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Il portico delle idee

Il salto di Marx dalla filosofia della contemplazione a quella dell’azione

Nella disamina del rapporto tra pensiero e realtà, tra illazione e concretizzazione, si inserisce la critica di Marx ad un idealismo che non sta più solamente nei recinti dell’accademismo, del filosofeggiare per il filosofeggiare stesso. Lo sviluppo delle nuove tecnologie, che impattano nell’Ottocento in cui tutto sembra rivoluzionarsi nelle forme e nei modi di produzione, impone una riflessione, sì, ma che sia nettamente agganciata ad una realtà dei fatti da cui è sempre più evidente che non si può sfuggire e nemmeno pararvisi contro con presupposti metafisici, pensando e ripensando al pari di tempi in cui c’era molto più tempo (ed anche spazio) per discutere in scuole ampie, partecipate e che avevano un effetto quasi strutturalmente condizionante nei confronti della società in cui nascevano e prosperavano.

Marx osserva una serie di cambiamenti radicali e si persuade che questa nuova epoca dell’industrialismo così repentinamente diffusosi nel Vecchio continente porta con sé tutta una serie di contraddizioni che, apparentemente, sono impercettibili per chi vive e sopravvive ogni giorno del proprio miserevole lavoro: fenomenali macchinari dovrebbero semplificare la trasformazione delle materie prime e permettere così la diminuzione degli sforzi del proletariato. Ma invece non è così. Le altrettanto grandi scoperte scientifiche, al pari dell’automazione, dovrebbero migliorare la vita di tutte e tutti, ed invece da tutto questo si avvantaggia solo un parte piccola della società, mentre il restante, nonostante lavori dieci, dodici e anche più ore al giorno, non ne trae alcun vantaggio.

La filosofia della contemplazione dei problemi esistenziali, a questo punto, diventa per il Moro un accidente in senso quasi medico: un ostacolo alla vera comprensione dei problemi sociali e della ragione a cui si possono ricondurre. Persino nella sua spietata (ma giusta) critica all’idealismo e all’accademismo dei pensatori del presente che si rivolgono troppo indietro e si rifugiano nel passato del passato, Marx non fa rientrare l’accusa di essere la produttrice di un sistema nuovo di rapporti civili, sociali, culturali ed umani. Si rende sempre più conto che c’è qualche cos’altro dietro a tutto questo e che le idee condizionano l’esistente ma fino ad un certo punto. Dove si situi questo punto sarà una delle grandi scoperte di tutta la sua mole di studi scientifici, economici ed antropologici.

La sua rottura con la tradizione filosofica è, dunque, di una nettezza mai vista. Ma, come si evidenziava poco sopra, questo non basta a permettergli di dare seguito ad una critica che non sia attaccabile come una sorta di “nuovo sistema filosofico” e che, quindi, ripetendo l’errore dei suoi predecessori, si tramuti soltanto in un pensiero e non, invece, in una disamina “scientifica” del sistema che sta iniziando a studiare dopo averne non solo intuito, ma osservato praticamente le dinamiche per ora superficiali, visibili un po’ a tutte e tutti. Ci troviamo, quindi, nella discesa dal cielo dell’amore per la saggezza alla terra della violenza alla saggezza: una terra su cui possono studiare soltanto i figli dei ricchi, dei padroni, dei grandi industriali. Gli altri devono lavorare.

E proprio dall’indagine sul lavoro minorile nelle miniere, nelle fabbriche dell’Inghilterra grigia di metà Ottocento, parte il grande viaggio del socialismo scientifico. Scrive Marx: «La critica non è un a passione del cervello, ma il cervello della passione. Non è un coltello anatomico, è un’arma. Il suo oggetto è il suo nemico, che essa non vuole confutare bensì annientare. Il suo pathos essenziale è l’indignazione, il suo compito essenziale è la denuncia» (“Critica della filosofia del diritto di Hegel“, introduzione, 1844). Il metodo dialettico rimane inequivocabilmente un derivato dell’hegelismo (e non di meno di una tradizione filosofica precedente ed antica), ma il salto di qualità è notevole: mentre prima la dialettica metteva in luce contraddizione esclusivamente del pensiero, qui si pone l’obiettivo di diventare strumento di una critica calata nell’oggettività dei rapporti.

Di quali rapporti? Tra noi esseri-animali umani e noi stessi, tra noi e la natura, tra noi e gli altri animali, tra noi e l’interezza di un mondo che non viene relazionato immediatamente alle problematiche della presenza di sé stesso, in quanto esistente, con l’esistente che lo comprende (si spezza quindi anche quel molto poco utile legame con l’avvitamento ontologico tra essere e non essere, tra essere e divenire, eccetera, eccetera), ma che diventa l’oggetto primo dell’indagine; poiché non è dalla coscienza degli uomini che determina l’essenza della realtà, ma l’esatto contrario. Da questa sorta di legge generale, viene piano piano alla luce il rapporto tra i rapporti: la “struttura” economica è la base su cui si vanno sviluppando le “sovrastrutture” di carattere sociale, civile, morale, intellettuale.

Nessuno parli mai di “premonizione“, perché con Marx non è proprio il caso: ma c’è comunque qui la premessa ampiamente intuitiva di una nuova corrente di studi antropologici, biologici e naturalistici che non toccheranno propriamente il Moro ma che, anche a partire dallo sviluppo del materialismo dialettico che riconosce l’incessante processo di trasformazione della realtà osservato da Hegel, evolveranno nella constatazione che ciò che appare è, molte, tante volte, il contrario della realtà e, quindi, la rivoluzione marxiana esige una indagine concreta, fattiva e non può fermarsi alla speculazione che le deriva pure dall’osservazione meticolosa dei fenomeni reali. Qui sta il passaggio dirimente tra il metodo dialettico dell’idealismo hegeliano e quello materialistico.

