In tempi in cui riemerge la prepotente voglia di conservazione del potere, dopo averlo democraticamente acquisito (al netto, si intende, di tutti i condizionamenti espletabili con televisioni, giornali, radio e siti compiacenti), da parte dei settori più conservatori e oscurantisti del mondo della destra para-istituzionale, non stupisce che le dichiarazioni del governo nei confronti dello sciopero dei magistrati siano pelosamente volte a blandire una categoria che è un importante potere dello Stato.
Alcune di queste dichiarazioni, improntate all’ordine dato da Giorgia Meloni ai suoi ministri, ossia il dialogo ad ogni costo per evitare di far passare la riforma della giustizia come uno scontro tra esecutivo e potere giudiziario, sono quasi meste, contraddittorie rispetto ai toni muscolari dei mesi scorsi. Altre, invece, confermano che vi è da parte di Palazzo Chigi l’intento di modificare i rapporti di equilibrio costituzionali, pur, a parole, garantendo l’assoluta fedeltà alla Carta fondamentale della Repubblica.
Qualche leghista si lascia scappare asserzioni sul carattere quasi eversivo dello sciopero delle toghe. Le vedono tutte rosse dai tempi del primo berlusconismo d’antan. Le continuano a voler vedere rosse per poter mettere in pratica una controriforma che, nei fatti, sdoppia il CSM addomesticandone una parte, fa del Pubblico Ministero un elemento del processo dipendente dal potere esecutivo e finge di concentrarsi su una separazione delle carriere come elemento dirimente per una vera terzietà del magistrato giudicante.
Ciò che il governo dice di voler inseguire, per potervi arrivare, con questa riforma è già hic et nunc un dato di fatto: soltanto una percentuale da iper-prefisso telefonico sceglie il passaggio dal ruolo inquirente a quello giudicante. Tutto il resto, purtroppo, non è noia, ma una guerra mai terminata che rievoca quel fumus persecutionis che veniva evocato ogni qual volta un qualche ben noto politico di governo finiva sotto inchiesta. Ora, non c’è dubbio sul fatto che la macchina della giustizia sia sovente ingiusta, lungagginosa e faccia correre il rischio del tritatutto.
Non c’è dubbio che gli errori giudiziari avvengano e siano corretti dopo anni di non poche sofferenze da parte degli imputati. Ma i correttivi esistono e, comunque, non sarebbe e non è questo un motivo sufficiente per far risalire dal particolare all’universale un principio di equità che è già garantito dalla Costituzione e dalla procedura penale e civile. Non esiste la Legge completamente giusta. Anche perché la fa il Parlamento e, se seguissimo questo criterio, quindi di fare dell’iniquo particolare un universale, dovremmo convenire che anche le Camere andrebbero riviste nel loro ruolo primario.
Non per niente, la logica della destra di governo si uniforma alla sua storia secolare: fare dell’esecutivo il centro di una gravità permanente in cui gli altri organi dello Stato siano squilibrati a favore non della gestione del potere, bensì dell’acquisizione del medesimo come espressione di una qualità naturale del ruolo che dovrebbe invece essere meramente amministrativo e gestionale. Poi, certo, la maggioranza che sorregge il governo ha tutto il diritto di proporre le sue leggi secondo la sua cultura e interpretazione della vita sociale, civile e morale.
Ma non ha il diritto di fare del governo il cuore dell’istituzionalità repubblicana. Quel cuore è un potere condiviso e non particolarizzato: non esistono privilegi della magistratura nei confronti del governo o del Parlamento nei confronti dei giudici. I contrappesi introdotti tra il 1946 e il 1948 fanno sì che vi sia, nell’indipendenza vicendevole, un autocontrollo e un controllo reciproco sotto la garanzia del Presidente della Repubblica. Ma Giorgia Meloni pensa ad un modello in cui l’unicum mondiale del premierato sia il presupposto di una riedizione di quel presidenzialismo assoluto che mette insieme, nel nostro caso, Quirinale e Palazzo Chigi.
Se esiste una coerenza internamente alla proposta complessiva delle destre, questa deve trovare una sua sostanziazione anche nella riforma proposta da Nordio. Altrimenti dovremmo dedurre che la maggioranza procede a tentoni. Invece, sin dall’inizio della legislatura attuale, è stato abbastanza chiaro che molto del bagaglio esperienziale della destra arrivata al governo del Paese è una commistione di disvalori e antivalori in contrasto con la Carta e con il parlamentarismo in quanto forma sostanziale della Repubblica.
La definizione dello sciopero dei magistrati come una sorta di sgarbo all’autorità del governo e, letteralmente, “uno schifo e un’offesa all’Italia“, sono possibili soltanto perché la materia di cui si dibatte è ostica a gran parte della popolazione e, così, riesce piuttosto facile presentare il tutto come una sorta di prevenzione dei giudici nei confronti della maggioranza e del potere esecutivo. Un vittimismo che poco si addice all’energizzante capacità gestionale di cui fanno sfoggio le destre moderne.
A cominciare dalla ragione prima per cui sono dotati di queste virtù ataviche… ossia il patriottismo granitico che è il tratto distintivo autocelebrante di un arco politico che scopre oggi di poter stare dentro il processo democratico con un tasso di utilitarismo pari a quello con cui afferma di essere fedele alla Costituzione salvo, immediatamente dopo, volerla cambiare alla radice per trasfigurarla e farla altro da sé stessa. Quando Calamandrei scrive del rapporto tra governo e magistratura, riguarda la seconda definendo la necessità di una “unicità della giurisdizione“.
