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Marco Sferini

Il grimaldello storico e il revisionismo del dramma palestinese

Ogni argomentazione a sostegno del diritto di Israele di esistere, di rappresentare lo Stato della nazione ebraica (e non solo) dovrebbe essere, al pari di quelle nei confronti dei palestinese e del loro speculare diritto, fondata su elementi storici comprovati, incontestabili e, per questo, non interpretabili o piegabili alla propaganda politica piuttosto spicciola da studio televisivo in cui le voci si sovrappongono per tentare di avere uno più ragione dell’altro e farsi ascoltare dai potenziali elettori di turno.

Ma si sa, nei periodi in cui prevale la conflittualità armata e, quindi, la guerra la fa da padrona come prosecutrice degli interessi del sistema capitalistico, la verità – ci ha insegnato più di un esponente propriamente politico ma non di meno anche intellettuale – è la primissima vittima, avvolta da “cortine di bugie” che sono sinergiche allo sforzo bellico e che lo sostengono nei suoi più efferati risvolti.

Per cui lo spazio dedicato alla riflessione storica e alla collocazione del presente entro l’alveo più ampio del fiume del passato diviene sempre meno una esigenza rivolta alla comprensione compiuta dei fatti. Esiste, quindi, una partigianeria politica che rischia di terminare la sua corsa negli opposti estremismi di chi ritiene che si possa risolvere la questione più sanguinosa del Medio Oriente con soluzioni drastiche: cancellare Israele e gli israeliani da un lato, cancellare la Palestina e i palestinesi dall’altro.

Non di meno l’elemento religioso fa qualcosa di più del capolino in tutta questa orrorifica e cruentissima vicenda quasi secolare: la destra fanaticamente suprematista associata al Likud di Benjamin Netanyahu, quella per intenderci che fa capo a Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich, soffia sul fuoco dell’accanimento contro il popolo palestinese al pari di come Hamas soffiava sul fuoco di quello contro israeliano e dell’ebraismo come nemico globale dell’umanità.

Se si vuole comprendere la grande tragedia di questi ultimi anni, andando ad indagare le motivazioni per cui è stato possibile l’attacco del 7 ottobre ai kibbutz e ai giovani che festeggiavano in un rave party nel deserto attorno a Gaza, non si può prescindere dagli accadimenti immediatamente precedenti e del contesto storico. Qui occorre precisare, a costo di farsi accusare di excusatio non petita, che nessun fatto meno attuale e nessun fatto più addietro nel tempo sono, se richiamati, una sorta di tentativo di alibizzazione del presente.

Sembra, infatti che, nel momento in cui ci si rifà al metodo storico per comprendere gli effetti odierni di cause che sono, ovviamente, loro antecedenti, si incappi nel delitto di un revisionismo attualistico che intende quindi giustificare il terrorismo di Hamas, mentre Israele non avrebbe alcuna responsabilità nella fittissima concatenazione di punti e contrappunti, di atti e contro-atti che si sono susseguiti durante decenni di fronteggiamenti reciproci e di relazioni internazionali che non sono proprio del tutto estranee al tema di cui in questione.

Prendiamo, appunto, il 7 ottobre 2023. Qual’è il contesto in cui si svolge quell’azione terroristica che porta al trucidamento di 1.400 cittadini israeliani, civili innocenti in tutto e per tutto? Dopo aver aumentato a dismisura la colonizzazione della Cisgiordania, con quasi 70omila presenze, il governo di Netanyahu cerca così di rispondere all’aumento di una natalità palestinese che, qualora si pensasse all’inglobamento e all’annessione della West Bank nello Stato ebraico, creerebbe a Tel Aviv il problema dell’alto tasso demografico in relazione, per esempio, al diritto di voto.

Annettere in quel momento la Cisgiordania vorrebbe dire fare dei suoi abitanti dei cittadini e, quindi, dare vita ad un corpo elettorale molto diverso da quello in allora considerabile entro i confini israeliani. Si rischierebbe una maggioranza palestinese in molti centri abitati, persino in intere province. Ciò creerebbe una destabilizzazione politico-parlamentare non da poco. Dal 1993 al 2023 il numero dei coloni israeliani è aumentato di sette volte: si è passati da 110mila a, come si scriveva poco sopra, la cifra di 700mila presenze.

