Qual è la linea rossa di Israele? Qual è quella dell’Iran? A giudicare dall’attacco di stanotte non se ne intravede proprio una: soprattutto da parte dello Stato ebraico. I limiti della Repubblica islamica sono presunti ma anche evidenti: non ha ancora sviluppato il programma nucleare e può risponde agli attacchi di Tel Aviv con lanci di droni che sono facilmente intercettabili dai radar delle basi statunitensi presenti in Giordania, nonché dalla difesa aerea israeliana.
Quindi Netanyahu può fare smargiassatamente il gradasso in televisione, annunciare che l’operazione “Rising lion” ha assolto ai suoi primi obiettivi e che continuerà per giorni. Duecento caccia si sono alzati in volo per colpire otto città iraniane, tra cui anche Teheran. Sono stati uccisi sei scienziati che collaboravano al programma nucleare di arricchimento dell’uranio e sono state praticamente decapitati i vertici delle forze armate. Nell’attacco ha trovato la morte anche un consigliere politico della Guida Suprema Alì Khamenei.
Un avvertimento chiaro da parte di Israele: possiamo colpire ovunque e chiunque. Anche i vertici iraniani. Anche gli ayatollah in persona. A cosa stiamo assistendo? Alla tanto paventata “escalation” della guerra in Medio Oriente? In realtà se non è una esponenzializzazione delle cruenze la stessa genocidiaria guerra di Gaza, difficile poter dire cosa possa definirsi “escalation” oggi in quella regione infuocata. Bisogna anche intendersi sui termini: tralasciando i comunicati ufficiali di Israele, che parlano militarmente di “operazione difensiva“, come traduciamo in parole ciò che è avvenuto nella notte di oggi, 13 giugno 2025?
Un attacco militare, senza ombra di dubbio. Ma è l’inizio di una nuova guerra, di un nuovo fronte che si apre tra Tel Aviv e Teheran? Nei mesi scorsi, dopo gli omicidi mirati dei leaders di Hamas, anche in territorio iraniano, si era supposto che tutto questo potesse concretizzarsi. Ma non è stato così. Alle dure minacce di Khamenei, poi, alla fine non seguono i fatti: i lanci di centinaia di droni verso Israele sono più che altro azioni di rappresaglie fittizie, dimostrative di una potenza che l’Iran o non ha o finge di non avere. Differente sarebbe se i caccia della Repubblica islamica si alzassero in volo.
Le potenzialità per attacchi ben diversi, a quanto dicono gli studiosi di politica internazionale, vi sono tutte. Ma l’arma fino ad ora fatta prevalere è stata quella della reazione entro certi limiti, come espressione di un concetto di deterrenza per evitare che gli attacchi in territorio iraniano si facessero più cruenti e il regime potesse perdere un consenso che è già traballato parecchie volte… I caccia si potrebbero alzare in volo, dunque. Ma questo non avviene. E speriamo non avvenga mai.
Anche se, dopo il brutale attacco israeliano, che mette in pericolo anche i siti nucleari, che uccide una decina di persone e ne ferisce una cinquantina, colpendo pure edifici civili, il tono delle dichiarazioni si è fatto molto più duro rispetto ai mesi scorsi. In un comunicato mattutino, le forze armate iraniane così si esprimono: «Ora che il regime terroristico che occupa Al-Quds ha oltrepassato ogni linea rossa, non vi sono limiti nella risposta a questo crimine». Già, la “linea rossa“. Ognuno può affermare che l’altro, il nemico l’ha passata.
L’obiettivo di Netanyahu è chiaro: fare in modo che il programma nucleare iraniano si fermi e che, a poche ore dalle trattative che si sarebbero dovute tenere in Oman tra gli Stati Uniti d’America e i paesi del Golfo (Iran compreso, naturalmente), questo stop venga da un’azione di forza piuttosto che da un’azione diplomatica. Un conto è la promessa firmata a tavolino di non proseguire nella realizzazione dell’atomica iraniana; un altro conto è radere al suolo i punti streategici in cui tutto ciò avviene e uccidere anche le persone che vi lavorano.
Sempre a proposito di terminologie, come vogliamo chiamare questi omicidi e distruzioni mirate? Israele la chiama difesa, il cancelliere tedesco Merz si esprime in eguale maniera, mentre Cina, Turchia, Russia e paesi in aperta contesa con il frammentato Occidente sono – per usare un eufemismo – piuttosto critici. Potremmo o no dire che si tratta di un vero e proprio atto terroristico e che Israele assume così i connotati di uno Stato canaglia? Se l’operazione “Rising lion” fosse stata di matrice iraniana, magari verso uno storico paese avversario (come l’Arabia Saudita), cosa avremmo detto e scritto?
