Connect with us

Hi, what are you looking for?

Marco Sferini

Il grande timore di Israele: Barghouti libero, la Palestina libera

D’accordo, il mondo può non essere quello che vorremmo in tutto e per tutto, ma ognuno di noi dovrebbe avere una soglia minima di speranza che, per lo meno, ci si possa avvicinare ad una comune condivisione delle aspettative che riguardano, fondamentalmente, una vita senza preoccupazioni che non siano altre se non quelle che la natura ci impone; sopraffazioni degli uni verso gli altri; ingiustizie sociali, civili, morali. Questa soglia minima di speranza noi occidentali possiamo affermare, in un certo qual modo, di averla, di ricercarla partendo da una sempre precaria rendita passata.

Ma i palestinesi e tutti gli altri popoli che hanno visto vivere intere generazioni dentro la guerra, la più grande delle atrocità che si possa commettere entro la specie umana e al di fuori anche di essa, non sanno cosa voglia dire avere una speranza. Ogni tentativo di darsi un’esistenza autonoma, libera da costrizioni, da imposizioni, da repressioni israeliane e da condizionamenti interessati anche dei vicini paesi arabi, è stato, dall’inizio del Novecento in avanti, soffocato con mille pretesti e, va detto, anche a causa di gravi errori commessi dalle dirigenze delle organizzazioni che avevano come scopo la liberazione della Palestina.

Ma oggi il tema della ripresa di una lotta laica in questa direzione sembra doversi affidare ad una rivisitazione dei tempi dei protettorati e delle amministrazioni straniere: non bastava Israele a farla da padrone in Cisgiordania e a Gaza. L’idea contenuta nel piano di Donald Trump prevede una cabina di regia internazionale che, guarda caso, sarebbe presideduta dal magnate-presidente e da Tony Blair, già premier britannico tutt’altro che benvoluto nell’area mediorientale. Si aggiungerebbero poi rappresentanti dei paesi arabi benvoluti nel contesto israeliano, ma un vero protagonismo del popolo palestinese non è previsto attraverso dei suoi rappresentanti riconosciuti in quanto tali.

Non basta il pretesto del voler fare la pace con Hamas per escludere la logora Autorità Nazionale Palestinese da questo concerto di posizioni. Chi dovrebbe sedere in quella cabina di regia dovrebbe essere colui che è il simbolo della resistenza vera al sionismo, al colonialismo dello Stato ebraico, alla massima repressione carceraria: lo chiamano il “Mandela” della Palestina perché ha passato nelle prigioni di Israele ventitré anni… Marwan Barghouti non è un leader di Hamas, è vicino ad Al-Fatah e ha diretto una lotta resistenziale nella prima e nella seconda Intifada, operando niente meno e niente più di come appunto Nelson Mandela operava nel Sudafrica dell’apartheid.

Israele lo ha imprigionato condannandolo a cinque ergastoli. Nella società palestinese è considerato come colui che è rimasto al di fuori della corruzione che ha dilagato nell’ANP; un esponente di spicco che non ha ceduto a compromessi e che è rimasto fedele ai suoi princìpi giovanili, quando, appena quindicenne, venne arrestato per essersi unito a Fatah che era allora considerata illegale dallo Stato ebraico. Nessuno nega in Cisgiordania, ma nemmeno a Gaza, che se si tenessero delle elezioni presidenziali, Barghouti sarebbe eletto come capo di Stato (di uno Stato che ancora non c’è…) con una percentuale certamente vicina al plebiscito.

Proprio per questo Israele non intende scarcerarlo, perché sarebbe se non l’unico, certamente uno dei più forti sostenitori di una pace fondata sul riconoscimento del principio “due popoli, due Stati“; mentre la linea del governo di Netanyahu è ormai improntata all’inesistenza perpetua dello Stato di Palestina e alla sola presenza israeliana nella terra dal fiume al mare. Barghouti è una speranza di pace. E la sua notorietà tra il popolo non è diminuita, nonostante sia stato gettato nelle carceri dal 2002 con l’intento di escluderlo da tutto quello che riguardava la stretta attualità degli eventi, separandolo quindi dal suo corpo politico, da quello sociale e civile.