Il tema della coscienza, come consapevolezza della verità dell’esistenza e di ciò che rappresenta per noi, è importante per il Moro solo come chiavistello che apre la porta delle domande umane che non possono rimanere solo mera speculazione intellettiva ed intellettualoide. Scrive Marx a questo proposito: «Finora gli uomini si sono sempre fatti false idee intorno a sé stessi, intorno a ciò che sono o devono essere. In base alle loro idee di Dio, dell’uomo normale, ecc., hanno regolato i loro rapporti. I parti della loro testa sono diventati più forti di loro» (“L’ideologia tedesca“, 1845-46). Quale dovrebbe essere, dunque, la vera idea che gli esseri umani dovrebbero farsi di sé medesimi? Quali i rapporti nuovi che dovrebbero intercorrere fra loro?

Per poter rispondere a queste domande è necessario anzitutto avere contezza dei rapporti che intercorrono tra l’essere umano, che è autocosciente, e il resto del mondo, ciò che lo circonda e che, quindi, lo riguarda in prima persona. Qui Marx riscontra un “difetto” del materialismo che si è sviluppato nella storia del pensiero fino ai tempi della sua maturità: a Feuerbach rimprovera di aver osservato la realtà rendendola (o riducendola) «un oggetto del pensiero o dell’intuizione». Il limite sta qui proprio nella contemplazione dell’esistente che, perciò stesso, esclude qualunque sensibilità, qualunque propensione nostra a relazionarci anche fisicamente col limitrofo. Per il Moro si tratta di una coscienza parziale, di un frazionamento delle idee, di una dialettica autoreferenziale che non conduce a nulla se non a nuove ipotesi e non risolve le problematiche di invivibilità pratica della vita.

In sostanza si apre una grande questione sul compito della filosofia che, in quanto attività umana, non può restringere il proprio campo conoscitivo alla semplice analisi superficiale, all’accettazione dell’esistente, alla sua mera contemplazione. Marx propone una rottura drastica con tutto ciò, separando la tendenza mistica dell’amore per la conoscenza dalla conoscenza concreta, propriamente biologica, naturale, che riguarda le nostre menti, le nostre forze, il nostro stare nella quotidianità di una serie quasi infinita di rapporti che si intersecano e si compenetrano formando così la Vita con la vu maiuscola. Una vita sociale, una società in quanto federazione delle singolarità che sentono istintivamente il bisogno di associarsi per trovare delle soluzioni ai quesiti che si prospettano, per migliorare l’esistenza di ciascuno e di tutti.

Ecco che la coscienza arriva allo zenit di una evoluzione che non esclude il pensiero per il pensiero ma che fa della mente la capacità di cambiare rappresentazione del reale e abbandonare i vecchi preconcetti e le antecedenti letture metafisico-religiose, le antichissime superstizioni e le incrostazioni ideali del passato per aprirsi al mondo della critica ragionata, che trova un riscontro nell’oggettività data dal reale materiale. Si transita così dal considerare i rapporti economici come una interazione tra noi e le cose ad una interazione tra dinamiche, forze che concernono essenzialmente umani e umani, umani e animali, umani e natura. Il carattere feticista delle merci viene scoperto proprio su questa scia: una osservazione micrologica della realtà, per spostare i concetti dai preconcetti e interrogarsi su tutto.

Lo smontaggio delle vecchie consapevolezze, una sorta di volontà di disimparare per mettere in discussione gli archetipi consolidatisi nel corso di millenni, è parte della missione scientificamente indagatrice del capitale, la vera potenza che domina e disciplina tutto e tutti e che riguarda ogni cosa, trasformando in merce molto più di quello che si possa credere. Marx viene, a torto, considerato un filosofo soltanto in chiave economicistica; in realtà si tratta di una sorta di sineddoche… Anche se questa parte è in lui indubbiamente predominante, come scrive Derrida «Marx mira soprattutto alla testa» (“Spettri di Marx“, Raffaello Cortina Editore, 2025) e gli riconosce, decostruendone in larga parte la nociva mitizzazione che si è abbarbicata attorno a lui nel giro di un secolo e mezzo, soffocandone il primordiale slancio libertario, il portato rivoluzionario di un insieme culturale e politico che si rinnova e che, come l’Araba Fenice, rinasce dalle sue ceneri.

La spietatezza deriddiana non lascia scampo alla vita del marxismo, che «muore con Marx», si osa nell’incipit dello scritto, ma la critica del pensiero fatta dal Moro, come largamente inutilizzato o male adoperato nella mera speculazione fine a sé medesima, in un onanismo giaculatorio delle idee che si affastellano e si sostituiscono alle altre in un perverso gioco doministico, è il principio di una moderna separazione tra idealismo e pragmatismo, tra astratto e concreto, tra pensiero ed azione che non necessariamente sono in antitesi fra loro. Ma una cosa è certa: dopo Marx riesce molto complicato unificarli e fare dell’azione soltanto un pensiero o del pensiero solamente un’azione rinchiusa dentro la nostra scatola cranica.

MARCO SFERINI

21 settembre 2025

foto: screenshot ed elaborazione propria

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