Che Teheran si comportava terroristicamente. Ma invece per Israele, da questa parte del mondo, vale tutto, proprio tutto. Può fare qualunque cosa e viene al massimo solo rimproverato simpaticamente dai governi amici: pazienza se la Corte Penale Internazionale dichiara Netanyahu e i suoi ministri dei criminali di guerra, dei criminali contro l’umanità. Pazienza se a Gaza sono morti più di ventimila bambini, ne sono stati feriti altrettanti e non c’è nemmeno più una briciola di pane. Noi discutiamo se preferire il termine “pulizia etnica” a “genocidio“, per rispetto della storia tremenda del Novecento che ha visto l’Olocausto del popolo ebraico.
Quella immensa tragedia, consumatasi ad opera del nazismo hitleriano, non può essere evocata ogni volta che Israele commette un crimine per affermare che lo stesso ha il diritto di difendersi. Sappiamo tutti – o almeno dovremmo saperlo – che lo Stato ebraico ed Hamas combattono un conflitto che molti commentatori illustri, esperti e di differenti parti (sia israeliani sia palestinesi, sia occidentali sia orientali) hanno definito come “asimmetrico“, privo di una idea di pace che stia alla fine del lungo, infinito sterminio del popolo palestinese.
Ma che cosa dà il diritto ad Israele di essere sicuro nei suoi labili confini a scapito dell’esistenza di un’intera popolazione vicina? Come può pensare il governo Netanyahu di avere nel futuro una stabilità regionale dopo tutto quello che ha fatto e sta facendo a Gaza, in Cisgiordania con la brutale colonizzazione, nel sud del Libano, in Siria e, ora (ma non da ora soltanto), contro l’Iran? Questi scontri, ma soprattutto quello a Gaza sono senza uno sbocco reale, perché puntano all’annientamento reciproco e diventano quindi guerre “esistenziali“.
L’attacco all’Iran è, con tutta probabilità, la reazione al timore di Israele riguardo la dotazione della bomba atomica: un obiettivo che, proprio nel più grande sito di produzione dell’uranio impoverito, la centrale di Natanz (a 250 chilometri a sud di Teheran), poteva essere a buon punto. Il che non sarebbe stata certamente una buona notizia per chi ama (come chi scrive) il disarmo, la denuclearizzazione e l’ammorbidimento delle tensioni internazionali. Il punto è però sempre uno: chi decide che uno Stato non possa avere la sua deterrenza se altri la hanno e la impongono a suon di attacchi aerei?
La contesa mondiale si rivela qui in tutto il suo orrorifico risvolto: gli imperi moderni si combattono e lo fanno in mille modi. Con i dazi commerciali, con favori ai propri amici, con sanzioni di vario tipo, con i servizi segreti, con gli investimenti borsistici e, naturalmente, con le guerre vere e proprie. Fa un po’ amaramente sorridere la dichiarazione del segretario generale della NATO, Mark Rutte, che afferma, proprio in merito a questa nuova crisi tra Israele e Iran, che non c’è alcun pericolo per una Terza guerra mondiale e per una guerra atomica.
Detto dal vertice dell’Alleanza atlantica, che è impegnata nell’altra tragedia, quella del fronte ucraino-russo, nell’espansionismo ad Est, uno dei motivi per cui Putin ha invaso il territorio di Kiev, obiettivamente fa quanto meno storcere il naso, aggrottare i sopraccigli e cadere le spalle (per non dire di peggio). I due contendenti mediorientali potrebbero essere entrambi in possesso dell’arma nucleare. Non lo si sa ufficialmente. Israele non ha mai negato né affermato di possedere la bomba atomica. L’Iran, dal canto suo, ha implementato il suo progetto di arricchimento dell’uranio per scopi militari.
Secondo “Institute for Science and International security” Teheran sarebbe in grado di sviluppare armi nucleari. Secondo altri invece sarebbe ancora lontana da questa soglia di non ritorno verso una nuovo, preoccupante tassello di aggiunta alla già enorme insicurezza globale. Al netto di tutto questo, il problema riguarda anche la complessità delle relazioni internazionali e, in special modo, di un diritto altrettanto tale che è ormai sempre più carta straccia o irrilevanza verso cui un po’ tutti fanno spallucce. Israele se ne frega apertamente. Altri fanno almeno finta di essere ancora parte dell’ONU.
