Il particolare scetticismo ellenico: poche domande, niente risposte

Nel fare spesso riferimento alla conoscibilità dell’essere, dell’esistente, di ciò che c’è, noi compresi, si è optato non tanto per una indefessa certezza del rapporto tra conoscente e conosciuto,...

Nel fare spesso riferimento alla conoscibilità dell’essere, dell’esistente, di ciò che c’è, noi compresi, si è optato non tanto per una indefessa certezza del rapporto tra conoscente e conosciuto, tra osservante ed osservato, quanto per un processo in continuo divenire di questa capacità di acquisizione o di rimodulazione del tentativo di sapere per poter dare un significato (ed un “senso“) alla vita di ciascuno, alla vita di tutti.

Dobbiamo distinguere tra osservazione oggettiva e osservazione soggettiva. Pare abbastanza chiaro che la seconda è, se non altro semanticamente, l’opposto della prima: tuttavia dalla soggettività, come caratteristica intrinseca del nostro approccio nei confronti di noi medesimi e di ciò che ci è limitrofo (ma anche molto lontano), fuoriescono alcune premesse necessarie per la formazione complessa (quasi mai del tutto complessiva) di una presunzione di oggettività.

Perché ci riferiamo a ciò con il termine “presunzione“: perché, se la vogliamo dire con Pirrone, non possiamo essere certi nemmeno della nostra incertezza. Lo scetticismo ellenico, soprattutto quello del filosofo dell’Elide orientale, fu osteggiato non poco nel corso dei secoli: pareva, come del resto era (ma anche questa è una opinione e quindi non ha un carattere di veridicità assoluto e tanto meno relativo), una estremizzazione di concetti portati all’eccesso; così tanto da risultare frastornanti e ridondanti.

Affermare che non vi è praticamente nulla di certo, che non possiamo avere un punto di appoggio sul quale far valere una benché menima sicurezza, vuol dire in parte aderire ad una corrente della rassegnazione psicologica dell’essere vivente e senziente rispetto al tutto, ed in altra parte significa comunque reprimere delle domande, dei quesiti, degli interrogativi che, per nostra natura, ci sorgono spontanei da un’autoconsapevolezza che è parte di noi e che non possiamo non ascoltare.

Quello di Pirrone è uno scetticismo totalizzante che, nonostante appaia radicalissimo, non pretende nulla se non l’affermare che la contraddizione è permanente, incessante, onnipresente e che non la possiamo costringere né ad una limitazione momentanea, in virtù della prevalenza di un qualche sprazzo di verità derivante dall’oggettività dell’osservazione dei fatti, della materia in quanto tale, né ad un ruolo accidentale.

Sarebbe ipocrita negare che tanta fermezza nel ricercare una apatia tutt’altro che passivizzante o psicosomaticamente intesa nella sua moderna accezione, bensì intesa nel termine greco antico ἀπάθεια (“apátheia“), non eserciti un qualche fascino nei confronti dell’esatto contrario cui noi, oggi, siamo completamente immersi. Lo si voglia o meno. Il microcosmo terrestre di un’esistenza che ci separa, spessissimo e volentierissimo, dal rapporto con l’esterno ultra-atmosferico ben visibile notturnamente, impedisce non l’estraniazione dalla vita, ma la comprensione dell’incomprensibilità della vita stessa.

Ed è proprio questo il punto: l’estremizzazione del pragmatismo a tutti i costi, costi quel che costi nel sistema capitalistico e liberista del 2025, aumenta senza alcun freno una ego-consapevolezza così autocosciente da fare delle nostre intuizioni e delle nostre categorizzazioni dell’esistente l’unica interpretazione possibile dell’essere e dell’esserci. Abbiamo, quindi, antropizzato non solo l’ambiente che ci circonda, ma qualunque cosa, qualunque aspetto terrestre, atmosferico e dell’Universo come immenso, irrisolvibile, forse pure eterno mistero della vita in quanto stadio più complesso dell’evoluzione della materia.