Durante il genocidio di Gaza, Itamar Ben-Gvir è andato a trovarlo in carcere per insultarlo, ridicolizzarlo e esporlo al pubblico ludibrio. Non ha fatto altro, invece, se non rafforzare il convincimento che di Barghouti la destra estrema israeliana ha una paura da novanta, perché un uomo come lui potrebbe portare le fazioni palestinesi a parlarsi, a smussare le divergenze e a limare quelle che sono le spigolosità che hanno impedito fino ad oggi, complice – nemmeno a dirlo – anche e soprattutto Israele (che ha finanziato Hamas contro l’ANP, ecc…), una vera unità tra cisgiordani e gazawi, tra i differenti partiti politici, tra le diverse anime di un popolo che oggi deve riunirsi attorno ad una nuova classe dirigente.

Trump, Netanyahu, Smotrich e Ben-Gvir faranno di tutto per evitare che questo possa avvenire. I loro piani per Gaza e per la Palestina sono tutt’altro. Nessuna indipendenza, nonostante sia scritto nel piano-tregua che si lascerà libere le parti di gestire le fasi di transizione verso quella “pace eterna” proclamata dall’enfasi trumpiana che, ormai abituati a conoscerla, non ha nessun rapporto con la decenza della realtà, dei rapporti veri di forza, della concretezza, ma si riduce a mera propaganda di fatto. Ripercorrendo la recente storia dell’ANP, soprattutto dalla morte di Yasser Arafat, il dibattito interno sul come e quando arrivare all’indipendenza palestinese ha diviso la vecchia dalla giovane guardia dell’OLP prima e dell’Autorità Nazionale poi.

Nel piano di Trump si pone la condizione del rinnovamento dell’ANP medesima come presupposto per una accettazione della nascita del futuro Stato di Palestina. Di questo rinnovamento Barghouti ha tentato di essere uno dei protagonisti con una frangia giovanile che non si opponeva, ma che che criticava certamente gli eredi di Arafat: per primo proprio Abu Mazen. Nel VI congresso di Al-Fatah, tenutosi nel 2009, le contrapposizioni riguardavano proprio il metodo della lotta e una considerazione oggettiva sull’opportunità di una “disobbedienze civile” su vastissima scala che sostituisse la lotta armata. Paradossalmente, smentendo l’assunto secondo cui sono i giovani ad essere quasi sempre più intransigenti, qui la radicalità fu abbracciata dalla vecchia dirigenza.

In quel fatidico congresso si arrivò, alla fine, ad un compromesso per cui la leadership di Abu Mazen venne salvata sulla scia di un continuismo giustificato anche dal fatto che Barghouti si trovava già allora da cinque anni nelle carceri israeliane e che, quindi, prioritaria era la conduzione di una grande campagna internazionale per la sua liberazione. Sono passati sedici anni da allora e il contesto è soltanto peggiorato, con una ANP in forte affanno, delegittimata anche presso il popolo palestinese che, nonostante la devastazione di Gaza, rischia di rimanere imbrigliato nelle maglie di un’ispirazione politica estremistico-religiosa e terroristica così lontana invece dall’impostazione barghoutiana.

Ecco perché Israele ha così tanto timore nel rilasciare l’ormai ultrasessantenne leader palestinese. Perché rappresenta l’esatto contrario della propaganda del sionismo nei confronti della lotta per l’indipendenza dello Stato e della società, di un popolo che si riconoscerebbe pienamente nel confronto aperto con il suo vicino israeliano a patto di avere la reciproca garanzia del pieno rispetto della propria vita, della propria dignità, della propria esistenza a tutto tondo. L’immagine di Barghouti come “uomo-ponte“, come mediatore capace di mettere da parte tutte le ingiustizie che gli sono state fatte nel nome del benessere del popolo, per giungere ad una pace vera, ad una indipendenza concreta e non solo proclamata, è una immagine tutt’ora reale.

