono nel castello di Milandes a Castelnaud-Fayrac (oggi Castelnaud-la-Chapelle) in Dordogna. Per amore pare si convertì all’ebraismo, ma il matrimonio si rivelò breve, travagliato e segnato da un aborto spontaneo, cui fece seguito una drammatica un’isterectomia. L’artista maturò così il desiderio di adottare bambini, ma il rapporto con Jean era già compromesso e i due divorziarono nel 1941.

Lion, nato a Parigi nel 1910, visse direttamente le difficoltà legate alle leggi antisemite del regime di Vichy. Durante la seconda guerra mondiale si unì alla Resistenza, combattendo in Nord Africa e in Alsazia, dove fu ferito e decorato per il suo coraggio. Morì prematuramente nel 1957, vittima dell’epidemia di influenza asiatica.

SPIA ANTINAZISTA

Già, i nazisti. Baker continuò le tournée organizzate da Émile Audiffred e Daniel Marouani, ma nel settembre del 1939, ormai cittadina francese da due anni, con un’eterna riconoscenza per l’amore ricevuto, decise di mettere la sua fama al servizio della Francia. Tramite il fratello del suo impresario Daniel Marouani, conobbe Jacques Abtey, ufficiale del controspionaggio francese (Deuxième Bureau). L’uomo non riuscì nemmeno ad avanzare la proposta, perché lei aveva già detto di si. Josephine Baker la donna che aveva fanno innamorare mezza Europa divenne una spia.

13. da “venere nera” a spia contro i nazisti

Grazie al suo status di star, Baker poteva, infatti, muoversi liberamente in ambienti mondani, ambasciate e ricevimenti, carpendo conversazioni utili da riferire ai servizi. Già poche settimane dopo il suo ingaggio, ad esempio, comunicò ad Abtey di aver saputo all’ambasciata italiana della decisione di Mussolini di schierarsi con Hitler.

Parallelamente si impegnò come intrattenitrice per i soldati al fronte e come volontaria della Croce Rossa, accogliendo i profughi belgi e olandesi. Nel 1939, insieme all’impresario Henri Varda, aveva lanciato la rivista “Paris-London” al Casinò de Paris, ma il 10 giugno 1940, con l’avanzata tedesca, lo spettacolo venne interrotto. Abtey le consigliò di lasciare Parigi, ma Baker rifiutò di fuggire e, approfittando dei suoi spostamenti artistici, continuò a raccogliere informazioni. Alcune le appuntava su fogli nascosti nel reggiseno o cuciti negli abiti, altre le scriveva con inchiostro simpatico sugli spartiti musicali.

Dopo l’armistizio del 22 giugno 1940, Baker si ritirò nel suo castello di Milandes, dove fu raggiunta da Abtey. In novembre i due partirono per Lisbona, ufficialmente diretti in Brasile per un contratto artistico, ma in realtà con la missione di stabilire contatti con i servizi alleati. Abtey consegnò a un agente dell’MI6 (l’agenzia di intelligence per l’estero del Regno Unito) informazioni sulle unità tedesche in Francia. Tornati a Marsiglia, Josephine recitò nuovamente nell’operetta “La Creole” e, il 17 gennaio 1941, si imbarcò con Abtey verso l’Algeria, portando con sé decine di bauli e animali da cui non si separava mai: serpenti, cani, gatti, topolini e perfino un maiale.

Stabilitasi prima ad Algeri e poi a Marrakech, si legò a personalità locali come Mohammed Menebhi e Thami El Glaoui. Tra marzo e aprile 1941 compì un tour in Portogallo e Spagna, continuando a trasportare documenti nascosti. Poco dopo, colpita da una grave peritonite, fu ricoverata a lungo alla clinica Mers Sultan di Casablanca, senza tuttavia interrompere del tutto la sua attività informativa e logistica: la sua residenza divenne rifugio per agenti e perseguitati.

