Il male che il “patriota” Trump fa agli Stati Uniti (e al mondo)

Il WTO (acronimo che sta per “World Trade Organization“), una delle massime autorità mondiale in materia di economia e di commerci, calcola che l’impatto dei dazi imposti dall’amministrazione Trump...

Il WTO (acronimo che sta per “World Trade Organization“), una delle massime autorità mondiale in materia di economia e di commerci, calcola che l’impatto dei dazi imposti dall’amministrazione Trump nel mercato globale sia stato nell’ordine di un qualcosa come 34 miliardi di dollari alle grandi aziende di settori tra i più vari: Apple, Ford, Porsche, Walmart e Sony, tanto per fare alcuni nomi notissimi. Le previsioni sull’intascamento dei profitti non sono per niente buone nemmeno su un periodo di medio termine. Segno che, nonostante le prese di posizione della magistratura americana, alcuni indici non paiono essere ottimistici.

Infatti, dazi al 25% rimarranno, sia che la sentenza della Court of International Trade rimanga in vigore, sia che venga annullata dalla Corte Suprema degli Stati Uniti d’America, dopo la “sospensione temporanea” messa in essere dalla Corte di appello di Washington, rimarranno per quanto concerne il grande comparto della produzione di acciaio e alluminio. I commerci, quindi, saranno notevolmente influenzati da un’onda lunga delle imposte messe Trump anzitutto su prodotti cinesi, canadesi e messicani. Ma la guerra dei tribunali, per riaffermare i princìpi costituzionali che riguardano le prerogative presidenziali in tempo di emergenza, non è affatto finita.

Anzi, è solo incominciata. Tuttavia è francamente impensabile che sia la giustizia a correggere ciò che la politica non è in grado di frenare e arginare. Ma la debolezza dell’opposizione congressuale alla virulenza del trumpismo è un dato, purtroppo, di fatto. La tendenza, ammesso che sia mai stata tale, ci dice che il presidentissimo punta ad una riaffermazione del primato statunitense nel mondo provando a mettere sotto assedio gli altri poli economici con la politica dei dazi e ispirando nella nazione un sentimento fortemente autarchico. Sembra che qualcuno abbia dato un nuovo soprannome a Trump: lo chiamano “TACO” (un altro acronimo) che sta per: “Trump Always Chickens Out” (ossia: Trump se ne sta sempre alla larga”).

È stato un editorialista del “Financial Times” ad attribuirgli questo nomignolo, per via del fatto che il presidente sovranista e conservatore è anche fin troppo rivoluzionario quando si tratta di sconvolgere gli indici di borsa, di usare il liberismo americano per sconvolgere quello degli altri grandi paesi e delle potenze mondiali. Salvo fare repentina marcia indietro nel momento in cui tutto va fuori fase e i campanelli di Wall Street iniziano a suonare all’impazzata. Quel tirarsi via dagli impicci economico-finanziari che possono provocare le sue esasperanti politiche daziali è stato interpretato come un segno evidente di debolezza.

Ma soprattutto come un segno di oggettivo avventurismo nel collocare la sua gestione politica degli interessi statunitensi su una rotta improvvisata, data giorno per giorno, senza un piano prestabilito che metta insieme il tanto agognato “interesse nazionale” con quell’imperialismo di nuovo modello che il tycoon intende portare avanti, soprattutto a scapito del giganteggiamento asiatico sino-indiano. Gli unici ostacoli che sta incontrando Trump nel suo indefesso cammino verso la realizzazione del fittizio progetto “MAGA” (“Make America Great Again“) provengono dalle reazioni dei mercati e da quelle della magistratura.