Questo non perché i giudici debbano godere di facoltà specifiche al punto da essere al di fuori della Legge stessa: è l’esatto opposto. Quell’unicità appena citata è anzitutto un’autonomia gestionale e finanziaria per quanto concerne la Corte dei Conti e il Consiglio di Stato, mentre il rapporto tra il magistrato e il Parlamento, ossia l’espressione più propria della delega politica da parte popolare, deve poter avvenire entro i termini di valutazione dell’operato delle Camere se ai giudici è richiesta questa operazione di indagine.
La Corte Costituzionale è, da questo punto di vista, il tribunale delle Leggi, la magistratura giudicante il diritto e non le persone, non i cittadini in prima istanza. Ovvio che le sentenze, poi, riguardino anche le comunità, spesso abbiano a che fare con questionanti che fanno riferimento ad altri organi delle istituzioni locali e nazionali. Ma vi è qui un principio di valutazione complessiva della legislazione a cui siamo tutti soggetti, giudici compresi. Il principio è sacrosanto: a nessun altra autorità risponde chi giudica se non alla Legge stessa.
Calamandrei specifica molto accuratamente che quello status di indipendenza funzionale che lui intende per i giudici, nel loro rapporto con gli altri poteri dello Stato, è la precondizione e la condizione al tempo stesso dell’esercizio libero delle loro funzioni esclusive ma non esclusiviste. Non c’è impermeabilità della magistratura nei confronti del resto istituzionale della Repubblica e nella Repubblica. I giudici e i pubblici ministeri, così come gli avvocati e tutti coloro che prendono parte al procedimento requirente o giudicante, non sono altro dal tutto, ma parte dello stesso.
Per approfondire, leggi l’opuscolo dell’Associazione Nazionale Magistrati sulla riforma costituzionale
Poi è ovvio, o almeno dovrebbe esserlo, che l’autogoverno della magistratura è una principio fondamentale che rimarca tanto l’indipendenza della stessa dagli altri poteri dello Stato, quanto la responsabilità che ha nei propri confronti di esercitare il suo ruolo senza condizionamenti così come senza atteggiamenti di superiorità nel nome della Legge rispetto tanto al governo quanto al Parlamento o, non per ultimo, al Presidente della Repubblica. Un Capo dello Stato che, infatti, nella presidenza del CSM realizza al meglio la sua terzietà e il suo ruolo di assoluta garanzia.
La riforma Nordio non può avere la presunzione di stravolgere tutto questo, ma senza dubbio ardisce, osa, prova a darsi il coraggio di iniziare una mutazione genetica e ri-costituente nel solco di una subordinazione del ruolo requirente dei giudici che risponderebbero, tramite lo sdoppiamento del Consiglio Superiore della Magistratura, non più all’interezza del potere di cui fanno parte, ma solamente alla loro parte su cui il governo intende mettere una sorta di tutela, di disposizione a preferire l’indirizzo interpretativo della Legge che da Palazzo Chigi proviene.
Non certamente un esponente di sinistra come Marcello Pera ha messo in guardia la maggioranza: là dove si separano così nettamente i ruoli tra magistrato requirente e magistrato giudicante, si corre concretamente il rischio di un’ombra del governo sul Pubblico Ministero che, sottoponendo alla corte i propri elementi di valutazione, finisce – seppure indirettamente – con il condizionare così anche la magistratura giudicante nel processo che dovrebbe tenersi con tutte le garanzie di terzietà possibile.
Vi è nello spirito della controriforma di Meloni e Nordio qualcosa di più della propagandata, necessaria separazione delle carriere. Si va oltre questa presupposizione. Questo perché il PM finirebbe con l’essere quasi separato dal contesto processuale e lo vivrebbe con una unicità propria che, qui sì, avrebbe un carattere esclusivistico, stabilendo un rapporto sempre più stretto con le forze dell’ordine e, quindi, una condivisione – seppure non direttamente formata – tra organi dipendenti dall’esecutivo e magistratura.
Il pericolo, perciò, va nella direzione di un consolidamento del potere di governo come acquisizione sempre maggiore di prerogative a scapito degli altri organi dello Stato e, dunque, un inclinarsi del piano della giustizia verso l’ordine di una sorta di eticità istituzionale che promani dalle stanze dell’esecutivo, trascendendo il vincolo costituzionale e facendo della Legge uno strumento di controllo e non di organizzazione migliore della società nell’interesse della stessa e non di altro.
L’alta adesione (più dell’80% dei magistrati) allo sciopero indetto dall’ANM, è il segnale di un malessere diffuso che ha le sue ragioni nella difesa dell’indipendenza dei giudici, nella salvaguardia del diritto italiano, nella tutela della Costituzione repubblicana da una riforma che, se già al principio avesse un punto di buona fede in ciò che esprime, dovrebbe essere interamente proposta dalla maggioranza di governo e non continuamente difesa dal governo, dai suoi ministri e della Presidente del Consiglio. Tutto legittimo, si intende. Ma è opportuno?
Anche da questo mancato, formale, galateo istituzionale, se non altro di rispetto nei confronti dell’intero Parlamento, si evince la mancanza di una serie di valori che sono sempre stati propri delle forze dell’Arco costituzionale democratico. Non certo lo erano del MSI o di vecchi rimasugli del monarchismo della “destra nazionale” o dell’eversione semi-nascosta della Propaganda 2. Le vecchie eco del passato che non passa, sono davvero dure a morire…
MARCO SFERINI
28 febbraio 2025
foto: screenshot ed elaborazione propria