Dai “Carri di Gedeone” al piano per trasferire oltre un milione di palestinesi della Striscia di Gaza in Libia, il passo sembra sempre più breve. Molti si domandano cosa resti da distruggere nelle città gazawite: l’orizzonte corrisponde non più con la linea marcata dalla irregolare altitudine degli edifici; è divenuto una linea piatta che, ogni tanto, incespica nei cumuli di macerie sotto cui stanno sepolti ancora tanti, troppi cadaveri.
Eppure Israele, dopo un anno e mezzo di guerra contro Hamas e contro il popolo palestinese, non può ancora dichiarare quella vittoria cui tanto dice di anelare per stabilire la “sua” pace nella regione. Una pace finta, che sarà costruita sull’onta storica di un genocidio che viene negato a parole, che lo è nei fatti e che, se in punta di diritto si gioca sulle opportunità o meno dell’utilizzo del termine nelle sedi giudiziarie e nelle accuse rivolte a Netanyahu e al suo governo, non smentisce il fatto che ci si trova innanzi ad una conclamata pulizia etnica.
Che termini si possono adoperare per descrivere altrimenti l’omicidio di massa (questo è la guerra) di oltre cinquantamila palestinesi, il ferimento grave di oltre centocinquantamila civili, l’assassinio a sangue freddo di migliaia di persone trucidate nelle tendopoli, negli ospedali rimasti senza strutture, senza medicine, senza anestetici? Quali parole possono essere universalmente accettate e condivise per delineare i contorni di uno sterminio calcolato, seppure differente per numeri (ma non meno per proporzioni percentuali) a quelli armeni, ebraici o cambogiani?
Chiamiamoli “crimini di guerra“, “crimini contro l’umanità” o, come vorrebbe qualche conduttore televisivo, possiamo fare finta che il genocidio non sia quello che è, ma farlo apparire «un’orribile strage ripetuta ogni giorno, non è un genocidio, il genocidio è un’altra cosa…». Sta di fatto che anche i militari israeliani ammettono – intervistati da più reti televisive americane ed anche europee – che l’obiettivo del loro governo e della loro azione a Gaza è la distruzione totale delle case per fare in modo che i palestinesi non possano più entrarvi e siano indotti, nonché quindi costretti, ad andarsene.
Dove, non si sa ancora. Ci sono alcuni che ipotizzano la Siria, altri la Libia, altri ancora la Giordania. Si parla di due milione di persone che vengono spinte da Tsahal verso il sud della Striscia, ammassate in una riserva asfittica dove non c’è più niente di niente. Vengono affamati, vengono impedite le cure più elementari. Quando si pone un assedio di questo tipo ad un territorio con una densità sproporzionata in tempo di guerra, si può pensare che il termine giusto per rendere la questione sia solamente “orribile strage“?
Una orribile strage ripetuta ogni giorno non rimane tale per diritto divino o per sentenza giornalistica: i morti si sommano, i crimini di guerra anche. Netanyahu non ha mai voluto fare giustizia dello spietato atto terroristico di Hamas il giorno dopo il 7 ottobre 2023. La Storia inizia ad evincersi del fatto che la reazione israeliana è stata calcolata su un tempo lunghissimo, per farla apparire dapprima una reazione all’attacco ai kibbutz e al rave party nel deserto, e poi un piano per eliminare definitivamente il governo jihadista di Gaza.
Ma, mese dopo mese, decine di migliaia di morti dopo altre decine di migliaia, macerie su macerie, quando al mondo è parso evidente che la misura della rappresaglia era stata oltrepassata, che Hamas poteva essere altrimenti colpito, così come è stato fatto con gli omicidi mirati dei suoi capi (nonché di Nasrallah in Libano o dei generali iraniani in Siria), che gli ostaggi non sarebbero stati liberati in toto da Tshal, ma mediante colloqui e tavoli (per così dire…) diplomatici, la verità sulla guerra di Gaza si faceva sempre più chiaramente distinguibile.
L’intento imperialista, annessionistico andava di pari passo con il progetto della deportazione, di una nuova Nakba per il popolo palestinese. Settantasette anni dopo quel 1948 quando l’esercito dello Stato ebraico, nella partita sporca della guerra arabo-israeliana, costringeva all’esilio oltre settecentomila palestinesi. Allora come oggi, fatte le debite differenze cronologico-politiche, quindi la compresenza degli attori sulla scena regionale come su quella più largamente internazionale, alla base del pensiero sionista c’era e c’è l’idea che uno storico come Benny Morris ha definito “il trasferimento inevitabile“.
Sostanzialmente non si concepiva, e tutt’ora non si concepisce, che uno Stato di Israele consolidabile e consolidato fosse possibile nella compresenza tra differenti ceppi etnici, tra diverse culture e religioni. Non di meno contava il fattore economico, si intende. Ma di primaria importanza, tanto nel 1948 quanto in questo 2025, era ed è il fattore nazionalista come elemento primario della costituzione dell’identità nuova del popolo israeliano entro i cardini del sionismo storico riattualizzato dopo la grande tragedia olocaustica della Seconda guerra mondiale.
