Nell’estate del 1938, dopo la vittoria dell’Italia nel mondiale di calcio in Francia, dieci tra professori e assistenti universitari firmarono collettivamente, come “gruppo di studiosi fascisti, docenti nelle Università italiane”, un decalogo che venne presentato come “Manifesto degli scienziati razzisti”, poi noto semplicemente come il “Manifesto della razza”. A firmarlo furono: Arturo Donaggio, direttore della Clinica Neuropsichiatrica dell’Università di Bologna, presidente della Società Italiana di Psichiatria, Franco Savorgnan, professore ordinario di demografia all’Università di Roma, presidente dell’Istituto Centrale di Statistica, Edoardo Zavattari, direttore dell’Istituto di Zoologia dell’Università di Roma, Nicola Pende dell’Università di Roma, Sabato Visco, direttore dell’Istituto di Fisiologia Generale dell’Università di Roma, direttore dell’Istituto Nazionale di Biologia presso il Consiglio Nazionale delle Ricerche, Leone Franzi, assistente nella Clinica Pediatrica dell’Università di Milano, Lino Businco, assistente alla cattedra di patologia generale all’Università di Roma, Lidio Cipriani, professore incaricato di antropologia all’Università di Firenze, Guido Landra, assistente alla cattedra di antropologia all’Università di Roma, da molti ritenuto l’estensore materiale del testo, e Marcello Ricci, assistente alla cattedra di zoologia all’Università di Roma.

1. Il primo numero della rivista “La difesa della razza”
Il “Manifesto”, nato da un’operazione del Ministero della Cultura Popolare e modificato in prima persona da Benito Mussolini, venne pubblicato il 14 luglio del 1938 sulle pagine de “Il giornale d’Italia”, per poi essere ripreso con ancora maggior enfasi il successivo 5 agosto sul primo numero della rivista “La difesa della razza”. Il testo conteneva dieci imperativi categorici: le razze umane esistono, esistono grandi razze e piccole razze, il concetto di razza è concetto puramente biologico, la popolazione dell’Italia attuale è nella maggioranza ariana e la sua civiltà è ariana, è una leggenda l’apporto di masse ingenti di uomini in tempi storici, esiste ormai una pura “razza italiana”, è tempo che gli Italiani si proclamino francamente razzisti, è necessario fare una netta distinzione tra i mediterranei d’Europa (occidentali) da una parte, gli orientali e gli africani dall’altra, gli Ebrei non appartengono alla razza italiana (per poi aggiungere che rappresentano l’unica popolazione che non si è mai assimilata in Italia, perché essa è costituita da elementi razziali non europei, diversi in modo assoluto dagli elementi che hanno dato origine agli Italiani), i caratteri fisici e psicologici degli Italiani non devono essere alterati in nessun modo.
Questo agghiacciante decalogo divenne il supporto “scientifico” di Benito Mussolini che, dopo averle annunciate nel settembre nel 1938, a novembre promulgò le famigerate leggi razziali. A quelle vicende, tra le più buie della nostra storia, si ispirò il romanzo “Il giardino dei Finzi-Contini” di Giorgio Bassani che Vittorio De Sica portò sul grande schermo come Il giardino dei Finzi Contini.
GIORGIO BASSANI

2. Giorgio Bassani
Giorgio Bassani (Bologna, 4 marzo 1916 – Roma, 13 aprile 2000) crebbe a Ferrara. La sua famiglia faceva parte dell’antica e numerosa comunità ebraica della città che dopo l’unità d’Italia e la fine delle segregazione contava 1000 iscritti attivi nella vita civile e culturale. Molto attivi il padre Angelo Enrico Bassani (1885-1948), affermato ginecologo e presidente della SPAL, l’acronimo di Società Polisportiva Ars et Labor, la squadra di calcio di Ferrara, e la madre Dora Minerbi (1883-1987) musicista e figlia dello scienziato Cesare Minerbi. Giorgio Bassani aveva un fratello Paolo e una sorella Eugenia “Jenny” che si dedicherà, con meno fortuna rispetto al fratello maggiore, alla scrittura.
