Un interrogativo aleggia nei dibattiti televisivi di queste ore e proviene da commentatori e giornalisti sostanzialmente di destra, quindi molto vicini all’attuale governo meloniano: dunque sarebbero le manifestazioni di piazza ad aver indotto na maggiore cautela da parte di Israele nell’assaltare la Global Sumud Flotilla e sequestrane comunque gli equipaggi? La domanda non è poi così campata in aria e, pur non nascondendo affatto l’intento provocatorio e ironicamente denigratorio della grande partecipazione popolare ai cortei di questi giorni, merita una risposta.
La risposta è: sì. Senza quell’impegno spontaneo, istintivamente riversatosi in tutte le più grandi città d’Italia, così come nei piccoli comuni con presìdi e proteste di ogni tipo (si pensi anche a quella dei sanitari e delle luci accese davanti e dentro gli ospedali), è molto probabile che il governo di Tel Aviv non avrebbe avuto lo stesso atteggiamento nell’abbordaggio delle quarantaquattro imbarcazioni disarmate che veleggiavano verso Gaza. Questo è un risultato che il movimento per la fine del genocidio nella Striscia, per la liberazione degli ostaggi detenuti da Hamas, per la fine delle ostilità, dei bombardamenti indiscriminati e il riconoscimento dell’autodeterminazione del popolo palestinese, può dire di aver raggiunto.
Come può dire, questo stesso movimento spontaneo, di aver traguardato anche l’obiettivo di essere riconosciuto dal governo meloniano come un problema: ma non di ordine pubblico, bensì proprio politicamente inteso. Le centinaia di migliaia di giovani e meno giovani che si sono riversati nelle piazza italiane sono una soggettività pluralissima, non incasellabile in un solo ambito partitico. Hanno il colore dell’arcobaleno della pace; hanno i tratti distintivi di chi vuole vivere e vedere vivere gli altri non dentro il perimetro asfittico dell’economia di guerra, ma in un presente-futuro che riprende fiato proprio grazie al disarmo, al non aumento delle spese militari, all’espansione di un nuovo stato sociale.
Tutto questo il movimento per Gaza lo dice sottotraccia, ma lo dice nel momento in cui afferma che scioperare per la libertà del popolo palestinese riguarda anche lo stato della nostra vita qui, in questo Occidente che pensiamo al sicuro, nonostante le guerre sparse per il pianeta, quelle che sono ai confini dell’Europa comunitaria, quelle che imperversano da decenni e decenni e sono state letteralmente dimenticate. Il movimento è tutto tranne un’estemporaneità: perché la crisi economico-sociale, la mancanza di lavoro, le sempre più gravi ristrettezze economiche di milioni di italiani, il dramma delle migrazioni e l’aumento dell’inflazione sul carrello della spesa hanno permesso una nuova presa di coscienza, di consapevolezza.
Tutto si tiene, tutto è collegato e nulla può essere rubricato come un mondo a sé stante rispetto agli altri. Ciò che accade a Gaza è singolare per l’entità, per la sproporzione dei numeri, per la ferocia con cui il governo israeliano conduce un genocidio, una pulizia etnica nei confronti di un popolo martoriato da settant’anni. Ma non è esclusivizzabile al punto da ritenerlo altro rispetto a quanto accade da noi. Le ripercussioni si sentono e si sentiranno se continueremo a vendere armi ad Israele, a fare affari con uno Stato terrorista, oggettivamente criminale, se non faremo nulla per fermarlo nel tentativo di escludere i palestinesi dalla Palestina.
Due milioni di persone sono scese in piazza il 3 ottobre 2025 e hanno aderito anche ad uno sciopero generale, ma soprattutto hanno affiancato questa protesta con tante, singolari, eppure molto condivise e compenetrate, volontà di farsi sentire dopo un lungo periodo di silenzio dovuto alla vittoria della destra-destra in una Italia che è stata, almeno fino a pochi giorni fa, letargicamente rassegnata nei confronti di un destino imminente di sempre maggiore impoverimento, di sopportazione di un’economia bellica che non ammette, secondo Meloni, Crosetto, Salvini, Tajani e l’intera maggioranza di governo, nessuna obiezione.
Il movimento per Gaza è movimento per la pace, è movimento contro la prepotenza dei capi di Stato, dei Presidenti del Consiglio e degli esecutivi che vorrebbero consegnarci ad un imminente destino di abitudine allo stato di guerra: non un principio futuristico rinnovato per l’occasione, ma una disciplina anzitutto mentale che sia introitata sulla scorta di un neonazionalismo tutto di facciata, di un patriottismo misuratamente adeguato ad un livello di ipocrisia sufficiente da ingannare tanto gli elettori del centrodestra quanto quelli di altro colore.
È stata davvero l’enormità della tragedia di Gaza, vissuta in un piccolissimo lembo di terra, a dare la misura di un orrore senza pari. La prigione a cielo aperto, un decimo del territorio della Valle d’Aosta, tanto per avere un termine di paragone geografico (e quindi geopolitico), aveva una densità di popolazione tra le più alte al mondo: oltre due milioni e mezzo di abitanti. Oggi, dopo gli sfollamenti israeliani, le compressioni date dalle linee del fronte, lo sterminio di oltre settantamila civili, di cui oltre ventimila sono bambini, si stima che nella Striscia vivano (si fa per dire…) ancora ottocentomila palestinesi.