Se davvero si è mai cercato un accordo con i palestinesi, per dare seguito alla teorizzazione dei “due popoli, due Stati“, lo si è sempre fatto con il retropensiero che si trattava di un rapporto di reciproca tolleranza e che sarebbe stato impossibile giungere ad una vera e propria convivenza in così poco spazio, tra il fiume e il mare. I giornali e le televisioni occidentali non si peritano mai di far riflettere sulla “legalità” dell’occupazione israeliana dei territori di Cisgiordania e di Gaza. Si parte sempre e soltanto dal presupposto, solo recentemente storico, che Israele ha diritto di difendersi per esistere, mentre per i palestinesi questo principio non vale.
Non vale, ovvio, perché si è loro impedito di avere un eguale competitor, uno Stato vero e proprio, come popolo organizzato su un dato territorio. L’occupazione israeliana è illegale sul piano del diritto internazionale che, come dovrebbe essere sufficientemente evidente, lo Stato ebraico disprezza e non tiene in nessuna considerazione. Ed è illegale perché, come ha molto bene evidenziato Francesca Albanese (relatrice speciale dell’ONU sui Territori occupati palestinesi) nel suo libro “J’accuse” (edizioni Fuori Scena, 2023) «perché ha dimostrato di non essere temporanea, è amministrata deliberatamente contro gli interessi della popolazione occupata e ha portato all’annessione del territorio occupato».
Qualcuno può sinceramente negare che questa analisi non sia la fotografia precisa di quanto è avvenuto negli ultimi decenni in Cisgiordania e, non di meno, a Gaza? Dell’una si è fatto un maculatissimo mosaico di zone colonizzate brutalmente, strappate ai palestinesi che si sono visti privare dei diritti fondamentali di ogni essere vivente: dall’acqua al cibo, dalla libertà di movimento a quella sanitaria, all’educazione dei propri figli, ad una vita – se davvero è possibile pensarla in Palestina – sufficientemente “normale“. Ma ormai siamo al punto che anche la sopravvivenza è intollerabile per il governo di Tel Aviv.
I palestinesi devono andarsene, scomparire dal contesto israeliano che intende quindi comprendere l’intera Palestina storica. I coloni sono quella “terza figura istituzionale” che la dottoressa Albanese descrive come il raccordo malevolo tra il personale militare israeliano e lo Stato ebraico medesimo. Mentre a Gaza il lavoro sporco lo fa l’esercito direttamente, in guerra di annientamento, di pulizia etnica, di genocidio, in Cisgiordania il conflitto permanente è affidato al fanatismo della destra iper-religiosa ultrasionista.
I coloni sono l’espressione tangibile di una politica di particolarizzazione del territorio della West Bank, di una conversione dello stesso, pezzo dopo pezzo, nel piano annessionistico mai apertamente dichiarato. La questione quindi riguarda non un plurale ma un singolare “territorio palestinese occupato” che, così definito, rende molto meglio l’idea di una nazione sotto assedio, sotto scacco, in preda alle pulsioni più retrive di una destra nazionalista che ha il tacito consenso dell’Occidente e che può sperare anche nell’alleanza con una ampia parte del mondo arabo.
Il presidente statunitense Donald Trump si dice pronto alla redazione di un piano per trasferire oltre un milione di palestinesi in Libia. Viste le tensioni attuali tra le fazioni in lotta per il controllo del paese e, in particolare, dello schiavistico mercato dei migranti, riesce un po’ difficile comprendere che tipo di affare farebbero i libici, tanto di Tobruk quanto di Tripoli nell’accollarsi un dilemma come quello della deportazione di un così enorme numero di persone.
Persone ridotte a scheletri, senza alcun bene, senza soldi, senza più nulla da perdere. Persone bisognose di ogni tipo di assistenza… I grandi, cinici capi di Stato dell’Occidente – ma non di meno quelli dell’Oriente – giocano con la vita di interi popoli e lo fanno sapendo che la brutalità della guerra sottomette qualunque volontà e che, almeno nel medio-breve termine le cose rimarranno così ed evolveranno seguendo le tattiche espansionistiche tanto territoriali quanto profittuali dei governi al servizio dei grandi capitali finanziari.
La vocazione nazionale riscoperta tanto dai palestinesi, dopo le migrazioni ebraiche dall’Europa in cui i giudei erano perseguitati a più riprese e sempre più violentemente, quanto dagli abitanti dello Stato di Israele nel corso del Novecento e, non di meno, nel primo quarto del nuovo secolo, non può oggettivamente essere il terreno esclusivo su cui far poggiare una lotta di liberazione in tutto e per tutto. Una Palestina libera accanto ad un Israele altrettanto libero presuppongono la fine dei nazionalismi come elementi di primaria importanza.
Il fatto che, tanto per Hamas quanto per la destra sionista, si accompagnino necessariamente ad una nervatura imponente di etno-religiosità, non è di per sé una garanzia di inanellamento di un dialogo, di un compromesso o, se vogliamo, anche soltanto di un cessate-il-fuoco permanente, necessario per la morente, stremata popolazione di Gaza. Il futuro immediato ci parla di nuove tragedie imminenti: la deportazione dei palestinesi, che va scongiurata da parte della comunità internazionale, rischia di essere una di queste catastrofi moderne. Una nuova, drammatica riedizione della Nakba…
MARCO SFERINI
17 maggio 2025
foto: screenshot ed elaborazione propria