L’autorevolezza che gli viene oggi, molto più di ieri, dalla sua detenzione ultraventennale, ne fa un punto di riferimento imprescindibile per qualunque processo di pace che si vorrà seriamente intraprendere nel cammino per la nascita dello Stato di Palestina accanto allo Stato di Israele. Barghouti è in grado oggi di rimettere in discussione un gruppo dirigente che ha fatto il suo tempo e che non ha più credibilità: né tra i palestinesi, né tra le forze politiche attive, né tra le milizie dell’Autorità Nazionale. Netanyahu sa bene che il suo rilascio vorrebbe dire aprire una partita molto diversa da quella scritta a quattro mani con Trump e ipocritamente accettata dopo settantamila morti, la distruzione totale di Gaza e l’occupazione militare.

La Palestina che voleva e che vuole Barghouti è uno Stato laico, plurale, democratico, fortemente rinnovato nella sua classe dirigente. Un progetto di rinnovamento anche sociale e culturale che faccia della nuova repubblica un esempio per tutto il Medio Oriente. Se intorno a questo progetto si riuscisse a federare la stragrande maggioranza delle forze politiche palestinesi e, quindi, del popolo, si porrebbero le basi per un’altra idea di convivenza nella regione e per differenti rapporti internazionali. Di sicuro il prigioniero delle carceri israeliane non ama la mitizzazione che gli è stata costruita intorno e cucita addosso. Ma era inevitabile. Come è accaduto per Mandela.

Lo disse l’allora ex primo ministro israeliano Ehud Barak che considerò l’arresto di Barghouti un clamoroso errore: «Lotterà per la leadership dall’interno della prigione, senza dover dimostrare nulla. Il mito crescerà costantemente da solo». Così infatti è stato. Fino ad oggi. Fino ad una nuova possibilità di vederlo finalmente libero: non compenserebbe sul momento il genocidio di Gaza, ma se portasse alla nascita della Palestina libera ed indipendente, avrebbe almeno un alto valore simbolico e concreto al tempo stesso. Mettere una volta per tutte fine alla secolare lotta, alle stragi, ai massacri, al terrorismo, alla paura e, soprattutto, alla voglia di vendetta che oggi cova negli animi dei sopravvissuti.

Oltre il mito del Mandela palestinese c’è un uomo che, se lasciato libero di agire, potrebbe fare molto per la pace e che, lui sì, meriterebbe a quel punto anche un riconoscimento internazionale, insieme ai bambini, alle donne e agli uomini di Gaza e della Cisgiordania. La Storia sarebbe giusta se vedesse Netanyahu alla sbarra e Barghouti alla presidenza del nuovo Stato di Palestina. Per ora è solo un sogno. Per renderlo realtà c’è ancora tanto da fare, tanto su cui impegnarsi e lottare. A cominciare dalla critica al finto piano di pace di Trump. Come hanno scritto i giovani che hanno invaso le piazza e le vie delle città in queste settimane: non abbassiamo lo sguardo. Tutti gli occhi sulla Palestina.

MARCO SFERINI

11 ottobre 2025

foto: screenshot ed elaborazione propria

Written By

SOTTO LA LENTE

Facebook

TELEGRAM

NAVIGA CON

ARCHIVIO

i più recenti

la biblioteca

Visite: 126 Non meno oggi rispetto ai tempi del regno di Lucio Domizio Enobarbo, altrimenti conosciuto con il nome di Nerone, imperatore romano che...

Analisi e tesi

Visite: 36 Ieri la consegna della laurea honoris causa. Un’occasione per riflettere sul senso del cinema nel tempo presente Una lezione magistrale fortemente politica...

Marco Sferini

Visite: 236 Festeggia con un cabaret di pasticcini, portandoli in giro per l’aula della Knesset. Itamar Ben-Gvir ha contribuito a far approvare una legge...

Siria e Libano

Visite: 82 Al Sharaa cerca protezione da Trump: apre ad una base Usa a sud di Damasco per garantirsi da Israele Il nuovo Medio...