Durante la permanenza in Marocco, grazie al sostegno di Ahmed Belbachir Haskouri, contribuì a ottenere passaporti spagnoli e marocchini per ebrei in fuga dall’Europa, registrati come ebrei marocchini per poter raggiungere l’America Latina.

14. Joséphine Baker ad Algeri nel 1944

Nel novembre 1942 lo sbarco alleato in Nord Africa (l’Operazione Torch) fu possibile anche grazie a molte informazioni raccolte da Baker. Dopo la guarigione, tornò a esibirsi: il 20 marzo 1943 tenne un gala a Casablanca in un club per soldati afroamericani, poi altri spettacoli in Algeria, culminati il 13 agosto 1943 in un grande concerto all’Opera di Algeri alla presenza di Charles de Gaulle, che le donò una Croce di Lorena d’oro (da lei successivamente messa all’asta a beneficio della Resistenza).

Tra il 1943 e il 1944 compì un lungo tour attraverso il Nord Africa e il Medio Oriente, fino al Cairo, Beirut e Damasco, accompagnata da Abtey e Menebhi. Nel maggio 1944, dopo un gala ad Algeri a beneficio dell’Aviation Mutual Aid, fu ufficialmente arruolata nell’Armée de l’air come sottotenente e “ufficiale di propaganda”, incarico favorito dal brevetto di pilota ottenuto nel 1938.

Il 6 giugno 1944, durante uno spostamento in Corsica, l’aereo su cui viaggiava fu costretto a un atterraggio di fortuna nei pressi di Chiavari. In ottobre sbarcò a Marsiglia e, il 20 novembre, cantò a Belfort per le truppe del generale de Lattre de Tassigny. Seguì la Prima Armata francese lungo il fronte, esibendosi per soldati e partigiani fino alla fine della guerra.

15. eroina della Resistenza

Alla Liberazione, Baker era ormai simbolo di coraggio e patriottismo: si esibì per le truppe alleate in Germania e Italia e il 26 agosto 1944 sfilò accanto a De Gaulle nei festeggiamenti a Parigi, con la divisa di sottotenente d’aviazione e le prime decorazioni appuntate sul petto. Nel dicembre dello stesso anno registrò anche un’indimenticabile versione del classico della musica messicana “Bésame mucho.

Il primo settembre del 1945 fu congedata con il grado di capitano. Per il suo impegno ricevette la Croix de guerre, la Médaille de la Résistance dalle mani di De Gaulle. Quindi la Médaille commémorative des services volontaires dans la France libre, la Médaille commémorative française de la guerre e, nel 1961, Legion d’onore consegnatale dal generale Martial Valin.

L’AMORE PER JO BOUILLON E LA CAUSA ANTIRAZZISTA

16. Joséphine Baker e Jo Bouillon

Un grande ricambiato amore per la Francia. Non l’unico per Josephine Baker. Nel dopo guerra conobbe Joseph Jean Étienne Bouillon (Montpellier, 3 maggio 1908), per tutti Jo. Raffinato compositore e violinista, ma soprattutto direttore d’orchestra di grande prestigio, collaborò con gradi artisti come Mistinguett e Maurice Chevalier. Josephine e Jo si sposarono il 3 giugno del 1947, appositamente il giorno del suo compleanno.

Come viaggio di nozze una tournée in Sud America scupolosamente organizzata da Bouillon. Prima in Argentina, con spettacoli a Buenos Aires e in altre sedici città, poi in Cile, in Perù, in Ecuador. Quindi in Messico e, infine, la tappa più attesa: Cuba. Già nel 1931, infatti, lo scrittore Alejo Carpentier aveva sottolineato l’influenza della rumba nelle canzoni di Josephine Baker. L’artista si esibì nell’isola nel 1950, per poi tornarci nel 1951 e nel 1952 proprio mentre Fulgencio Batista si consolidava al potere. Subì episodi di crescente razzismo, le fu ad esempio negata la stanza di hotel, fu sorvegliata speciale da FBI, mafia e dallo stesso Batista che mal tollerava la presenza di oppositori del regime tra il suo pubblico. Il dittatore aveva ragione. Qualche legame effettivamente c’era.

