Connect with us

Hi, what are you looking for?

Il portico delle idee

Il problema di Galluppi: il sentir di sentire, già affrontato da Kant

La coscienza della coscienza è una capacità prima che noi animali umani abbiamo: sappiamo di possedere una abilità che ci contraddistingue dagli altri animali e questa è, per la precisione, l’autocoscienza. Non soltanto esistiamo ma siamo consapevoli del fatto che tutto quello che ci riguarda concerne anche l’esterno rispetto a noi e che, quindi, la nostra vita non si riduce alla contemplazione interiore delle sfaccettature empatiche che produciamo rispetto a ciò che ci arriva mediante le sensazioni, ma attraverso un procedimento giudicante possiamo influire sul corso di realtà che sono altro da noi.

Questo potrebbe dirsi indubbiamente una grande eccezione, mirabolante a dire poco se si osserva il vuoto dell’Universo, la sua immensità incommensurabile, la sua presunta eternità o, per essere più precisi, la sua dimensione mutevole proprio nel rapporto tra tempo e spazio soggetti agli effetti delle leggi gravitazionali e della velocità. Ed in effetti noi animali umani siamo – come sintetizzava molto bene Margherita Hack – un “prodotto speciale” proprio dell’Universo: la materia di cui siamo fatti è materia che proviene dalle stelle; dunque non possiamo dirci (e quindi preventivamente pensarci) come un qualcosa di molto differente dal resto dell’esistente.

Fatta questa premessa, la nostra capacità di “sentir il sentire” è, come avrebbe opportunamente chiosato Pasquale Galluppi, un primum filosofico, un sentimento rubricato come “immediato” che, quindi, agisce aprioristicamente perché questa autocoscienza è la base su cui poggia la conoscenza umana: senza la consapevolezza del nostro essere ed esserci (dribbliamo un po’ nel campo ontologico…), non si potrebbe parlare di acquisizione di nulla tramite la mediazione sensibile e, quindi, la reiterazione dei processi di contatto con la realtà esterna data dall’esperienza.

Il punto sensistico qui non è il centro del dibattito plurisecolare che ancora si avvita su sé stesso e procede come una retta nell’infinitudine dello spazio. Il punto, semmai, è riconoscere che l’empirismo ha ragione nel momento in cui asserisce che solo dal sentire noi possiamo trarre la materia del (nostro modo di) conoscere e rivela poi tutti i forti limiti epistemologici del sensismo allorché questo pretende di ridurre le possibilità di conoscere esclusivamente al campo esperienziale dei sensi. Non tutta la conoscenza è frutto di quello che Galluppi interpreta come un rapporto di passività tra noi e il resto da noi.

Quando veniamo a confronto con gli elementi e i processi naturali, siamo oggettivamente noi i recettori di questo tipo di acquisizione dell’esperienza che, a sua volta, forma altra capacità di ottenere informazioni e nuova coscienza e scienza. Tuttavia, se qui il punto sembra passare dal campo epistemologico a quello gnoseologico, in realtà le riflessioni che vengono fatte da Galluppi riguardano sempre il problema che lui si pone circa il dualismo tra sensibilità e intellettività. Noi non siamo solo sensazioni ma anche ragionamento, pensiero, capacità di costruzione dello stesso.

Ed in questa formazione dei concetti si rivela una disposizione che è apparentemente separabile dal contesto materiale: c’è dunque un qualche rapporto tra la metafisica e la nostra capacità di pensare? Certamente sì, visto che la metafisica utilizza la formulazioni delle intuizioni mentali, per l’appunto dei pensieri e della critica, per interrogarsi su questioni che non sono fisiche e che, quindi, non attengono propriamente al mondo della sensibilità. Eppure, senza quest’ultima, anche molte indagini filosofiche (ma non solo tali) andrebbero a cadere nel vuoto o, più che altro, non avrebbero proprio ragione d’essere perché non potrebbero nemmeno iniziare ad essere esse stesse.

Troppe volte i filosofi vengono tinteggiati con i tratti taletiani dei pensatori distratti, con il collo allungato all’insù e la testa rivolta all’indietro per osservare la volta celeste o scrutare l’immensità dell’Universo. Ma senza la capacità di sfruttare il più possibile la stimolazione del dubbio e, quindi, senza il proporre e riproporre tutti gli interrogativi che vengono alla mente e che sono frutto di un istinto che ci spinge ad andare oltre i nostri confini fisici (e anche mentali), non avremmo fatto alcun passo nell’acquisizione delle conoscenze, nell’indagine tanto interna nostra quanto esterna, del mondo che ci circonda e ci comprende.

Il sensismo, quindi, ha questo torto: di relegare tutta la nostra coscienza al mero campo della sensibilità, escludendo dal novero delle possibilità di acquisire il sapere (e una maggiore autoconsapevolezza) proprio dall’attività raziocinante, dal confronto fra ciò che già sappiamo e ciò che intendiamo sapere, presumendo e molte volte inciampando sulla fallacia delle ipotesi. Ma senza tentativi non si sperimenta, non si arriva sempre più vicini ad un metodo di elaborazione concettuale che diventa così la base fondamentale anche per le scienze. Se ci si affida esclusivamente ai rapporti che ci provengono dalle sensazioni non si rischia ugualmente di incappare in simili inciampi?

Quante volte sentiamo ripetere la frase: «La realtà non è come sembra!». Ed è sostanzialmente vero, perché proprio la soggettività ci regala un mondo a nostro uso e consumo, a misura singolare, frutto di una traduzione nostra, che appartiene quindi al mondo dell’esperienza (e della sensibilità, ergo…), di un sincretismo tra oggettività del reale (che non può dirsi proprio “universalità“) e particolarismo del vissuto di ognuno. Non si mette affatto in discussione il principio praticamente empirico della rappresentazione della realtà che ci deriva dai sensi: si tratta, per l’appunto, di un atto, quello del produrre una sorta di effigie di ciò che è e che noi viviamo in quanto tale.