Giorgio Bassani si iscrisse all’Università di Bologna nel 1935, l’anno in cui iniziò ad allenare la squadra Árpád Weisz (Solt, 16 aprile 1896) che portò il Bologna a vincere due campionati consecutivi. Ma era un ebreo straniero e pertanto fu espulso. Dopo essersi rifugiato in Olanda, Weisz, tra i più innovativi e vincenti allenatori dell’epoca, venne portato ad Auschwitz dove morì il 31 gennaio 1944 (su questo rimando a “Dallo scudetto ad Auschwitz” di Matteo Marani).
Bassani riuscì, invece, a laurearsi poiché le leggi razziali, sopraggiunte nel 1938, consentivano inizialmente agli ebrei già iscritti all’università di completare gli studi, ma non di iscriversi. Tornato a Ferrara iniziò così a dare lezione proprio ai giovani ragazzi ebrei espulsi dalle scuole italiane. Sposò la causa antifascista e per questo passò diversi mesi in carcere.
Oltre all’insegnamento, che lo portò nel dopoguerra anche all’Accademia nazionale d’arte drammatica Silvio D’Amico a Roma, un’altra grande passione di Giorgio Bassani era il tennis (una sua considerazione è ripresa anche in “500 anni di tennis” dell’amico Gianni Clerici). Nella permanenza a Bologna aveva anche vinto i campionati regionali, ma la sua casa era il Club Tennistico Marfisa d’Este. In quel club, che ospitava la buona borghesia ferrarese, prima di essere espulso in quanto ebreo, sfidò e conobbe anche il futuro regista Michelangelo Antonioni.
E poi c’era la scrittura. Nella sua Ferrara Bassani scelse di ambientare la propria produzione letteraria iniziata già nel 1940. Un unico lungo racconto che culminò col “Il giardino dei Finzi-Contini”, romanzo pubblicato nel 1962 da Einaudi, che, attraverso un “io narrante”, segue la vita di una famiglia borghese nella Ferrara degli anni ’30 sconvolta dal Fascismo e dalle leggi razziali, non sottacendo sull’adesione di larga parte della comunità ebraica del tempo al regime.

3. Senso (1954) scritto da Giorgio Bassani e diretto da Luchino Visconti
Le pagine di Giorgio Bassani, spesso con il suo diretto contributo, erano già state portate sul grande schermo (I vinti, La lunga notte del ’43), lo stesso autore aveva curato diverse sceneggiature (su tutte Senso diretto da Luchino Visconti) e “Il giardino dei Finzi-Contini” non fece eccezione. Alcuni registi ipotizzarono di trasformare quelle parole in immagini, ma poi arrivò Vittorio De Sica.
DAL LIBRO AL FILM
Il regista, dopo aver insegnato cinema al mondo durante la stagione neorealista e aver fatto ridere e pensare con la commedia all’italiana, stava attraversando un momento di crisi. De Sica nutriva per questo il desiderio di tornare a realizzare un’opera compiutamente artistica. Il romanzo di Bassani fu l’occasione perfetta.
Per una delle poche volte dai tempi de I bambini ci guardano, non fu Cesare Zavattini a scrivere il film di De Sica, bensì Vittorio Bonicelli (San Valentino in Abruzzo Citeriore, 28 aprile 1919 – Roma, 26 luglio 1994) già attivo in produzioni internazionali quali The Bible: in the Beginning… (La Bibbia, 1966), regia di John Huston, e Ugo Pirro (Salerno, 26 aprile 1920 – Roma, 18 gennaio 2008), grande sceneggiatore che aveva appena scritto Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto poi diretto da Elio Petri.
