È noto che nei primi anni Settanta Santiago del Cile è stata un laboratorio politico globale nella guerra fredda. Meno conosciuti sono gli effetti sulle diverse anime del cattolicesimo italiano. Lo spiega Luigi Giorgi nel suo Tra democrazia e rivoluzione. La Democrazia cristiana e la politica italiana nei giorni del golpe cileno (Guerini e Associati, pp.206, euro 22).
Il libro è forte di un’ampia disamina della stampa e di documenti archivistici. Il focus è sulle conseguenze del golpe dell’11 settembre 1973 sulla politica democristiana, ma il risultato è più ampio e permette di riflettere con nuovi elementi su quel delicato passaggio storico. «Il colpo di Stato, cioè il sovvertimento violento dell’ordine democratico con numerose vittime, i desaparecidos, gli incarcerati e i torturati – scrive Giorgi – ha rappresentato un dramma mondiale. Una vicenda in cui il ruolo degli Stati Uniti amministrati da Nixon è stato determinante» e così, inevitabilmente, anche la Dc ha assunto il ruolo dell’imputato.
Da una parte, contano i rapporti molto stretti della Dc con il Pdc (Paritido demócrata cristiano) di Eduardo Frei Montalva che, come noto, almeno inizialmente, ha approvato l’azione delle forze armate, considerata come l’unica via possibile per evitare la guerra civile.
Dall’altra, pesano l’insofferenza crescente verso la prolungata occupazione democristiana del potere, la modernizzazione e la secolarizzazione in corso, le polemiche contro il «fanfascismo» e la percezione diffusa che la democrazia costituzionale sia fragile. Scaturiscono da qui i tre famosi articoli di Berlinguer su Rinascita, in cui viene lanciato il compromesso storico. La ricostruzione di Giorgi integra il punto di vista della Dc, a sua volta da scomporre tra le varie correnti.
Ci sono coloro che calcano sulle responsabilità di Allende e che, come Ciccardini, riescono addirittura a parlare di «opposti estremismi». Ma c’è anche la sinistra della Base che, al contrario, accosta Pinochet a Franco e chiama alla riscoperta dell’antifascismo. A prevalere è la posizione che, pur senza recidere i rapporti con il Pdc, condanna il golpe. Risulta significativa anche la scelta della Dc di affiancare nella discussione alla Camera una seconda interpellanza sul dissenso politico in Unione sovietica.
Di fronte e tali equilibrismi spicca la posizione di Moro che, nella carica di ministro degli esteri, non usa mezze misure invece nel deprecare la violenza di Pinochet, letta come un «sinistro presagio» per l’interna America latina. Su queste premesse è possibile anche il dialogo con il Pci, che per voce di Napolitano pronuncia una «chiamata alla corresponsabilità» della Dc come forza democratica e popolare.
E, infine, ci sono le voci fuori dal coro: i socialisti, il «Ponte», Rossanda e Pintor, che sul manifesto descrive un «untuoso avvicinamento» dei partiti sulla questione cilena. Del resto, tra gli effetti del golpe andrebbe menzionato anche quello centrifugo rispetto al sistema dei partiti e che persegue un’altra idea di antifascismo e di resistenza al neoliberismo armato.
Si tatta di un campo composito – missionari, laici, riviste – che attraversa anche il cattolicesimo post-conciliare e coinvolge soggetti come i Cristiani per il socialismo, nati in Cile e la cui sezione italiana viene fondata a Bologna, dieci giorni dopo il golpe. Questi denunciano le gravi responsabilità della gerarchia ecclesiastica cilena e terranno aperto il canale con l’opposizione al regime e i riflettori puntati sulla violazione dei diritti umani. Squarci dentro la guerra fredda che illuminano su reti internazionali ancora in larga parte da investigare.
ALESSANDRO SANTAGATA
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