Il Congresso è ostaggio della maggioranza di un GOP (“Grand Old Party“, il Partito repubblicano fagocitato in breve tempo proprio da Trump) che ha cambiato nettamente fisionomia politica e dirigenziale rispetto anche soltanto ad un lustro fa. I democratici sembrano non pervenuti e i giudici sono gli unici in grado, facendo leva sul diritto federale, di fermare quelle che valutano come non prerogative presidenziali, ma aperte e reiterate violazioni delle stesse che, in questo frangente, si sostanziano nei decreti emergenziali firmati a decine nei primi cento e più giorni della nuova presidenza.

Il capitalismo nazionale, americano ed internazionale è giustamente preoccupato per le bizzarrie di una destra al potere che, comunque, non disconosce il ruolo del sistema e che, nel volerlo coniugare con il primitivissimo istinto iper-identitario del neonazionalismo a stelle e strisce, eccede nel tentare la saldatura tra protezionismo ed espansionismo, tra l’autarchia cui si faceva riferimento poco sopra e l’imperialismo rimesso in moto con le guerre regionali che hanno risvolti però ampiamente globali. I giudici della Corte per il Commercio Internazionale tutto sono tranne che una sponda del capitalismo in allarme: qualche anticorpo derivante dalla separazione dei poteri, gli Stati Uniti evidentemente lo posseggono ancora.

Ma non è escluso che Trump provi a riformare anche la giustizia americana, oltre ad attaccare i luoghi primi in cui si forma il pensiero critico: Harvard tra tutti. Non certo un covo di bolscevichi o di internazionalisti a tutto spiano. Eppure alla Casa Bianca non sta bene che, prendendo miliardi di dollari all’anno dallo Stato, una delle università più prestigiose al mondo si permetta di criticare il presidente e la sua cerchia di rimestatori di odio, disprezzo, conflitti etnici e razziali, intrisa di omofobia, fideismo a tutto spiano e voglia di affermare la supremazia della grande Repubblica stellata su un mondo ormai multipolare.

Non fosse che le disgrazie non vengono mai da sole, anche le critiche subiscono un po’ la stessa sorte: nel mentre i giudici mettono un freno alle pretese daziali di Trump, Moody’s, nota agenzia di rating (la capacità di restituire i crediti ricevuti da parte di un qualsiasi ente, pubblico o privato che sia) ha recentemente declassato il debito pubblico americano: non è una semplice, mera valutazione che campa per l’aere. L’implicazione prima è l’aumento degli oneri per il debito rimesso sul mercato. La Federal Reserve si trova così a dover ricollocare oltre duemila miliardi di buoni del tesoro entro l’anno e di fronte ad un rinnovo di oltre ottomila miliardi di titoli in scadenza.

Una bella botta, non c’è che dire. Anche i presidenti più autoritari devono, alla fine, fare i conti con la durissima realtà dei conti: cifre e lunghe file di zeri la fanno sempre da padroni. Sta di fatto che i poteri che Trump si è attribuito in materia di delega fiscale ed economica non possono essere, come pretenderebbe, illimitati. A questo proposito i giudici hanno scritto nella loro sentenza: «Una delega illimitata di autorità tariffaria da parte del Congresso al Presidente costituirebbe un’abdicazione impropria del potere legislativo a un altro ramo del governo». L’inquilino della Casa Bianca rivendica tutte le sue azioni e si fa beffe dei magistrati economici.

Il suo consigliere per il commercio, Peter Navarro arriva ad affermare che l’amministrazione Trump risponderà con forza e che «troverà il modo di imporre i dazi anche se dovesse perdere la battaglia legale». La via verso l’abbraccio mortale con l’unilateralismo, e la conseguente negazione del multipolarismo e del multilateralismo globale, è tracciata e il governo non intende deflettere da questa posizione intransigente che, a partire dalla sovversiva campagna elettorale fatta di attacchi spropositati alle istituzioni democratiche e ai rapporti tra i poteri della repubblica statunitense, si è andata irrobustendo col sostegno più che altro politico.

