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Israele, mito e realtà

La mitizzazione è un tratto quasi istintivamente naturale, proprio un po’ di tutte le culture. Qual è infatti la storia di un popolo che è rimasta estranea alla possibilità di creare il μῦθος (il “mŷthos” ellenicamente inteso) come sequenza di parole, di racconti affidati per di più all’oralità o ad antichissimi testi rintracciabili solamente per riscritture successive, dando così vita ad un’origine che si perde nella notte dei tempi e su cui aleggia l’esaltazione del fantastico e, dunque, anche del mistero?

Ogni nazione cerca il presupposto mitologico per farne l’eredità consacrata supposizioni che finiscono con l’essere più vere del vero stesso: fondamentalmente perché affidate all’ancestralismo religioso, alla metafisica dei sentimenti che surclassa la inconoscibile storia che va indietro di millenni e che, inevitabilmente, si perde nell’impreciso, nel non ben definito, nell’ipotesi come cifra di riferimento che sostituisce il fatto e che, dunque, dà avvio alla mitizzazione in tutto e per tutto.

Hitler e Himmler vagheggiavano, al pari di molti nazionalisti tedeschi di fine Ottocento e inizio Novecento, delle origini del popolo germanico nel regno odinico, tra miriadi di valchirie furoreggianti in battaglie gloriose. Mussolini aveva dato al fascismo il carattere di nuovo risorgimento imperiale romaneggiante: lui come il Cesare o l’Augusto che fonda il perimetro dell’Urbe moderna a capo ancora una volta del mondo. Vaneggiamenti diremmo oggi, ma in quei precisi momenti della Storia sono stati vissuti come elementi costitutivi di una cultura anche piuttosto diffusa.

Realtà e mito, dunque, si intersecano, si incontrano e non sono necessariamente contraddittori l’uno rispetto all’altro. Soprattutto se si considera il fatto che il mito è prodotto nella realtà ma rimane dietro le quinte di una oggettività della realpolitik che esige un più stretto e diretto contatto con un presente che è l’unico tempo che sfugge alla Storia perché è troppo coevo per essere definito un passato prossimo e troppo anticipatorio per essere incluso in un futuro semplice.

Ma è proprio il trascorrere degli anni che determina, alla fine, ciò che è storicizzabile e ciò che invece rimane nell’aura folgorante del mito. Oggi questo rapporto ambivalente tra ciò che è e ciò che è presuntivamente stato riguarda tutte quelle vicende dell’attualità che hanno, nel loro dirsi ed essere giustificate da ragioni del passato (recente o remoto che sia), un ancoraggio prontamente giustificazionista per le atrocità che vengono commesse in guerre sanguinosissime che si trascinano da anni e anni e che non accennano a terminare.

Ucraina e Gaza non su tutte, ma tra le tante, purtroppo, che punteggiano la carta del mondo quasi in ogni continente. Di quest’ultima si può parlare e scrivere in relazione, ovviamente, alla storia tanto del popolo palestinese, quindi una buona fetta di mondo arabo, quanto di quello ebraico. Il contenzioso su chi sia il legittimo abitante della terra al centro della questione delle questioni affonda così, molto incautamente, le sue radici sia nella recente realtà della costituzione dello Stato ebraico dopo l’Olocausto, sia nel rinverdimento del richiamo mitico all’uscita dall’Egitto e alla ricerca della Terra promessa.

Michele Giorgio e Chiara Cruciati, attenti cronisti e studiosi, storiche firme del quotidiano comunista “il manifesto“, ripercorrono in “Israele, mito e realtà” (Alegre edizioni, 2018) la Storia del movimento sionista, dalla sua nascita nel secolo XIX fino agli ultimi tristissimi sviluppi nel governo di Benjamin Netanyahu sorretto dalle forze politiche di estrema destra che sostengono l’idea del “Grande Israele” dal Golan al Negev, dal fiume al mare, quindi senza alcuna presenza palestinese tanto a Gaza quanto in Cisgiordania. Conoscere questo lungo filo di tessitura di una nuova identità ebraica che, per l’appunto, si trasforma in “israelitismo” civile (oltre che religioso) dal 1947 in avanti, è necessario per comprendere appieno le origini del fenomeno.

Con troppa disinvoltura oggi, mentre Gaza brucia (il ministro della difesa Kantz dixit…) e i palestinesi sono spinti a centinaia di migliaia nel sud della Striscia, mentre i coloni ultrasionisti della West Bank spadroneggiano ovunque disseminando violenza con l’aiuto delle formazioni paramilitari e sotto lo sguardo benedicente dell’esecutivo, si assiste alla pacatissima rassegnazione di chi afferma che non c’è quasi più una possibilità di veder convivere in quel lembo di terra mediorientale i due popoli. Si accantonano le vecchie ipotesi di reciprocità dei diritti e dei doveri, si ipotizza soltanto la disperazione, l’esilio.

Una nuova Nakba settanta e più anni dopo la prima grande catastrofe per il popolo palestinese. Israele può tutto e nessuno sembra poterlo (volerlo) fermare veramente. Il trumpismo accoglie, sostiene, induce, produce ogni scatto in avanti del triumvirato mortifero Netanyahu – Smotrich – Ben-Gvir: proprio questi ultimi due ministri dell’ultradestra religiosa sono quelli che più ricorrono all’elemento religioso e ad una mitizzazione delle radici ebraiche in Palestina. Le loro dichiarazioni tonanti e cruente si producono in una sequenza di affermazioni supportate dalle antiche leggi mosaiche, dalla sincretizzazione tra predestinazione divina e missione terrena del Popolo Eletto.