Scrive Diogene Laerzio nelle sue “Vite dei filosofi” (IX, 62-63) a proposito proprio di Pirrone: «La sua vita  fu coerente con la sua dottrina. Lasciava andare ogni cosa per il suo verso e non prendeva alcuna precauzione, ma si mostrava indifferente verso ogni pericolo che gli occorreva, fossero carri o precipizi o cani, e assolutamente nulla concedeva all’arbitrio dei sensi. Ma, secondo la testimonianza di Antigono di Caristo, erano i suoi amici, che solevano sempre accompagnarlo, a trarlo in salvezza dai pericoli».

Benché ne venga fuori un ritratto quasi ammantato di dolcissima innocenza nei riguardi del fondatore dello scetticismo ellenico, accudito amorevolmente nella sua autoindotta apatia che lo estrania dai tanti inciampi, letterali o metaforici, dell’esistente, il punto su cui vertere è quel “lasciare andare” le cose per il loro verso, quindi il non curarsi delle reciprocità, dei rapporti intercorrenti tra noi esseri viventi e il resto del mondo. Qualcuno potrebbe affermare che Pirrone era un presuntuoso, un aristocratico del pensiero, un dispensatore di prosopopea.

Lui non ci ha lasciato praticamente nulla di scritto e, quindi, tranne le testimonianze di alcuni suoi allievi e i racconti di Diogene Laerzio, abbiamo ben poco su cui poter ricostruire una biografia che rifugga il semplificazionismo che può derivare da una antipatia (o anche da una aprioristica simpatia) per un filosofo che non si curava di niente e di nessuno.

Ma possiamo facilmente intuire che lo scetticismo in questione, categorizzato, proprio per la sua particolare espressione non compromissoria col resto della realtà, con l’epiteto speciale di “pirronismo“, è qualcosa di più – o se vogliamo di molto differente – da una mera espressione caratteriale di un profondo pensatore. Pirrone non intende smontare nessuna filosofia precedente, così come non pretende di fondare nessuna nuova scuola di pensiero.

Il confronto con la realtà è tutt’altro che disarmante, deludente o caratterizzato da una contrarietà di tipo emotivo: risultato supponente anche in questa piega del suo più generale approccio filosofico con l’esistente, Pirrone constata o, per meglio dire, rileva che per ogni verità che si pretende di affermare ne esiste una uguale e contraria e che la contraddizione è permanente e non può essere isolata e resa innocua. Non c’è un piano di realtà, ma c’è una realtà che viene interpretata dall’essere umano e che risponde, dunque, a questa sola interpretazione.

Se prescindiamo dalla nostra esistenza, in quanto tale, in quanto dimensione cosciente ed autocosciente dell’approccio con ciò che c’è, a partire, come già scritto, da noi medesimi, tutto ciò che noi affermiamo esistere rimane lì e non ha per forza un nome o una categorizzazione. L’essere parmenideo è e non può non essere. Mentre per Pirrone l’essere non è e, per citare la sempre molto divertente “Storia della filosofia greca, medievale, moderna” di Luciano De Crescenzo (Oscar Mondadori, 2017), non me ne importa niente.

Ma, piuttosto che costringere lo scetticismo ellenico nella cornice asfittica di un menefreghismo che non gli si confà per nulla, va riconsiderato il concetto di “comprensione” di ciò che siamo e di ciò di cui facciamo parte. I contemporanei di Pirrone, e lui medesimo, parlavano di ἀκαταληψία (“acatalessia“) per contrapporsi con nettezza alla catalessi stoica, ossia a quel processo di apprendimento della realtà che veniva dato come processo più che deduttivo: vera e propria via alla conoscenza e alla sua espansione mediante le capacità tanto mentali quanto sensoriali dell’umana psicofisicità.