Nel gennaio 1953 la polizia represse nel sangue una rivolta studentesca. Dopo settimane di agonia, il 13 febbraio morì Rubén Batista Rubio, uno dei giovani feriti. Il giorno successivo Baker partecipò al funerale e decise di devolvere i proventi del concerto successivo al movimento di Fidel Castro. Per questo il 18 febbraio venne arrestata e interrogata dai servizi segreti di Batista. Fu liberata solo grazie all’intervento della diplomazia francese. Negò simpatie comuniste, ma dichiarò che non sarebbe più tornata a Cuba fino alla caduta del dittatore.

17. Joséphine Baker a Cuba

Non furono più semplici le tournée negli Stati Uniti sia nel 1947 sia nel 1951. Solite stanze di albergo negate, vagoni diversi dai passeggeri bianchi, e gli inquietanti cartelli “Cani e negri non ammessi” esposti fuori dai locali. Soprattutto nel Sud, ma anche nel Nord.

Il 16 ottobre 1951 Josephine Baker si trovava a New York. Quella sera aveva prenotato allo Stork Club, il locale simbolo dell’élite newyorkese, in compagnia del cantante Roger Rico, di sua moglie e dell’amica Bessie Buchanan con cui aveva lavorato negli anni venti nello spettacolo “Shuffle Along”. L’atmosfera era quella delle grandi occasioni: un luogo frequentato da politici, giornalisti e star, in cui ogni tavolo raccontava un pezzo della vita mondana americana.

Non appena seduta, Baker ordinò una bistecca. Sembrava una richiesta semplice, ma col passare dei minuti il clima si fece sospetto: nessun cameriere tornava al tavolo, nessuno rispondeva alle chiamate di Rico. Quando finalmente uno si avvicinò, disse che la bistecca non era disponibile. Lo stesso accadde con altri piatti e perfino con il vino. Alla fine, dopo una lunga attesa, arrivò la pietanza ordinata, ma a quel punto Josephine era troppo ferita e indignata per toccarla. Lasciò il locale, portando con sé un senso di umiliazione che non poteva restare senza risposta.

Il giorno dopo denunciò l’accaduto alla polizia. L’episodio ebbe un’eco immediata: la National Association for the Advancement of Colored People (NAACP) si schierò al suo fianco, organizzando manifestazioni di protesta. Walter White, segretario dell’associazione, arrivò a scrivere a J. Edgar Hoover, chiedendo un intervento federale, convinto che quella discriminazione rappresentasse non solo un’offesa individuale, ma un pericolo per l’immagine della democrazia americana. La risposta di Hoover fu fredda e lapidaria: “Non considero questa faccenda di mia competenza”.

18. Joséphine Baker e Grace Kelly

Ma quella sera, allo Stork Club, c’era anche chi comprese subito la gravità dell’accaduto. Grace Kelly, seduta a pochi tavoli di distanza, assistette a tutto. Quando si rese conto che Josephine non sarebbe stata servita, si alzò, la prese sottobraccio e lasciò il locale insieme al suo gruppo. Dichiarò che non vi sarebbe mai più tornata. Quel gesto spontaneo segnò l’inizio di una lunga amicizia tra le due donne.

Per Josephine, però, le conseguenze furono pesanti. Ricevette minacce e pressioni: se non avesse ritirato la sua denuncia, rischiava di perdere i contratti e di essere cacciata dagli Stati Uniti. Lei non si lasciò intimidire: “Sono pronta a sacrificare la mia carriera per un principio”, dichiarò. Ma presto si trovò contro anche un avversario potente: il giornalista e opinionista Walter Winchell, presente al club quella stessa sera. Invece di sostenerla, cominciò a screditarla, ripescando vecchi articoli che la dipingevano come simpatizzante di regimi stranieri e insinuando che fosse un’istigatrice di disordini. Nel clima avvelenato del maccartismo, quelle parole furono devastanti.