Ma la questione qui dirimente è il combaciare tra il “sentir di sentire” e il “sentire qualcosa“: coscienza delle sensazioni e oggetto delle stesse. Se il soggettivismo inquina, per così dire, la percezione reale del reale medesimo, quanto possiamo essere certi di conoscere veramente ciò che si sembra essere oggettivo, sotto gli occhi di tutti, reale in quanto esistente e inoppugnabilmente non contraddicibile da valutazioni del tutto particolari? Kant ci apostroferebbe affermando che la sensibilità è una modalità della capacità conoscitiva umana, mentre la sensazione è ciò che un dato oggetto o, se vogliamo, una data realtà dell’esistente ci comunica tramite la prima.

Dunque, la consapevolezza della sensibilità non è un soggettivismo del soggettivismo e non apriorizza nulla: la capacità senziente è una caratteristica dell’animalità umana ma non è per niente meccanicistico il fatto  che si esprime in maniera perfettamente identica (se vogliamo un po’ semplificare potremmo dire “in maniera uguale“) in tutti i soggetti che si raffrontano con l’esternità. Scrive Galluppi a proposito: «Gli oggetti reali sono quelli i quali si conoscono perché sono; non già quelli che sono perché si conoscono».

Non arriviamo in prossimità della conoscenza dell’esistente perché lo possiamo percepire, ma perché esso esiste a prescindere dalla nostra capacità di poterlo incontrare, percepire, quindi farlo diventare parte della nostra esperienza. Galluppi specifica ulteriormente: l’oggetto fuori da me modifica in qualche modo il giudizio che posso avere dell’esistenza, della mia vita, perché mi costringe a fare i conti con ciò che mi è altro, con quello che è il mondo che mi riguarda, in quanto mi include, ma che non è me stesso. Quell’oggetto o quella realtà dunque esistono non perché io essere umano la incontro, ma perché, anche in assenza di me, sarebbe lì nel contesto della materialità e dell’Universo.

Kant puntualizza che noi siamo in una sorta di “passività” nel momento in cui si viene a contatto con il processo della conoscibilità dell’essere, mediante la “percezione” in quanto tale: proprio ciò che Galluppi sostiene, viene dal filosofo di Königsberg descritto come un passaggio imprescindibile in cui noi siamo l’oggetto dell’oggetto, anche se questo non ha capacità cosciente. La realtà ci modifica, sostanzialmente, ci condiziona e, quindi, nel momento in cui affermiamo con risolutezza che “noi siamo“, “io sono“, “io so“, “io mi conosco“, proclamiamo una sentenza che non ci appartiene nemmeno. Per quanto noi se ne sia fermamente convinti.

Non perché non siamo a conoscenza delle particolari bislaccherie del nostro carattere o dei modi che ci riguardano e riguardano gli altri nel momento in cui socializziamo, discutiamo o ascoltiamo. Qui semmai il punto è che non esiste un “IO” definibile come certo perché gli stimoli esterni lo trasformano di continuo, anche dentro quella presumibile spiritualità che lo riguarda e che potremmo definire in tanti modi, con tante espressioni e nomi: anima, ego, inconscio, interiorità, demone (socratico), eccetera. Dunque la percezione del reale è semmai una coniugazione tra momento passivo e momento attivo, come descritti da Kant: spazio e tempo (che appartengono al secondo momento) sono intuizioni, forme aprioristiche del reale.

Però, pure non appartenendo al mondo del sensibile, noi le sentiamo in noi e le viviamo anche quando raggiungono livelli di inconoscibilità tali da farci dubitare che siano veramente poi tali. Un ultima considerazione sullo spazio, sul vuoto che, apparentemente, ha una sua concepibilità in quanto messo sempre in relazione con il non-vuoto, quindi con la presenza della materia: gli scienziati ci dicono che anche là dove si potesse creare qualcosa (e già qui siamo in ampia contraddizione…) col nulla del vuoto o col vuoto del nulla, ci troveremmo sempre in presenza di un certo quantitativo di energia. Invisibile, sì, ma reale.

Di cosa si tratta? Di quell’energia di cui Albert Einstein ci ha reso edotti con la dimostrazione che l’Universo si espande e che, quindi, esiste una spinta in tal senso, probabilmente in ogni “direzione” (anche se non si può parlare di direzionalità in senso fisico lì dove l’espansione è praticamente ovunque, in modo quindi uniforme). Neppure il vuoto è vuoto per sé stesso, ma contiene un qualcosa. Di fronte a ciò, come possiamo pensare di avere delle granitiche certezze per quanto ci riguarda?

MARCO SFERINI

14 settembre 2025

foto: screeenshot ed elaborazione propria

Written By

SOTTO LA LENTE

Facebook

TELEGRAM

NAVIGA CON

ARCHIVIO

i più recenti

la biblioteca

Visite: 126 Non meno oggi rispetto ai tempi del regno di Lucio Domizio Enobarbo, altrimenti conosciuto con il nome di Nerone, imperatore romano che...

Marco Sferini

Visite: 236 Festeggia con un cabaret di pasticcini, portandoli in giro per l’aula della Knesset. Itamar Ben-Gvir ha contribuito a far approvare una legge...

Il portico delle idee

Visite: 253 Tommaso scrive nella “Summa teologica” che propria dell’essere umano è una certa “intemperanza” che lo porta ad essere piuttosto simile all’animale: si...

Marco Sferini

Visite: 288 Sarebbe stato un ottimo segnale di compattamento della lotta contro la divisione sociale proclamata dalle pagine della finanziaria 2026 appena presentata dal...