Un ectoplasmatico fantasma berlusconiano si è aggirato per gli scranni di Montecitorio, evocato da un trasalimento medianico di alcuni deputati di Forza Italia che, con grande concitazione, hanno toneggiato ardentemente su un avverbio: “Finalmente!“. Punto esclamativo, due punti, anche tre! Si faccia pure vedere che si abbonda.
E perché no, dopo trent’anni e più, un ramo del Parlamento italiano approva, nella prima di quattro letture previste da quella Costituzione che si tenta di smantellare pezzo dopo pezzo, una nuova riforma della giustizia, targata Nordio, che superando persino quella di Castelli e Cartabia, mette un mattone pesante in più sull’edificazione del muro tra le carriere di magistrati giudicanti e requirenti.
Nell’aprile del 1998, Licio Gelli, a proposito della bozza redatta da Marco Boato dei Verdi, relatore per la Bicamerale dalemiana sulla parte inerente la riforma del testo costituzionale inerente la magistratura e la giustizia, scriveva esattamente così: «Il mio Piano di rinascita? Vedo che vent’anni dopo questa Bicamerale la sta copiando pezzo per pezzo con la bozza Boato. Meglio tardi che mai. Mi dovrebbero almeno dare il copyright…».
Fatta eccezione per Rifondazione Comunista, tutti i partiti di allora, di centrodestra come di centrosinistra erano accomunati dalla condivisione di una modificazione dei rapporti tra giudici e pubblici ministeri, separandone le funzioni, seppure differentemente da quanto avrebbero poi ipotizzato e tentato di realizzare le riforme di Alfano nel 2009 e successivi altri interventi a dir poco strutturali nei rapporti di equipollenza tra i poteri dello Stato e il mantenimento della reciproca indipendenza.
Oggi, se si mettono insieme l’autonomia differenziata, il premierato e questa riforma della giustizia nordiana, il retrogusto eversivo del Piano di rinascita democratica di gelliana memoria si percepisce ancora più distintamente rispetto a ventisette anni fa, quando il venerabile maestro della Propaganda 2 si felicitava dei passi avanti fatti contro quella democrazia che gli era sempre stata troppo stretta.
Il tema della separazione delle carriere dei magistrati è, non soltanto a prima vista, ma anche nelle discussioni che si possono inanellare, un problema caratterizzato da un tecnicismo non del tutto escludibile ma che, oggettivamente, nasconde da molti decenni, fin dai primi approcci del berlusconismo con l’intero impianto costituzionale repubblicano, una fisionomia invece evidentemente politica.
Perché Silvio Berlusconi e Forza Italia hanno, unitamente al resto del centrodestra, salvo mediocri e quindi irrilevanti sfumature di contorno, battagliato perché pubblici ministeri e giudici avessero carriere separate e non potessero decidere di cambiare ruolo nel corso del loro lavoro comunque nell’ambito della giustizia? La domanda può avere più di una risposta, ma quella più convincente (ed effettivamente corrispondente agli intenti propriamente politici in questione) è relativa alla “mentalità” magistratuale.
O, per meglio dire, al fatto che un pubblico ministero che ha fatto il giudice conservi la disposizione indagante a tutto tondo e non dia per scontato, nell’immediatezza indiziaria, che un presunto reo sia già reo per forza, e che, quindi preservi il ruolo di indagine non solo per ottenere la colpevolezza dell’imputato ma, essenzialmente, per cercare la verità dei fatti. Non è cosa da poco, se ci si pensa bene.
Di contro, un giudice che ha fatto il pubblico ministero dovrebbe avere la stessa formazione e considerare l’accusa per quello che è: l’avvocatura dello Stato e non del governo, del potere pro tempore in mano ad una maggioranza politica. La separazione delle carriere, caldeggiata dalla destra berlusconiana (ed oggi anche meloniana), ha questo obiettivo: fare in modo di rendere il PM più requirente che mai, togliendogli quel piglio critico che lo porta (e lo si vede molto bene in tanti telefilm e sceneggiati) a fare le pulci alle indagini di polizia.