Il 5 novembre 1951 Josephine lasciò gli Stati Uniti. Il suo visto fu revocato e l’FBI aprì un dossier su di lei. La donna che pochi anni prima aveva rischiato la vita per la Resistenza francese si trovava ora trattata come una sospetta sovversiva.

Quell’episodio rappresentò una svolta. Josephine Baker, già convinta sostenitrice del movimento Harlem Renaissance (il movimento per l’emancipazione degli afroamericani che vedeva tra i suoi sostenitori anche Louis Armstrong), capì che la sua popolarità poteva essere messa a disposizione contro le ingiustizie: “Posso darvi la mano, e questo ha una grande importanza per voi e per me, per noi, tutti membri della razza umana”. Pagò un prezzo alto, ma da quel momento la sua figura smise di essere soltanto quella di una star: divenne un simbolo di lotta e dignità, un’artista che aveva deciso di usare la propria voce non solo per cantare, ma per difendere i diritti civili.

LA TRIBÙ ARCOBALENO

Tornò in Francia e acquistò col marito il castello des Milandes, doveva ormai viveva da diversi anni. Con l’impossibilità di avere figli aveva già deciso di adottare dei bambini e gli episodi di razzismo le fecero maturare l’idea di fare qualcosa per dimostrare che “bambini di diverse etnie e religioni potevano ancora essere fratelli”. Seguendo il sogno di una fratellanza universale “Joe and Jo”, come simpaticamente si chiamavano, adottarono dodici tra bambine e bambini da diversi paesi e di diverse religioni. Era la “tribu arc-en-ciel”, la “tribù arcobaleno” come amava definirla Josephine.

19. Joséphine Baker e la sua “tribù arcobaleno”

Nel 1954 Josephine Baker fu invitata a Tokyo a un congresso contro il razzismo. Lì incontrò il suo primo figlio adottivo: Akio, un bimbo di diciotto mesi abbandonato su un marciapiede sotto un ombrello. Poco prima di ripartire, incrociò lo sguardo struggente di un altro bambino, Teruya, che ribattezzò Jeannot: non ebbe il coraggio di lasciarlo indietro.

Da quel momento, ogni tournée divenne per lei l’occasione di accogliere un nuovo figlio. A Helsinki adottò Jari, un bambino biondo di due anni; a Bogotá una madre, già con sette figli, le affidò l’ultimo nato, Luis; in Canada adottò Jean-Claude, di tre anni.

Durante un viaggio a Gerusalemme, prese con sé Moïse, un bimbo di nove mesi di religione ebraica. Per poter mantenere la famiglia, Josephine si esibì in una rischiosa tournée in Algeria, ancora sconvolta dalla guerra: lo spettacolo ad Algeri, tra colpi di fucile, fu un successo clamoroso. Lì trovò due neonati, Brahim/Brian e Marianne, sopravvissuti grazie alla protezione di un cactus.

Dopo una serie di spettacoli in Costa d’Avorio tornò a Tolosa con Koffi, e da Caracas rientrò con Mara, di origine indiana. Con loro i bambini arrivarono a dieci. Più tardi si aggiunsero l’undicesimo, André/Noël, e la dodicesima, Stellina, adottata in Francia ma nata in Marocco.

Pur rimanendo profondamente legati si separò da Jo Bouillon nel 1957 per poi divorziare nel 1961. Jo si ritirò a Buenos Aires dove aprì nel quartiere di Palermo un ristorante francese chiamato El Bistrò.

Rimasta sola per sostenere le spese di questa grande famiglia Josephine Baker continuò a esibirsi instancabilmente in tournée in tutto il mondo, portando il suo messaggio antirazzista.

AL FIANCO DI MARTIN LUTHER KING E FIDEL CASTRO

Mercoledì 28 agosto del 1963 tornò ad indossare dopo anni l’uniforme dell’aeronautica francese e volò a Washington per partecipare alla marcia per il lavoro e la libertà. Salì sul palco per lasciare un testamento morale, una dichiarazione di dignità e un appello diretto alle nuove generazioni.