Qualche crepa in seno ai sostenitori economici, le grandi multinazionali e mega miliardari presenti all’incoronazione di Trump, inizia a mostrarsi: lo stesso Elon Musk si dichiara insoddisfatto dei passi compiuti dall’amministrazione MAGA e, conscio anche delle pesanti flessioni sui mercati per le sue aziende (Tesla prima fra tutte), annuncia che abbandonerà il suo incarico al “DOGE” (il “Dipartimento per l’efficienza del governo degli Stati Uniti d’America“). Difficile poter avere una chiara prospettiva su come si muoverà la Casa Bianca nelle prossime settimane: questa è una amministrazione che ci ha abituato a repentini cambi di rotta e in tempi oltretutto molto stretti. L’unica cosa che si può tentare è una valutazione sulla base dei dati che abbiamo.

Sembra però che sia l’incertezza la cifra dominante della navigazione a vista del trumpismo, il cui carattere indiscutibile è l’approssimazione, il tentativo, “o la va o la spacca” o, più consonamente, il meno impegantivo “chissà se va…“. L’economia americana, nel suo complesso, risente soprattutto nelle fasce più deboli di una popolazione che comincia a perdere fiducia nelle capacità messianiche del presidentissimo. I consumatori appaiono sempre più cauti e le imprese arrancano sul fronte degli investimenti. Si tratta di un rallentamento che produrrà i suoi effetti anche in breve termine e che si riverserà sullo scenario globale.

Gli Stati Uniti fanno il 25% del prodotto interno lordo mondiale e, dunque, impossibile pensare, soprattutto nella fase attuale dello sviluppo multipolare, che la crisi probabile dell’economia interna americana non abbia ripercussioni sul resto del pianeta. Non c’è, però, a parte l'”anarco-capitalismo” di Milei in Argentina, un effetto emulazione: le grandi potenze non sembrano voler seguire l’esempio di Trump sul fronte protezionistico. L’Europa, dal canto suo, si situa su una posizione attendista: le dichiarazioni Ursula von der Leyen lo attestano e lo confermano. L’Euro come divisa commerciale attrattiva, come alternativa al dollaro? Una ambizione liberista che promette niente di buono: soprattutto se non si dimentica l’attuale corsa al riarmo da parte della UE.

Questa Europa, poi, è un coagulo di mercati e non ha un vero e proprio “mercato unico“: le spinte delle singole nazioni vanno in direzione a volte nettamente opposte. Per verificare questa asserzione basta mettere a confronto gli interessi dell’Ungheria con quelli della Francia o della Spagna. L’Italia è un caso a parte: banderuola sovranista che un po’ guarda ad ovest e un po’ guarda ad est. Ma nel pieno rispetto della missione atlantica, del sostegno alle guerre dalla parte dell’imperialismo NATO e di quello israeliano che compie un vero e proprio genocidio, una pulizia etnica in quel di Gaza.

La sintesi di queste righe può essere questa: questo pseudo-patriottismo fa più danni al proprio paese rispetto ai nemici esterni. Li fa perché, quando si traveste da nazionalismo ottuso e imperterrito, non vede niente altro se non un interesse iperidentitario che scivola dall’affermazione di enunciazioni dogmaticamente autoritarie che vorrebbero prescindere dalla globalizzazione pur sfruttandola al suo massimo. Trump fa e dovrà fare i conti con le contraddizioni di un capitalismo che, alla fine, piegherà i suoi bollenti spiriti autoritari se questi entreranno in conflitto con la tenuta minima del sistema economico multilaterale ma comunque planetario.

Per ora il presidentissimo fa del male al suo paese e questa condizione di presumibile prossima recessione non sarà certamente di vantaggio per un Occidente che continua, nonostante tutto, a mostrarsi condiscendente verso un’America che è cambiata radicalmente, ma di cui non si sa la durata di questo regressivo mutamento.

MARCO SFERINI

30 maggio 2025

foto: screenshot ed elaborazione propria

categorie
Marco Sferini

altri articoli