Fregiandosi del titolo di “democrazie liberali“, gli Stati del nostro Occidente si autorizzano ad esportare qualunque tipo di etica, di sviluppo, di economia, di volontà politica e militare: la narrazione che viene fatta qui nella vecchia Europa è, nella maggior parte dei casi, vincolata alla dualità tra paesi dalla parte della ragione (a prescindere), quindi l’antico asse atlantico tra Washington e Bruxelles, e paesi invece sempre e comunque dalla parte del torto: perché autocrazie, tirannie, teocrazie. Cosa che sono. Ma questo non fa delle nostre nazioni delle campioni di civiltà e di insegnamento della stessa al mondo intero.
Il vecchio istinto coloniale e imperialista è duro a morire e, anzi, proprio nell’epoca del multipolarismo e della fragilità unipolare statunitense, emerge con ancora più prepotenza. Nessuna simpatia, quindi, per il regime dittatoriale degli ayatollah. Ma nessuna tolleranza nemmeno per i crimini israeliani: sempre crimini sono. Se una democrazia passa dall’essere tale all’essere uno Stato che non rispetta i diritti umani, che si impone sempre e soltanto con la forza, dobbiamo essere in grado di riconoscere questa mutazione genetica.
Le ricadute politiche e geopolitiche, figlie del 7 ottobre 2023, si fanno sentire anche in questi termini: Israele non ha chiuso uno che sia uno dei fronti di guerra aperti. Seppure fiaccati, i suoi avversari e nemici sono vivi e non sono stati eliminati, sebbene Netanyahu non abbia fatto altri, insieme a Gantz e all’estrema destra religiosa, se non propagandare come obiettivo finale l’eliminazione di Hamas e di ogni altra minaccia per Israele. I nemici si sono moltiplicati e lo Stato ebraico è molto al di qual dalla linea di sicurezza su cui pretenderebbe di assestarsi.
Se la si osserva più da vicino, ogni guerra tra Israele e i paesi arabi è sempre e soltanto stata una guerra per la vita. A partire di primi anni di insediamento degli ebrei fuggiti dall’orrore nazista e rifugiatisi in Palestina. I paesi arabi tentarono di spazzare via quella che definivano (come ancora oggi fanno gli iraniani khameinisti) l'”entità sionista“. E fino ad un certo punto di quella storia, Israele sembrava stare dalla parte giusta della Storia: perché realmente si difendeva.
Ma poi è divenuto la basa militare e politica americana nel Medio Oriente e ha assunto i connotati di tutt’altro rispetto al paese dei kibbutz e del socialismo democratico. La storia di Israele è, dunque, segnata – come quella di molti altri Stati – dall’espansionismo coloniale, dall’imperialismo: una spinta irrefrenabile che si è andata caratterizzando sempre più con connotati fideistici e iper-religiosi. Così lo scontro è stato fatto divenire uno scontro etnico-culturale, pur avendo nella sua popolazione una considerevole fetta di arabo-israeliani.
Forse l’Iran è anche in grado di colpire Israele duramente e, probabilmente, fino ad ora ha perseguito una politica deterrente, come si faceva cenno all’inizio di queste righe. Non mancano a Teheran i mezzi per farlo, ma a quel punto, la guerra sarebbe un dato di fatto e si andrebbe oltre il punto e il contrappunto, l’attacco e la rappresaglia. Israele ha però questa notte fatto un salto ulteriore di qualità in questo senso. Nelle rappresaglie seguite alle sortite di Gerusalemme contro l’ambasciata iraniana di Damasco, Teheran aveva avvisato dell’invio dei droni verso il Giordano.
Oggi potrebbe non farlo, come potrebbe impiegare la sua aviazione per attacchi diretti, per ingaggiare quindi una lotta nei cieli con l’Heyl Ha’Avir (l’aviazione israeliana). In quel caso, dichiarata o non dichiarata, la guerra sarebbe un fatto oggettivo, non più interpretabile con un balletto di termini su cui dissertare nei dibattiti televisivi. Pur vero è che la stessa sicurezza dei cieli dello Stato ebraico è affidata alle tecnologie americane e che, già con l’operazione “True Promise” erano parsi evidenti tutti i limiti della sua deterrenza.
Teheran non ha mai impiegato i suoi nuovissimi droni a lungo raggio (gli “Shahed-149“) così come i missili a combustibile liquido o quelli ipersonici “Fattah“. Le difese israeliane non hanno mai potuto quindi testare una reazione a questi armamenti, perché gli ayatollah intendono tenerli come armi da utilizzare solo in caso di guerra totale. La minaccia è e rimane seria. Forse Israele sottovaluta le potenzialità della Repubblica islamica. Forse no.
Ma di certo il risultato fino ad ora conseguito è una sempre più grande instabilità regionale, un trascinare il mondo verso quella Terza guerra mondiale che Mark Rutte fa finta di non vedere…
MARCO SFERINI
13 giugno 2025
foto: screenshot ed elaborazione propria