Alla stesura contribuì anche lo stesso Giorgio Bassani, ma a causa di numerosi cambi rispetto al libro con particolare riferimento alle scene finali della deportazione e al ruolo in queste ultime del padre del protagonista, scelse di non firmare la sceneggiatura. Quasi a sottolinearlo il cognome della famiglia che passò dall’essere Finzi-Contini a Finzi Contini. Un trattino che marcò una differenza.
IL CAST

5. Vittorio De Sica
Non meno articolata la ricerca del cast. Per il ruolo del protagonista, l'”io narrante” del libro, De Sica scelse senza alcuna esitazione Lino Capolicchio (Merano, 21 agosto 1943 – Roma, 3 maggio 2022) che da Merano era giunto a Roma per studiare all’Accademia nazionale d’arte drammatica Silvio D’Amico che vantava come insegnante di Storia del teatro proprio Giorgio Bassani. Quindi riuscì ad affermarsi in breve tempo sia teatro grazie a Giorgio Strehler sia al cinema dove debuttò, benché non accreditato, diretto da Franco Zeffirelli in The Taming of the Shrew (La bisbetica domata, 1967) per poi ottenere ruoli da protagonista in Escalation (1967) di Roberto Faenza e in Metti, una sera a cena (1969) diretto da Giuseppe Patroni Griffi. Bello, colto, con un debole per le donne e una passione irrefrenabile per musica e arte.

6. Lino Capolicchio in Metti, una sera a cena (1969) di Giuseppe Patroni Griffi
Più complicata fu la scelta della protagonista. Vittorio De Sica ipotizzò la cantante Patty Pravo, poi fece un provino, il 13 febbraio 1970, all’allora semisconosciuta Laura Antonelli, infine puntò sull’attrice francese Dominique Sanda (Parigi, 11 marzo 1951), scoperta da Robert Bresson e cresciuta con Bernardo Bertolucci (Il conformista).
Nel ricco cast anche Romolo Valli, clamoroso attore teatrale e cinematografico, Barbara Pilavin già diretta da Lizzani, dai fratelli Taviani e da Maselli, Ettore Geri grande caratterista capace di passare con disinvoltura da Don Camillo a Milano Calibro 9, Raffaele Curi, che aveva studiato con Capolicchio all’Accademia nazionale d’arte drammatica Silvio D’Amico, alla prima esperienza cinematografica. Tra i giovani attori anche Gianpaolo Duregon, Marcella Gentile, Michael Berger e la piccola Erika Dario. Quindi Cinzia Bruno e il futuro regista Alessandro D’Alatri nei panni dei due protagonisti da adolescenti.
Il cast, inoltre, era arricchito da volti, anche questi scelti personalmente da De Sica, che andarono a completare la famiglia dei Finti Contini: Camillo Cesarei e Katina Morisani che erano due veri nobili e Inna Alexeievna una anziana signora russa che in fuga dall’Unione Sovietica aveva trovato una nuova vita in Italia recitando in Una vita difficile (1961) di Dino Risi, ne Il Gattopardo (1963) di Luchino Visconti e nel Fellini Satyricon (1969).

7. Helmut Berger ne La caduta degli dei (1969) di Luchino Visconti
E poi c’era Helmut Berger interprete austriaco scoperto e amato, personalmente e artisticamente, da Luchino Visconti, talmente bravo ne La caduta degli dei da far dire al connazionale Billy Wilder: “È curioso che il più grande attore italiano sia un austriaco”.
Secondo i diario di Lino Capolicchio poteva far parte de Il giardino dei Finzi Contini anche un altro grandissimo: Gianmaria Volonté. Cosa accadde non è certo, Capolicchio scrive di una incompatibilità tra loro, quel che è certo è che quel ruolo fu interpretato da Fabio Testi all’epoca noto per quelli che verranno ribattezzati “spaghetti western”.