20. Joséphine Baker interviene alla Marcia di Washington

Baker raccontò la propria vita come un viaggio che parte dall’emarginazione e dalla paura, passa attraverso il riconoscimento e la libertà trovata in Francia, e si trasforma in una battaglia contro le ingiustizie che continuava a subire negli Stati Uniti. La sua voce diventò il simbolo di tutte le voci soffocate, di chi non aveva strumenti per difendersi.

La forza del suo messaggio fu anche nel sottolineare la differenza tra violenza fisica e violenza morale. Per Baker, le parole, le diffamazioni e le accuse senza fondamento erano colpi peggiori di quelli ricevuti da una mazza. Eppure non si è lasciata piegare: ha continuato a parlare, a denunciare, a “urlare”, fino a costringere chi discriminava ad aprire, seppure lentamente, le porte dell’inclusione.

In tutto il discorso emerse la sua convinzione che la vera arma per cambiare il mondo non sia la violenza, ma la cultura. Ai giovani chiese di istruirsi, di armarsi con la penna e non con la pistola. È una lezione di resistenza pacifica, di fiducia nella forza della parola e del sapere.

Infine, Baker consegnò al pubblico un’eredità morale: lei ha preso la strada difficile, l’ha percorsa a costo di sacrifici personali, ma lo ha fatto per rendere quel cammino un po’ più agevole per chi sarebbe venuto dopo. Non chiede riconoscimenti per sé, ma invita le madri e i padri a pensare ai propri figli, a lottare perché non debbano più “scappare” per cercare dignità altrove.

Il discorso si chiuse con una rivendicazione potentissima della propria identità. Josephine Baker non voleva essere ricordata soltanto come “donna di colore”, ma come donna, come persona. Questo spostamento – dall’etichetta razziale all’individualità – racchiude l’essenza della sua battaglia: il diritto di ogni essere umano a essere riconosciuto per ciò che è, non per ciò che gli altri gli impongono di essere.

Trecentomila persona ad applaudirla. Il pubblico più grande della sua vita. Poi lasciò la parola a Martin Luther King e al suo discorso “I have a dream”.

21. Joséphine Baker di nuovo a Cuba

Tra il dicembre e il gennaio del 1966 tornò anche a Cuba, invitata da Fidel Castro in persona, in occasione della prima Conferenza Tricontinentale. Vi parteciparono personalità da tutto il mondo e Baker celebrò l’incontro come simbolo di unità antirazzista. Avvertì Castro di possibili attentati e prese parte a numerosi eventi politici e musicali, esibendosi persino davanti alla delegazione nord vietnamita e registrando un disco a Cuba, “Josephine Baker… en La Habana”. Prima di partire, visitò la Baia dei Porci, definendola “il primo grande fallimento dell’imperialismo americano”. Tornò nell’estate del 1966, nonostante problemi di salute, e incontrò di nuovo Castro, che le conferì il grado di tenente nelle forze armate rivoluzionarie. Dopo la morte di Che Guevara nel 1967, gli scrisse una lettera di condoglianze. Secondo il figlio Brian Bouillon-Baker, Josephine considerava il comunismo “la più bella delle idee” e vedeva in Cuba l’incarnazione del suo ideale: un paese che educava i bambini, mescolava le razze e promuoveva la fratellanza.

NEL PANTHEON DI FRANCIA

Nel frattempo era stata però costretta a lasciare il castello, venduto ad un decimo del suo valore, e a vivere in piccoli appartamenti con i suoi dodici figli. Josephine, probabilmente bisessuale (molto chiacchierata fu l’amicizia con Frida Kahlo e la già citata Bessie Allison Buchanan che divenne la prima donna afroamericana ad avere un seggio all’Assemblea dello Stato di New York), ebbe in seguito due relazioni con l’architetto Le Corbusier e il collezionista d’arte Robert Brady, ma ricevette aiuto soprattutto da Brigitte Bardot e da Grace Kelly, dal 1956 Principessa di Monaco, che le offrì una villa a Montecarlo e fece seguire i figli dalla Croce Rossa monegasca.