Questa colonizzazione, oltretutto, ha riguardato – nemmeno a dirlo… – le terre più fertili della West Bank e buona parte di Gerusalemme Est. L’idea olmertiana, contenuta nella proposta rifiutata da Abu Mazen, di dividere la città santa per le tre religioni monoteistiche in due settori (ovest ed est) e farne due capitali per i due Stati di Israele e di Palestina, nel 2023 è un retaggio di un passato che nessuno nel governo di Netanyahu vuole riesumare. I coloni depredano tutto quello che trovano: occupano case aggredendo le famiglie palestinesi che le abitavano, le cacciano col sostegno delle truppe paramilitari e, spesso, dell’esercito israeliano.

Si appropriano delle risorse idriche e fanno, in pratica, terra bruciata, veramente arsa dal sole, intorno a ciò che rimane delle comunità di cisgiordani che d’un tratto diventano straniere nella loro nazione mai veramente nata come Stato, come patria, come luogo in cui avere una propria esistenza per quanto possibile libera, autonoma ed indipendente. Il contesto in cui matura il 7 ottobre è anche questo. Non solo, ma anche questo. Esiste poi la questione, richiamata da molti analisti, su come sia stato possibile per Hamas sfuggire alle intercettazioni israeliane, preparare l’operazione “Alluvione Al-Aqsa” in una sorprendente tranquillità.

Provando a non farsi coinvolgere nelle teorie complottiste, salvo future comprovazioni che sono affidate alla meticolosa ricerca storica, c’è da rilevare che uno dei motivi potrebbe essere stata la sottovalutazione proprio di Netanyahu riguardo le capacità dell’organizzazione terroristica jihadista, aiutata da una politica di concentramento delle risorse militari e di spionaggio più verso la Cisgiordania rispetto a Gaza. Non è un mistero che, in quel 2023, la Striscia non sembra essere un problema dirimente. Mentre la West Bank sì: è un boccone ghiotto e la destra oltranzista lo vuole.

Il sogno del “Grande Israele” torna e ritorna, Netanyahu è in una situazione precaria, indebolito dalle inchieste di corruzione, necessitante dell’ininterrompibile accordo di governo con Smotrich e Ben-Gvir che rappresentano ben poco in percentuale e in voti ma che, come capita spesso, sono la stampella dell’esecutivo. Ciò non toglie che la condivisione dei piani contro la popolazione palestinese, contro la stessa idea di “Palestina” come “Stato“, come nazione, sia stata unanime (o quasi) nel governo di Bibi e dei suoi accoliti. Il 7 ottobre, dunque, è così contestualizzabile e lascia aperte, ovviamente, molte domande.

Domande che riguardano la parte israeliana, domande che riguardano Hamas: un attacco di quel genere era prevedibile che avrebbe dato tutte le ragioni  in primis ed i pretesti poi per spianare Gaza, per farne un immenso cimitero. Perché l’organizzazione jihadista che governa la Striscia incappa in questo terribile rischio? Qualcuno induce Hamas a muoversi in questa direzione, oppure è una decisione presa in solitaria e, magari, anche in contrasto con una parte del mondo arabo che le è vicino politicamente e anche religiosamente?

Dopo due anni nessuno può affermare di avere una risposta certa in questo senso. Quel 7 ottobre 2023 sono 2.500 i terroristi che sfondano le il confine recintato della prigione a cielo aperto imposta da Israele. Lo fanno con mezzi che un esercito come quello dello Stato ebraico potrebbe fermare se non in un secondo, sicuramente in men che non si dica: camioncini, moto, furgoni, e degli improbabili deltaplani e parapendii guidati da motori enormi e molto appariscenti. Si fanno beffe dei servizi segreti tra i più potenti e informati del mondo. Non ci sono nemmeno truppe capaci di respingere l’assalto ai kibbutz.

Così la carneficina è possibile e la proclamazione dello stato di guerra anche. Netanyahu ritrova le condizioni possibili per salvarsi ancora una volta dalle questione giudiziarie e da un declino politico certo. Se inserito nel contesto storico-attualistico, il massacro di Gaza assume una connotazione differente rispetto alla narrazione dell’evento singolarissimo. Purtroppo, come eccidio, pulizia etnica e, per le metodologie praticate che prescindono dal dato numerico delle vittime in sé, come pratica genocidiaria, di accanimento e di sterminio di una comunità, di un popolo, rientra nella Storia ottantennale di Israele.