Nella riforma della destra di governo il pubblico ministero somiglia sempre più ad un magistrato vicino all’idea che il governo ha di giustizia, di punizione, di carcerazione, di repressione penale. Allontanando il PM dall’eventuale ruolo giudicante avuto, ne si fa un poliziotto d’aula di tribunale, piuttosto che un elemento dirimente del processo che concorre a ricercare l’evidenza dei fatti e non a mirare con cieca esclusività alla condanna del presunto reo.
Se il PM oggi può indagare qualunque cittadino che sia sospettato di aver commesso un reato, compresi gli esponenti di governo, è proprio perché la Magistratura conserva quell’autonomia ed indipendenza che la Costituzione le ha affidato dal 1946 in avanti, dopo che, in vent’anni di dittatura fascista, il ruolo dei giudici e dei pubblici ministeri era stato completamente asservito al volere dell’esecutivo mussoliniano e del PNF.
La riforma di Nordio prevede, oltre alla separazione delle carriere dei magistrati, prevede di conseguenza la scissione del Consiglio Superiore della Magistratura in due assemblee separate: uno per quella giudicante e uno per quella requirente. Insieme a ciò, si contempla anche un’Alta Corte disciplinare che andrebbe a sostituire la funzione sanzionante del CSM attuale.
Quindi, si spezzetta l’organo di autogoverno della Magistratura, così come si frantuma la sua unità nella diversità attuale e si indebolisce un intero potere dello Stato a fronte di una idea di governo sempre più energico, forte e dominante, con un Parlamento che, se passasse la riforma calderoliana, si vedrebbe sottratta gran parte delle facoltà decisionali e legislative in molte materie della comune vita di qualunque cittadino.
Licio Gelli si fregherebbe per bene le mani e avrebbe di che gioire nel vedere l’Italia del 2025 andare verso un regime di democratura, di torsione autoritaria che, nella sua fisionomia sempre più chiara, espone i caratteri prodromici (ma poi nemmeno tanto tali, perché vi siamo dentro già da molto tempo senza accorgercene…) della assoluta centralità dell’esecutivo e lo sbilanciamento dei poteri dello Stato a tutto vantaggio di Palazzo Chigi.
Le Camere come notai diligenti che ratificano le decisioni del governo; la Magistratura che perde via via la sua equidistanza dal resto dei poteri con i pubblici ministeri che dipenderanno sempre più dalla polizia giudiziaria, divenendone sostanzialmente l’avvocatura e facendo scemare il ruolo di assoluta garanzia per ogni indagato. Così, se al governo non piacerà che si aprano i fascicoli di un certo procedimento, non vi sarà più un magistrato requirente in grado di farlo.
E l’uguaglianza dei cittadini davanti alla Legge sarà ancora più difforme rispetto alle manchevolezze che, naturalmente, si possono riscontrare nelle tante contraddizioni insite nelle procedure normali, rispettose tuttavia, almeno formalmente, del diritto universale così come di quello positivo e della legalità propriamente detta e intesa. Non sarà nemmeno più possibile, appunto, fare appello ad un formalismo dell’uguaglianza della Norma con la enne maiuscola per chiunque e per ognuno.
Preventivamente, come Gelli avrebbe sognato, la giustizia sarà oggetto essa stessa di valutazione: da parte del governo di turno, da parte di chi permetterà che vadano avanti processi civili e penali per i poveri cristi di turno, mentre i forti e i prepotenti saranno salvaguardati dall’essere oggetto di indagine e, nemmeno a dirlo, di inchiesta persino giornalistica. Il tutto si tiene con un’inquietante saldatura che oltrepassa i confini del lecito, del moralmente accettabile, del costituzionalmente concepibile.