Vittorio De Sica, perfezionista quale era, obbligò l’intero cast a prendere lezioni di tennis, gioco molto presente nel romanzo e nella vita di Giorgio Bassani. Ore e ore a provare dritto e rovescio, a rendere più naturale il servizio. L’unico che se la cavava era Fabio Testi. Lino Capolicchio, dal canto suo, oltre ad essere costretto a tagliare i capelli, per entrare maggiormente nella parte visitò con l’amico Enzo Barbarino sia il Campo di concentramento di Mauthausen “per recepire l’orrore” sia il ghetto di Praga.
Le riprese si svolsero dal maggio all’agosto del 1970 nella Villa Ada a Roma, nel campo di tennis di Villa Strohl-Fern sempre a Roma, nella villa Litta Bolognini di Vedano al Lambro in Brianza, che divenne la villa dei Finzi Contini, e, ovviamente, a Ferrara, nelle vie del centro, nel cimitero ebraico, attorno alle mura cittadine.
Dopo la fase di doppiaggio e quella di montaggio, curato da Adriana Novelli, Il giardino dei Finzi Contini era pronto per essere proiettato. De Sica fece vedere privatamente l’opera a Federico Fellini e Luchino Visconti. Quest’ultimo apprezzò moltissimo. Poi il 20 settembre 1970 si tenne a Roma l’anteprima nazionale. Quindi il film venne presentato in una prima mondiale a Gerusalemme. Presenti Vittorio De Sica e la moglie María Mercader, madre di Manuel e Christian nonché cugina di Ramón Mercader, l’assassino di Lev Trotsky, Dominique Sanda, Lino Capolicchio ed Helmut Berger, che avevano legato molto dentro e fuori dal set, la loro amica modella Marisa Berenson (che cinque anni dopo avrebbe recitato in Barry Lyndon di Stanley Kubrick) e Golda Meir quarto Primo ministro di Israele e prima donna al vertice del Paese. Era il 2 dicembre 1970.

8. Il giardino dei Finzi Contini (1970) di Vittorio De Sica
1938. A Ferrara in una villa circondata da un parco, vivono i Finzi Contini, agiata famiglia ebrea. Con l’espulsione dal circolo del tennis degli ebrei, il loro giardino (circondato da alte mura a rappresentare l’astrazione del mondo in cui vivevano molti ebrei alto borghesi e della loro sottovalutazione della realtà circostante) diventa la sede delle partite cui è invitato, tra gli altri, Giorgio (Lino Capolicchio), anch’egli ebreo, figlio di un commerciante (Romolo Valli) non ostile nei confronti del regime, innamorato non corrisposto fin dall’infanzia di Micol Finzi Contini (Dominique Sanda), figlia del professor Ermanno Finzi Contini (Camillo Cesarei) e della signora Olga (Katina Morisani), che, tuttavia, gli preferisce il chimico comunista Giampiero Malnate (Fabio Testi), amico del fratello Alberto Finzi Contini (Helmut Berger), nemmeno troppo segretamente omosessuale. Mentre Micol va a studiare a Venezia, Giorgio, cacciato anche dalla biblioteca, trova una volta di più ospitalità nella villa dei Finzi Contini. Passano gli anni e le leggi razziali sono sempre più violente. Ernesto (Raffaele Curi), fratello di Giorgio, emigra in Francia dove capisce il vero volto del Nazismo e del Fascismo, grazie anche alla testimonianza di uno studente tedesco (Michael Berger), mentre Giorgio, che è andato oltralpe per trovare il fratello, con preoccupazione della madre (Barbara Pilavin) e della sorellina (Erika Dario), dopo essersi reso conto del suo amore impossibile, lascia la città. Gli eventi precipitano. Malnate muore in guerra, Alberto nel suo letto dopo una lunga malattia. La vita per gli ebrei è sempre più dura. Nel 1943 iniziano le deportazioni. Gli ufficiali fascisti arrestano Gianpaolo Duregon (Bruno Lattes), un giovane frequentatore del giardino dei Finzi Contini, poi si recano nella villa dei Finzi Contini, presidiata, come sempre, dal maggiordomo Perotti (Ettore Geri), e arrestano Micol, il padre Ermanno, la madre Olga e la nonna Regina (Inna Alexeievna). Gli ebrei vengono ammassati nella scuola dove Micol aveva studiato. Lì la ragazza incontra il padre di Giorgio che la informa della fuga del figlio. L’unico a salvarsi.