La Palestina è stata, prima del 7 ottobre 2023, abbandonata al destino di questione etno-politica tutta interna agli affari israeliani e non, invece, considerata un problema di caratura internazionale che riguarda qualunque altra nazione perché è un punto di principio: un popolo che vive su una terra che gli viene via via sottratta arbitrariamente e con la violenza delle armi, con la sopraffazione civile (si fa per dire…) e militare, con la repressione e la carcerazione. Persino dei bambini. Israele persegue un obiettivo ormai chiaro; un obiettivo che proprio la guerra contro Gaza ha rivelato in tutta la sua nettezza.

Se, da un lato, c’è stata una mitizzazione della propria origine storica, dall’altro si sono poste le basi per una insindacabilità delle proprie azioni vincolate all’alibi di non poter ripetere gli orrori subiti durante prima e durante la Seconda guerra mondiale dal popolo ebraico. La Shoah non è e non deve essere richiamata in questi termini: chi lo fa, come i governanti israeliani, commette davvero un delitto di ieri che si riversa sull’oggi: non si può definire “antisemita” chiunque critichi le politiche di Tel Aviv e, in questo frangente, avanzi lo spettro del genocidio nei confronti dei palestinesi dopo oltre sessantacinquemila morti e duecentomila feriti.

La realtà israeliana è purtroppo questa: viene separata dal mito, perché si tenta di mitizzare essa stessa, di creare i contorni di una intangibilità odierna che poggia sul basamento del crimine di massa perpetrato dai nazisti con i campi di concentramento e di sterminio. Quella enorme tragedia deve rimanere unica nella Storia dell’umanità e non può ripetersi non solo per numeri ma soprattutto per metodi e intenzioni. Il genocidio è un crimine che può riguardare tutti i popoli: passivamente e attivamente. Perché mai Israele dovrebbe essere esentato da questa responsabilità se gli vengono riconosciuti piani genocidiari concretizzatisi in anni di guerra e in decenni di occupazione di Gaza e Cisgiordania?

Michele Giorgio e Chiara Cruciati indagano non solo il mistero storico e gli antefatti trimillenari ma soprattutto la nascita del movimento sionista, la sua impostazione propriamente etnico-religoso-politica. Il suo trasformarsi da movimento di liberazione a movimento di oppressione, dopo aver teorizzato la nascita di uno Stato ebraico dopo diciassette secoli di Diaspora. Il punto di risalita della coscienza ebraica è determinata dall’infuriare dei pogrom nell’Europa centro-orientale. Ed è dall’inizio del Novecento che in Palestina si iniziano ad acquistare terre con il Fondo Nazionale Ebraico, favorendo così i primi insediamenti.

Sul principio degli anni Venti del Secolo breve, è il ministro degli esteri britannico Arthur James Balfour a parlare favorevolmente di un “focolare nazionale per il popolo ebraico” in Palestina. La storia prosegue con la prima grande rivolta palestinese (1936-1938) contro la colonizzazione soprattutto del centro-nord, tollerata dal Mandato dato al Regno Unito dopo la fine della Prima guerra mondiale. Senza una disarticolazione meticolosa delle vicende che si sono susseguite da più di un secolo a questa parte, non si può oggettivamente comprendere tutto ciò che è seguito alla fine del secondo conflitto globale.

Uno dei punti dirimenti è la considerazione dei palestinesi come nativi che, via via, col passare dei decenni, sbiadisce fino a considerarli qualcosa di altro rispetto ad autoctoni. Il punto, di per sé, non sarebbe nemmeno così problematico se non si fosse posta la questione della convivenza tra lo Stato arabo e lo Stato ebraico nei piani che erano risultati applicabili dopo il ritiro di Londra dai territori palestinesi del Mandato. Mentre Israele ha tutto il diritto ad avere una Storia che affonda nel mito e nella predestinazione religiosa di sé medesimo, chiunque altro non ha nessun diritto in merito. Diviene un estraneo indesiderato e quindi deve essere, se non immediatamente espulso, quanto meno allontanato.

Sempre la Storia ci racconta che prima della fine della Prima guerra mondiale, durante la dominazione ottomana, la Palestina era abitata quasi interamente dai palestinesi che si dividevano solamente tra credenti cristiani e credenti musulmani. Esistono quindi due narrazioni storiche differenti: quella del revisionismo sionista, che si rifà al mito piuttosto che alla realtà, al fideismo religioso e alla missione divina; quella, invece, propriamente tale che ci racconta di un popolo palestinese, certamente incluso nel novero dell’arabismo, con una propria identità nazionale marcata.

La convivenza è possibile. I due Stati possono essere possibili. Ma per ottenere tutto questo deve venire meno la mitizzazione di Israele, prendendo le distanze dall’elemento religioso come cardine di unità etnica, come elemento costitutivo della popolazione che, a quel punto, può riconoscersi nella propria cultura senza pensarsi superiore o predestinato rispetto ad altri. Il bel lavoro di ricerca di Michele Giorgio e Chiara Cruciati merita una lettura a piene mani, con grande interesse proprio per entrare meglio nei difficili tempi presenti.

ISRAELE, MITO E REALTÀ
IL MOVIMENTO SIONISTA E LA NAKBA PALESTINESE SETTANT’ANNI DOPO
MICHELE GIORGIO
CHIARA CRUCIATI
EDIZIONI ALEGRE, 2018
€ 15,00

MARCO SFERINI

17 settembre 2025

foto: screenshot ed elaborazione propria


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