Ma, del resto, questo governo tiene al rispetto della Costituzione tanto quanto Gelli teneva alla conservazione della democrazia in Italia. Praticamente siamo sul crinale dell’ipocrisia che rivendica il passato autoritario nel nome di una destra moderna che rimetta al centro il concetto di Nazione come Patria, divincolando le istituzioni dai lacci e lacciuoli democratici. Impedimenti che servono solo a far perdere tempo nel governare e nel tutelare i grandi poteri, davvero forti.
I sostenitori della riforma Nordio, così come di quella di Castelli nel 2006 e quella di Alfano nel 2009, diranno che la separazione delle carriere dei magistrati nulla ha a che vedere con il piano politico, con l’esigenza comunque manifestata in tanti discorsi di non vedere gli uomini e le donne di governo “condizionati” dall’azione della Magistratura, dalle tanto paventate “toghe rosse” di berlusconiana memoria.
E diranno anche che vi sono troppi passaggi tra ruolo giudicante e ruolo requirente nelle carriere dei magistrati. Una affermazione smentibile molto facilmente: ad oggi, e almeno da una quindicina di anni a questa parte, chi ha scelto di passare dall’esercitare le funzioni di PM a quelle di giudice è soltanto lo 0,21% dei componenti della Magistratura; mentre lo 0,83% ha fatto il percorso inverso (sono dati reperibili dall’Ufficio statistico del CSM).
Ed anche prima dell’intervento delle riforme Castelli, Alfano e Cartabia, chi sceglieva di cambiare ruolo non faceva mai andare oltre il 10/12% l’asticella del dato complessivo, con poche differenze tra giudici e pubblici ministeri e viceversa. Quindi non esistono alibi di sorta, non esiste nessuna transumanza, nessun passaggio in massa da un ruolo all’altro.
Ma la volontà politica quella sì, quella c’è e la si riscontra, decennio dopo decennio, nella pervicacia con cui la si ripropone: perché l’indipendenza totale della Magistratura dal potere politico fa paura a chi non vuole essere giudicato e vuole le mani libere per gestire il governo del Paese sbrigliato dai bilanciamenti costituzionali che garantiscono, per l’appunto, l’interdisciplinarità e il controllo reciproco per la solidità dell’asse democratico.
Affinché la Repubblica non diventi altro da sé stessa e si trasformi da parlamentare in premieristico-presidendiale, mettendo da parte anche la terzietà del Quirinale e pregiudicando definitivamente l’antitesi dell’autoritarismo, del fascismo e del neofascismo nata e resistita per oltre ottant’anni a dispetto di tentativi di colpi di Stato fatti proprio nel nome di una spergiurantemente falsa “rinascita democratica“.
Occorre, quindi, fare argine. Ma non solo con la necessaria vittoria referendaria contro questo tentativo di sovvertimento dell’uguaglianza fra i poteri dello Stato, di alterazione della laicità a tutto tondo della Repubblica. Partiti progressisti e di opposizione, sindacati e associazioni, comitati, mondo del diritto e della cultura, mondo del lavoro e della scuola devono unirsi per difendere la democrazia.
Questi eversori vanno cacciati il prima possibile. I danni che stanno facendo sono quasi incalcolabili: lo saranno di certo se non riusciremo a costruire una alternativa credibile, sociale, civile e morale ispirata al meglio dell’Italia repubblicana, antifascista e saldamente ancorata ai valori dell’uguglianza e dell’inclusione, preservando con grande cautela ogni possibilità di partecipazione al processo decisionale comune.
Solo così la Repubblica Italiana sarà, ancora una volta, quella che è stata, pur con tutti i suoi innumerevoli difetti, fino ad oggi: oltre il berlusconismo, oltre salvinismo e melonismo ed oltre ogni tentazione autoritaria che metta in discussione il ruolo centrale del Parlamento.
MARCO SFERINI
17 gennaio 2025
foto: screenshot ed elaborazione propria