Il tamburo di latta

Potente metafora tra il reale e l’irreale, tra la veglia e il sonno della propria ragione, virtuale e concreta fattezza di una forma mentis deformata dal proprio essere fisico,...

Potente metafora tra il reale e l’irreale, tra la veglia e il sonno della propria ragione, virtuale e concreta fattezza di una forma mentis deformata dal proprio essere fisico, imprigionato nel triennio iniziale di un’esistenza che è il punto di non ritorno di un cammino a rotoloni nell’atrocità della vita, “Il tamburo di latta” (Feltrinelli, 2013), opera prima di Günter Grass, vagheggia tra l’incomprensibile e il capolavoro di sé medesimo. Oskar Matzerath precipita dalle scale, là dove il vuoto della botola di casa lo introduce all’alibi del non voler crescere più, per risoluto piglio, incallita testardaggine che si oppone alla informità di un mondo che ne mortifica l’intelligenza straordinaria.

Un bimbo di appena tre anni, eppure così capace, si costringe a stare nelle fattezze imperiture di una piccolezza che così, dal basso in alto, gli permette di osservare il tutto da un punto di vista veramente insolito, inconsueto e del tutto a-normale, fuori dalla moltitudine che è la quintessenza di una convenzionalità grigia che si stende su un secondo decennio del Novecento in cui le tinte fosche prevalgono su quelle sgargianti. Trent’anni della sua vita, trent’anni raccontati su una risma di carta che Bruno, il sorvegliante dove Oskar è rinchiuso per un delitto che non ha commesso, consegna al non cresciuto fisicamente.

Ma la sua mente vulcanica lavora, di continuo, e si produce in tutto tranne che in speranze: involontariamente provoca la morte degli affetti a lui più vicini (che dire “cari” forse sarebbe fargli un torto…), ed il tamburo di latta che lo accompagna da sempre suona come una campana di chiesa che martella lentamente, cadenzando così il tempo che scorre sotto i piedi di una apparente immaturità analfabeta e che, invece, apprende e apprende. Oskar conosce le turpitudini di una vita che si impone per incoerente dispetto a sé stesso nel ritenersi, da basso quale risulta, più alto di tutti gli altri per intuito, sagacia, amoralità, immoralità e anche crudeltà.

L’adolescenza sua coincide, nella già potente metaforizzazione citata prima, con una crescita emotiva incontrollabile che è quella di una Germania nazista convinta di trovarsi nel secolo d’oro dell’impero tedesco, della rinascita della patria, della nazione redenta e riportata ai fasti biskarmiani, recuperando tutta la sua storia mitologica fino a quella reale, narrata dagli antichi scrittori romani che ci hanno tramandato la lotta tra Arminio e Varo, al di qua del Reno, mai al di là dell’Elba. L’inconsistenza della tristezza si palesa nell’insufficienza della stessa a soddisfare il sentimento di repulsione che Oskar intende ogni volta che si rapporta con la realtà che lo circonda. La violenza è la cifra quotidiana dell’essere.

Lui lo sa ancora di più nel momento in cui, per provare a redimersi, verga le pagine della risma di carta di Bruno: non si sa bene se si tratti di un tentativo catartico di ritrovamento di quel sé stesso che aveva pensato di negarsi fin dall’età di tre anni. Ma quest’uomo ormai trentenne, nel 1954 ricorda i tre decenni trascorsi e come la tragedia della guerra abbia investito ogni meandro dell’intimità: dalla sua propria a quella di una famiglia, rifugiatasi nella cantina per ripararsi dai bombardamenti dell’Armata rossa che avanza nella Prussia Orientale e che si avvicina alla Casciubia (in pratica, la regione di Danzica, preda del nazismo, principio della Seconda guerra mondiale e terra natale al contempo di Grass).

Scioccante immaginazione dell’interezza tedesca che si ritrova nel tentativo di Albert di disfarsi della spilla del partito nazista, appioppandola ad Oskar. Rimorso, recupero dell’emblema, con chiusura aperta. Ingoio dello stesso e morte per soffocamento del padre. Le giovani generazioni, su cui le vecchie, complici del regime hitleriano, tentano di scaricare le colpe terroristiche, orrorifiche ed olocaustiche, rimangono attonite davanti alla mancanza di presa di coscienza per quanto avvenuto. Sotto o meno i loro occhi, là dove intorno alle città linde, securitariamente ordinate, piene di coprifuoco e dunque vuote di vita vera. C’è anche il tentativo di replicare sé stessi, o di mutuare quella sottrazione della coscienza all’esistente atroce, nel figlio/fratellastro Kurt.

Per regalo a lui nel suo terzo genetliaco un tamburo di latta da far risuonare, come per fermare un’altra crescita. Ma stavolta non solo manca il super potere che Grass regala ad Oskar (la voce tonante che distrugge qualunque vetro incontri) e viene meno la temerarietà dell’ostinazione: Kurt rompe il tamburo e delude il suo mentore. Il rapporto della Germania del terrore nazista con la fervente religiosità tedesca, tanto protestante al nord quanto cattolica nella grande Baviera, viene di conseguenza introdotto nel romanzo come frutto del rapporto amoroso. La fede trascinata dal sentimento: credere perché si ama chi crede.