Lo scettico sospende il suo giudizio sull’esistente. Si convince che nella irrisolvibilità della onnipresenza della contraddizione non vi è altro comportamento da mettere in pratica se non quella apaticità che è separazione dalla certezza della scoperta, alimentata da un istinto passionale che, se vogliamo precisare con un po’ di meticolosità, nemmeno però può inquinare un procedimento gnostico visto che – ci riporta sempre Diogene Laerzio – il pirronismo non pensa di poter arrivare ad una qualche forma di conoscenza data.

Lo scetticismo, date tutte queste affermazioni su di esso, potrebbe essere ingenerosamente e platealmente confuso con una sorta di metodicità del dubbio in qualche modo universalizzata. Non è proprio così. Si muove più che altro sulla risolvibilità dell’incertezza. Per lo scettico vi sono affermazioni e controaffermazioni. Ma non si può dogmaticamente imporre una verità. Il rifiuto del dogma è, per essere estremamente sintetici, il cuore di questo particolare scetticismo filosofico che ritroviamo nell’interro cammino del pensiero umano (almeno di quello occidentale).

Lo scettico quindi ammette anche che una conoscenza è possibile ma, chiosando, aggiunge che questa è sempre fallace e che, pertanto, una “vera” conoscenza è irraggiungibile. Risulta evidente che l’oggettività cui ci aggrappiamo sempre per dire che ciò che è reale è anche razionale e viceversa (prendendo in prestito da Hegel un famoso assunto) e che, quindi, la razionalità trova una sua concretezza nella realtà, ha per lo scettico un valore completamente capovolto: non è disvalorizzata, ma è letteralmente non presa in considerazione.

Questo perché il concetto chiave, su cui tutto lo scetticismo di Pirrone e dei seguaci ruota, si fonda sull’asserzione di una incertezza relativa all’apparenza delle cose. Appaiono per quello che sono o sono così perché così noi le percepiamo e le facciamo, quindi, apparire a noi stessi? Fuori da ogni gioco di parole, il problema di un esclusivismo interpretativo che, pertanto, lambisce i confini del dogmatismo, non è da escludere.

Ogni volta che affermiamo la certezza dell’esistente e del reale, noi rischiamo di ingannarci se riteniamo che la nostra osservazione sia l’unica chiave risolutiva delle proprietà della materia e che tutto sia affidabile ai sensi oltre che, ovviamente, alla mediazione anche della concettualizzazione tramite l’intelletto.

Per capire davvero a fondo il carattere dello scetticismo di Pirrone, ci viene in soccorso Diogene Laerzio che riporta una serie di aneddoti che permettono di tratteggiare la particolare figura di un uomo capace di una astrazione dalle passioni tale da oltrepassare quasi il richiamo all’atarassia in quanto tale.

Scrive lo storico dei filosofi a questo proposito: «Non perdeva mai la sua compostezza, cosí se qualcuno lo piantava nel mezzo del discorso, egli lo finiva per conto suo […]. Quando una volta Anassarco cadde in un pantano, Pirrone continuò la sua strada senza aiutarlo. Qualcuno gli rimproverò un tal comportamento, ma Anassarco stesso lodò la sua indifferenza e la sua impassibilità». Qui si potrebbe discutere di chi fosse, tra il maestro o l’allievo, colui che aveva meglio sviluppato una estraniazione dagli impulsi passionali. Ma si tratterebbe di un dibattito un po’ sterile, soprattutto dal punto di vista scettico.

Non arriveremmo, infatti, a superare le contraddizioni che incontreremmo. Ad iniziare da quelle che noi, schiavi invece dei tanti, troppo impulsi quotidiani, viviamo e, il più delle volte e con una certa attitudine ad una inconsapevole (e per questo ancora più grave) colpa, e coltiviamo in un conformismo incolore, privo di un vero filtro critico, ancorché razionale e presuntuosamente oggettivo, della realtà in cui siamo e non possiamo non essere.

MARCO SFERINI

9 febbraio 2025

foto: screenshot ed elaborazione propria

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Il portico delle idee

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