Un viaggio attraverso la memoria. Un commovente sguardo all’indietro, anche personale (De Sica fu uno degli attori simbolo della stagione dei “Telefoni bianchi” negli anni de Fascismo), che piacque al pubblico, oltre un miliardo di lire di incasso, meno alla critica che rimproverò al regista proprio questo eccesso di sentimentalismo.

9. Helmut Berger e Fabio Testi in una scena del film
Indimenticabile, comunque, il clima di nostalgia e di tragedia scandito anche dalla musica di Manuel De Sica (ricordato anche da Giancarlo Magalli sulle nostre pagine), ed esaltato dall’elegante fotografia curata da Ennio Guarnieri.
Numerose, come spesso accade in una trasposizione cinematografica, le differenze col romanzo: dall’io narrante del protagonista al finale con il rastrellamento dei Finzi Contini e l’incontro di Micol col padre di Giorgio (elemento che portò come detto alla rottura tra la produzione e Giorgio Bassani), dal ruolo di Malnate più presente nel romanzo a quello di Bruno sottolineato più nel film.
Il giardino dei Finzi Contini, che contiene scene poetiche inclusa la sequenza finale che richiama le partite a tennis tra i protagonisti, consolidò Lino Capolicchio, a cui Golda Meir chiese se fosse davvero ebreo per la sua intensa interpretazione premiata anche con un David di Donatello, e lanciò Dominique Sanda. Il film, inoltre, fece incetta di premi. Si aggiudicò il David di Donatello anche come Miglior film, vinse due Nastri d’argento, e l’Orso d’Oro a Berlino nel 1971. Non solo.
Il 10 aprile del 1972 si tenne la quarantaquattresima edizione degli Oscar. Il premio come Miglior film straniero era di fatto nato per premiare Vittorio De Sica, prima per Sciuscià, poi per Ladri di biciclette. Il regista aveva anche vinto l’ambita statuetta per Ieri, oggi, domani ed era stato nominato per Matrimonio all’italiana. Ma questa volta non ci pensava, sebbene la pellicola, distribuita negli Stati Uniti col titolo The Garden of the Finzi-Continis, fosse stata nominata. Non ci pensava anche perché l’anno prima a vincere era stato un altro film italiano, Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, ed era difficile fare “una doppietta”. E invece Il giardino dei Finzi Contini vinse l’Oscar come Miglior film straniero. Fu l’ultimo capolavoro di Vittorio De Sica che si spense il 13 novembre 1974.
Il film, restaurato nel 2015 dalla Cineteca di Bologna e dedicato a Manuel De Sica, rimane ancora oggi il più importante sulle leggi razziali del regime fascista. Per non dimenticare.
redazionale
Bibliografia
“Il giardino dei Finzi-Contini” di Giorgio Bassani – Feltrinelli
“Vittorio De Sica” di Franco Pecori – Castoro
“De Sica, io e il giardino dei Finzi Contini” di Lino Capolicchio a cura di Nicole Bianchi – Bietti Cinecittà
“Dallo scudetto ad Auschwitz. La storia di Arpad Weisz, allenatore ebreo” di Matteo Marani – DIARKOS
“Enciclopedia Rizzoli Larousse”
“Italia. Ventesimo secolo”
“Dizionario del cinema italiano” di Fernaldo Di Giammatteo – Riuniti
“Storia del cinema” di Gianni Rondolino – UTET
“Il Mereghetti. Dizionario dei film 2023” di Paolo Mereghetti – Baldini & Castoldi
L’immagine di copertina è realizzata per La sinistra quotidiana da Davide Sacco
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