Letteralmente trascinato in chiesa da Maria, nell’alternarsi geniale tra realtà e fantastico, Grass fa il miracolo: la statuetta di Gesù bambino parla ad Oskar, prende il tamburo e lo suona. Ma più che applaudire all’impossibile, alla straordinarietà eclatante del fenomeno cui assiste, preferisce staccare un dito alla figura animatasi e, così, l’incanto si stempera e si fa meno. Termina l’absurdum dai tertullianici tratti, si ritorna nella fisicità della vita nuda e cruda fatta di bande di teppisti cui ci si associa per rompere la gabbia dell’insipidità e dell’incolore, dell’atonalità e del mutismo sociale. Prima dell’arrivo delle truppe sovietiche, c’è tempo per questi ragazzi “spolveratori” per vandalismi e atti totalmente sacrileghi.

Poi la guerra si impone e rompe ogni schema: le certezze del nazismo si frantumano, la Germania si ritrova davanti ad un immediatezza del futuro che le pare, giustamente, atroce: il passato è impossibile da recuperare, tanto lercio e fanghiglioso, maleodorante e mortifero; il quel-che-verrà le è motivo di angoscia e di costante turbamento. Una psicosi collettiva di massa si riprende l’inconscio del popolo, dopo averlo sedotto con le grandi adunate a Norimberga e le fiaccolate per le vie delle città ad illuminare la notte di un paese che nessuno immaginava potesse divenire quel che sarebbe divenuto. Oskar precipita, come tutte e tutti, nel vortice dell’eterno ritorno tutt’altro che nietzschiano.

«E quando infine fu la fine si sbrigarono a trasformarla in un inizio pieno di speranza; giacché in questo paese la fine è sempre inizio, è sempre speranza in una fine qualsiasi, anche la più definitiva che ci sia. Così del resto sta scritto: finché l’uomo spera, sempre daccapo ricomincerà a farla finita sperando». Il tamburo è l’intermediario tra Oskar e il mondo e ne è la valvola di sfogo che non sfugge, nemmeno lui, oggetto inanimato, alle atrocità del tempo bellico. Persino il giocattolaio Sigismund Markus, che rifornisce il ragazzo, che cambia tamburi su tamburi dando una continuità nevrotica al non far mai venire meno la simbiosi tra lui e lo strumento, cade vittima della brutalità del conflitto: un suicidio indotto dai pogrom antisemiti.

Dentro al tamburo la sonorità si fa lugubre, contiene tutte le insensatezze che il giovane affronta. Molto poche le gioie, le aspirazione, i desideri: anche quelli per le belle infermiere. Lì dove c’è un camice bianco c’è la purezza e tutto intorno pare invece sprofondare il nero di un abisso di cui non si tocca mai il fondo. Atterrata dalla follia megalomane del Führer, privata della sua storica dignità, della potenza, dell’esaltazione del teutonismo come uno tra i cardini della civiltà occidentale ed europea, la Germania fa la fine di un gigante d’argilla in una nuova era della modernità che sembra riservarle solo umiliazione, divisione, condanna perenne ad una rimembranza ossessiva. La morte del patrigno è l’atto della svolta per Oskar.

Riprende a crescere perché lo decide lui. Gli spunta una gobba e la critica letteraria ha scritto fiumi di interpretazioni su questo elemento di deformità fisica che si aggiunge al nanismo che, però, ora il giovane inizia a superare. Nel mentre diviene grande deve sopportare il peso della coscienza mancata, il peso della storia passata, il peso della vita che gli rimane unitamente al senso di colpa che permane. Il drammatico abisso della guerra e delle decine di milioni di morti che ha causato, per la folle voglia di primazia dell’arianesimo, per il razzismo dominante, per la voglia di mettere avanti a tutto la forza e non la ragione, si staglia sullo sfondo di una nazione per cui sembra impossibile la redenzione.

Ma Oskar, passando per ingrassi e rovesci di fortuna, tra nuovi bramosi amori e nuove delusioni, arriva al successo con una band musicale in cui lui suona ovviamente il tamburo e il suo amico coinquilino Kleep la tromba. Dall’ozioso letto in cui sta tutto il giorno a locali “famosissimi” come la “Cantina delle cipolle“: la vena ironica tanto vale per far abbassare le ali a chi immagina di potersi rinverginire in un presente che lasci dietro le pesanti, platoniche spalle il portato di tre lustri in cui la contorsione autoritaria ha devastato il mondo, partendo dalle birrerie bavaresi e dalle piazze di Berlino. Manca la consapevolezza di ciò che si è stati: «Com’è che ti chiami? Questa domanda era fatale. Era nella logica dell’incontro».

L’espiazione non è forse possibile, almeno nella prossimità temporale di un presente ancora troppo adiacente a ciò che è stato. Ma la coscienza ribolle e fermenta al punto da essere insopprimibile: soprattutto per chi, come Oskar, come la Germania, è passato attraverso una multidimensionalità dell’esistente, tramite i più opposti stati d’animo: condiscendenza, amore, odio, disprezzo, irriverenza, verecondia e sfacciataggine, sacralità e blasfemia, calma e ira pulsante tra vetri rotti e gusti alla vaniglia. Il tamburo va sepolto, ma non dimenticato. La sua eco, poggiando l’orecchio per terra, sulla nudità di una soglia dell’infinito che inizia dalla fine del pianeta, la sua superficie, si sente. Magari in lontananza, ma si sente e si continua a sentire.

IL TAMBURO DI LATTA
GÜNTER GRASS
FELTRINELLI, 2013
€ 16,00

MARCO SFERINI

4 giugno 2025

foto: particolare della copertina del libro


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