Josephine Baker tornò sul palcoscenico parigino all’Olympia nel 1968, poi a Belgrado nel 1973, alla Carnegie Hall nel 1973, al Royal Variety Performance, al Palladium di Londra nel 1974. Quindi un ultimo grande spettacolo. Per i cinquant’anni di carriera, infatti, grazie Grace Kelly venne organizzata una rivista “Josephine Story” presentata al Bobino di Parigi il 24 marzo del 1975. Fu un trionfo. Tra il pubblico Alain de Boissieu, genero di Charles de Gaulle, Sophia Loren, Mick Jagger, Mireille Darc, Alain Delon, Jeanne Moreau, Tino Rossi, Pierre Balmain. Seguì una grande festa al Bristol.

23. Joséphine Baker morì nel suo letto, dopo il suo ultimo grande spettacolo

Il 10 aprile, dopo la quattordicesima rappresentazione di “Josephine Story”, tornò nel suo alloggio parigino avvolta dai ritagli dei giornali che avevano decretato il suo ultimo grande successo, quando fu colpita da una violenta emorragia celebrale. Fu ricoverata all’ospedale Pitié-Salpêtrière dove morì il 12 aprile.

Il giorno dei funerali di Josephine Baker, il 15 aprile, Parigi si fermò per renderle omaggio. Più di ventimila persone affollarono le strade per accompagnare il corteo, mentre il governo francese le tributava di ventuno colpi di cannone: un onore mai concesso prima a una donna statunitense. La cerimonia si svolse nella chiesa della Madeleine, alla presenza di personalità come Grace Kelly, il ministro della cultura Michel Guy, il generale Alain de Boissieu e Sophia Loren.

24. Joséphine Baker vista da Davide Sacco

Pur essendosi convertita all’ebraismo, Baker mantenne sempre un forte legame con la fede cattolica, e proprio secondo questo rito si svolsero le esequie. Dopo la funzione parigina, fu sepolta nel Principato di Monaco, vestita con l’uniforme militare francese e le decorazioni ricevute per il suo coraggio durante la Resistenza.

Il 30 novembre del 2021, per volere di Emmanuel Macron, Josephine Baker entrò solennemente nel mausoleo del Pantheon di Parigi, fra i grandi di Francia. Per il Presidente della Repubblica francese: “Ha abbattuto le barriere… È entrata a far parte dei cuori e delle menti dei francesi… Josephine Baker, tu entri nel Pantheon perché, anche se sei nata americana, in fondo non c’era nessuno più francese di te”.

Nel suo cenotafio la terra proveniente da Saint Louis, sua città natale, quella di Parigi e quella del Principato di Monaco dove continuano a riposare le sue spoglie raggiunte da quelle di Jo Bouillon morto il 9 luglio del 1984 Buenos Aires.

A Josephine Baker sono dedicate piazze, scuole, asili, canzoni e perfino un cratere venusiano. Un esempio di lotta e di resistenza, di arte e di libertà. Fino alla fine. Morì come avrebbe voluto morire, dopo un suo spettacolo: “Ballerò per tutta la vita. Sono nata per ballare, solo per questo. Vivere è ballare. Mi piacerebbe morire senza fiato, esausta, alla fine di una danza”.

MARCO RAVERA

redazionale


Fonti e bibliografia
“La mia vita” di Joséphine Baker con Marcel Sauvafe – Biblioteca di Ulisse – EDT
“Il Mereghetti. Dizionario dei film 2023” di Paolo Mereghetti – Baldini & Castoldi

Le immagini sono di proprietà dei legittimi proprietari e sono riportate in questo articolo solo a titolo illustrativo.

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