Una storia che somiglia sempre di più a quella dell’origine nazionale degli Stati Uniti d’America: colonialismo, repressione, confinamento dei nativi (sbrigativamente definiti “indiani“) col fine qui sì di operare una “sostituzione etnica“. Gli esponenti del MAGA che tuonano contro l’immigrazione dal confine meridionale col Messico, sono i figli dei figli dei figli di quei migranti che sono arrivati da molte parti d’Europa per invadere un il Nuovo Mondo, farne una terra di conquista e di espansione economica.

Le ragioni storiche all’origine di queste due colonizzazioni sono, ovviamente, molto diverse fra loro. Gli ebrei sono stati cacciati dalla Palestina dall’imperatore Tito nel 70 d.C. e hanno vissuto nella Diaspora per diciotto secoli. Gli americani sono degli inglesi e degli irlandesi che si sono appropriati di una terra che non era mai stata un luogo natio e su cui non possono rivendicare neppure la predestinazione divina così come narrata dalle cosiddette “sacre scritture“.

Il tentativo di decontestualizzazione storica non fa solo male alla Storia stessa, ma ad una comprensione piena di quanto è avvenuto in questi ultimissimi anni. Se questa operazione è fatta dai governi, ha una sua logica politica: biasimabile e criticabile, ma la ha. Rientra nel cinico gioco delle parti in causa. Se, invece, è anche sostenuta da ambienti culturali che dovrebbero fare del punto storico uno degli elementi fondanti la verità oggettiva data dalla concatenazione dei fatti, allora è possibile riscontrare un altro tentativo più subdolo: quello della propaganda gratuita di intellettuali che adoperano la Storia ad uso e consumo di una parte.

Non è una novità, si intende. Da sempre l’interpretazione fa parte della dialettica storiografica su passaggi epocali, su linee di separazione di un continuum temporale che delimitano soltanto i crinali di transito da un sistema ad un altro: economico e strutturale, statale e sovrastrutturale. Ma se si vuole veramente avere chiaro il prodotto delle cause, ossia gli eventi, bisogna anche fare luce su tutte le premesse che hanno condotto all’oggi. L’odierna coevità non è un qualcosa di separabile dal recente passato e, tanto meno, dal flusso ininterrotto della Storia.

Il governo di Netanyahu esige dall’oggi una cancellazione del passato palestinese e un imprimatur unico per la Storia del popolo ebraico e quella, senza soluzione di continuità, della fondazione dello Stato di Israele. La Palestina di due e più millenni fa non ha niente a che vedere con quella moderna, così come l’Italia romana non ha niente a che vedere con l’Italia di oggi. Le tracce imponenti dei monumenti almeno qui da noi si vedono e si toccano con mano. Ma della magnificenza dei regni di David e Salomone cosa resta?

Geologicamente parlando, nulla di nulla a parte un pezzo del muro che si afferma essere stato del vecchio secondo Tempio di Gerusalemme distrutto dalla furia dell’Impero dell’Urbe. Ogni altra presenza del passato è il frutto delle conquiste che, appunto da Roma in avanti, hanno segnato la Storia della Palestina. Se il diritto di un popolo che vive nel 2025 è dato da una storia mitologico-religiosa, allora chiunque può rivendicare antefatti di ogni tipo per esigere da altre nazioni questa o quella terra. Non ne usciremmo mai, tanto meno con le guerre.

Il fanatismo del triumvirato mortifero del governo israeliano non farà altro che alimentare l’odio per generazioni: il danno prodotto da questo esecutivo di criminali è ad oggi davvero incalcolabile sul piano del risvolto socio-antropologico. Solo a riguardo dei contraccolpi psicologici vi sarebbe già molto da dire e scrivere. Intere famiglie sono state sterminate e il desiderio di vendetta alimenterà inevitabilmente la politica dell’area mediorientale e dei palestinesi per molto, troppo tempo.

Per uscire da questa spirale di morte e distruzione serve un compromesso che né Netanyahu né Hamas possono raggiungere. Uno è destinato ad annientare l’altro o, almeno, a ridimensionarlo fortemente. Hamas, quanto a questo, è sulla buona strada. Ma la vera pace sarà possibile soltanto quando si aprirà un’era in cui cambierà la rispettiva percezione tra i due popolo. Sul piano culturale, sociale, civile e morale. Per fare ciò dovranno mutare i rapporti di forza economici e politici.

Chi sopravviverà, vedrà…

MARCO SFERINI

19 settembre 2025

foto: screenshot ed elaborazione propria

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