La Flotilla è stata una grande spedizione di pace, di solidarietà, di fratellanza internazionale. Ha tenuto milioni di italiani incollati ai telefonini, alle televisioni, ai computer per seguirne la rotta verso Gaza, miglio nautico dopo miglio nautico. Premeva a tutte e tutti che potesse certamente arrivare sulle coste palestinesi e lasciare i suoi aiuti, ma anzitutto che il suo equipaggio, dopo aver acceso i riflettori globali sul blocco navale imposto da Israele da vent’anni e sulla necessità dell’apertura di corridoi umanitari, uscisse incolume da questa straordinaria contagiosa, empaticissima avventura umana.
Il ministro Itamar Ben-Gvir ha tacciato i quattrocento e più della Flotilla come “terroristi“, praticamente dei fiancheggiatori e sostenitori di Hamas. Salendo a bordo di una delle navi israeliane che li avevano catturati e sequestrati, ha insultato tutte e tutti apertamente, protetto dalle sue guardie del corpo. Ha poi fatto visita agli stessi attivisti nella prigione di Ktzi’ot (nel deserto del Negev a pochi chilometri dal confine con l’Egitto) e li ha sbeffeggiati sui social affermando che devono rimanere lì molto a lungo. Testuale: «Penso che debbano essere tenuti qui per alcuni mesi in una prigione israeliana, in modo che si abituino all’odore dell’ala terroristica». Sono stati messi a regime di carcere duro, con mezze razioni di cibo e acqua e i primi racconti della detenzione sono tutt’altro che rassicuranti.
Prima di entrare nelle celle sarebbero stati sottoposti a torture psicologiche, fatti inginocchiare per ore, insultati e malmenati. A questa spietata crudeltà, degna del peggiore sionismo nazionalista, colonico, oltranzista in maniera davvero esponenziale, risponderà la mobilitazione permanente per Gaza. Il movimento può sostenere le nuove Flotilla che si avvicinano alla Striscia (quella formata dalle barche turche e quella delle dieci coraggiose imbarcazioni che fanno vela dalla Sicilia nel Mediterraneo centrale da alcuni giorni) e al contempo avere come parola d’ordine l’immediato rilascio di tutti gli attivisti.
Alle parole di un criminale come Ben-Gvir andava opposto il ritiro dell’ambasciatore italiano da Tel Aviv/Gerusalemme. Andava dato un segnale chiaro ed inequivocabile di non accettazione di un simile atteggiamento da vero e proprio emulo dei peggiori torturatori di Stato che la Storia possa ricordare. Certe volte alcuni epiteti, alcune parole possono apparire sproporzionati, ma come definire altrimenti Smotrich e i suoi colleghi di governo se non una vera e propria cricca di deliberati, rei confessi assassini dei più elementari princìpi di umanità e, quindi, di un popolo stretto nella morsa tra il terrorismo di Hamas e quello dello Stato di Israele?
Questi criminali prima o poi dovranno subire un processo norimberghiano, un qualcosa di simile che rimetta, proprio come accadde nel 1946, al centro di tutto il diritto internazionale, i diritti umani, civili, le libertà che ne sono premessa ed epilogo. Il movimento per la pace, per Gaza, per la Flotilla non ha ancora un nome ben preciso, tanto è eterogeneo, spontaneo e istintivo nel suo formarsi nelle piazze e nelle vie d’Italia. Ed è forse un bene che non glielo abbia ancora imposto nessuno. Se avrà un nome, se lo darà da solo. Questa forma di spontaneismo è veramente la più bella riscoperta di una voglia di partecipazione che pareva insperabilmente riconfigurabile in un breve-medio termine.
La tragedia delle guerre e del conflitto scatenato a Gaza dopo l’orrore del 7 ottobre 2023, ha permesso tutto questo. Certo, è un prezzo molto alto da pagare per vedere nuovamente saldato il rapporto tra studenti e lavoratori, tra giovani generazioni e generazioni meno giovani, ma tuttavia è successo e probabilmente succederà ancora. Perché l’indignazione è nei confronti di un potere che si permette di fare quello che vuole per sua natura, perché, nello specifico, quello israeliano si considera, in quanto espressione divina come “popolo eletto” sciolto dal vincolo delle leggi, del diritto internazionale. Lo ha detto l’altro fanatico ministro di Netanyahu, Bezalel Smotrich.
Non si può davvero rimanere indifferenti di fronte ad affermazioni di questa natura e che sono state molto bene esposte in un monologo da Stefano Massini nel suo settimanale intervento a Piazzapulita su La7. Il movimento per Gaza è una vera eccezione nel panorama politico, civile e sociale dell’Italia meloniana. Una eccezione che può diventare la regola utile per mostrare soprattutto a chi non ne fa ancora parte che si può avere a cuore la propria esistenza, i propri diritti, senza per questo considerare quelli degli altri un discorso che non ci riguarda, che ci è lontano, che ci è, quindi, indifferente. Le piazze piene sono la rivincita sul prevaricante moralismo e sulla prepotenza delle destre.
C’è una maggioranza assoluta di italiane e di italiani che detesta le guerre, che non le ritiene minimamente un mezzo di risoluzione delle controversie internazionali e che, quindi, è moralmente e, quindi, sì, anche ideologicamente parlando, avversa a qualunque aggressione deliberata di un potere statale ad un popolo prigioniero di una storia che non è la sua in una terra che, invece, è la sua. La libertà di Gaza è anche la nostra libertà. Non smettiamo di lottare in questa direzione: ostinata e contraria, avrebbe detto De Andrè, grande poeta del libertarismo.
MARCO SFERINI
4 ottobre 2025
foto: screenshot ed elaborazione propria







