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Marco Sferini

Il “fattore Gaza” e una certa rivoluzione della coscienza popolare…

La sperimenteremo se non tutta, quasi, l’ondata arginatoria e repressiva del governo Meloni nei confronti dello sciopero generale proclamato da USB e CGIL per la giornata di oggi, venerdì 3 ottobre. Ha iniziato la Presidente del Consiglio, utilizzando i suoi consueti pacatissimi toni, per niente asperrimamente ironici, significando berlusconianamente che questi manifestanti sarebbe bene che lavorassero invece di allungarsi il fine settimana con un giorno, in pratica, di “vacanza“.

Questa tiritera, a dire il vero, ormai è stata usata e abusata, tanto da divenire uno stanchissimo ritornello che non sorprende nemmeno più. Per ogni giorno di sciopero ai lavoratori viene tolto l’ammontare relativo del salario, quindi non c’è nessuna vacanzina in vista, nessun piacere nell’astenersi dalle proprie mansioni. Ma c’è un dovere civile, morale, persino sociale e politico. Sì, proprio come quello che la Global Sumud Flotilla ha rappresentato nella sua lunga traversata quasi fino a Gaza: quello di non fare spallucce, di non voltarle a chi ha bisogno, a chi patisce indicibili sofferenze per causa che non sono propriamente naturali.

Dopo le reprimende meloniane è stato il turno del ministro Salvini: la minaccia è sempre quella della precettazione delle lavoratrici e dei lavoratori. In questo caso dei trasporti, visto il ruolo del segretario della Lega entro la compagine governativa. E poi ci sarà il prolungamento della politica dell’esecutivo: dalle decretazioni ai manganelli. Dalla legge all’ordine, il passo è breve. Molto americaneggiante, molto trumpiano, stile MAGA, stile destre moderne che fanno dell’oplitismo del nuovo millennio un valore aggiunto alle loro finte premesse di difendere i veri valori democratici e repubblicani.

Proprio perché questa sarà la reazione governativa, le manifestazioni che animeranno lo sciopero generale in tutta Italia dovranno avere necessariamente un carattere pacifico: duro, intransigente nei toni, negli slogan, invadendo piazze, vie, strade di scorrimento, tutto quello che sarà possibile ma senza mai trascendere nel vandalismo, nell’aggressione gratuita. Soprattutto in presenza dei tanti momenti di provocazione che saranno messi in essere per rappresentare ancora una volta che la parte del torto è quella di chi manifesta e non quella di chi è criticato dai manifestanti.

Il governo Meloni proverà a creare una narrazione compatibile con lo scopo consueto: atteggiarsi a vittima delle circostanze e, quando ciò non è possibile, raffigurare tutta la premeditazione di un distorto diritto di espressione pubblica, corale in un attivismo che tramuta in rabbia incontrollata tanto da convincere non pochi che in fondo questi sostenitori della Palestina sono un po’ dei terroristelli che vanno tenuti a bada, degli eversivi da mettere all’angolo. Non da oggi, ma da decenni a questa parte sappiamo che l’arte del governo consiste, purtroppo, anche in questo quando la esercitano forze politiche che hanno il culto della repressione del dissenso nel loro DNA.

La destra di Giorgia Meloni questo culto lo ha ereditato dalla tradizione del plenipotenziarismo missino, a sua volta erede del fascismo repubblichino, della grigia, triste stagione della furibonda decadenza del Ventennio mussoliniano in un pantano di ignominia e di servaggio nei confronti della Germania nazista. Per cui non può stupire, ma indignare deve ogni tentativo di incastrare la piazza popolare in una intercapedine asfittica di violenza fine esclusivamente a sé stessa. Il G8 di Genova, ormai quasi tre decenni fa, ce lo ha davvero insegnato. E molto, molto bene.

Gli esponenti del governo delle destre tentano di mostrarsi dei nuovi democratici, ma non riescono mai a convincere di esserlo anche solo in nuce. I titoli dei loro giornali di riferimento sono pieni di violenza. Ogni giorno. Basta scorrere le rassegne stampa per avere chiaro il fatto che il confronto è superfluo: loro non si pongono alla stessa altezza di chicchessia. Loro sono più alti degli altri, hanno il potere e lo esercitano come se ne fossero gli esclusivi imperituri detentori. Il tutto viene condito con una grettezza di linguaggio che sintetizza coerentemente ciò che vi è nel loro profondo intimo.

Scostamento, sospetto, timore, paura dell’altro, del diverso, del contrario perché non lo capiscono o fingono di non capirlo. La vicenda della Global Sumud Flotilla ha coinvolto emotivamente gran parte della popolazione e giustamente, perché si è trattato e ancora si tratta non di qualcosa di lontano da noi (nemmeno poi tanto dal punto di vista meramente geografico) ma di molto afferente all’esistenza di ognuno che è ormai pregna del bellicismo dominante, di una economia di guerra pervasiva, che non tralascia nessun ambito delle nostre esistenze.

Poter constatare che esiste ancora questa larga, diffusa capacità di provare disgusto per l’orrore dell’aggressione tanto di Hamas agli israeliani quanto di Israele contro l’intera Striscia di Gaza, la totalità del popolo palestinese, è un segno indubbio di speranza: forse per troppi anni siamo stati indotti a ritenere che la solidarietà internazionale fosse scomparsa dai nostri teleschermi mentali, dai nostri punti di osservazione costanti, continui e ripetutamente occupati dal consumismo più sfrenato indotto dalla torsione neoliberista di un mercato avviluppante ogni cosa, ogni persona.

La politica comunemente intesa come qualcosa di luridamente sporco, intrisa di marciume affaristico, di consorterie e malaffare sembrava irriformabile. Ma abbiamo anche noi di sinistra commesso l’errore di ritenere che questo fosse un pensiero dominante piuttosto che maggioritario. Mentre la società riserva sempre delle sorprese perché è molto più complessa rispetto a quelle che sono le percezioni soprattutto singolari di ognuno di noi e che, sovente, pur sommandosi e cercando di trarre una analisi da più di una eterogenesi dei fini e dai mutamenti in corso, non riescono a produrre una chiarezza oggettiva sui sentimenti che pervadono quelle che un tempo erano chiamate “le masse“.

Le grandi manifestazioni di questi giorni sono state definite, proprio per il loro carattere istintivo, “spontanee“, prive quindi di una qualunque guida politica o sindacale, non dirette, ma sorrette da una partecipazione veramente popolare, veramente dal basso. Certo, chi scende in piazza sa che prendere posizione in favore del popolo palestinese vuol dire anche far collimare la propria critica e protesta con quella delle forze della sinistra, del sindacalismo, del mondo del lavoro e, quindi, della solidarietà internazionale. Ma questo non è un tratto che viene vissuto come un disagio dai manifestanti. Anzi.

Nella solidarietà verso il popolo di Gaza, si sono incontrate le differenze, si sono apprezzate le discontinuità dei pensieri e si è potuto persino assistere alla proclamazione di un solo sciopero generale da parte della CGIL e del sindacalismo di base. Se non è un eccezionale miracolo politico questo… Ciò vuol dire che il “fattore Gaza” è stato assunto dal conscio collettivo come un paradigma della crisi epocale in cui vive il pianeta: le guerre come metodo di risoluzione delle controversie internazionali, regionali e nazionali.

Le aggressioni deliberate come forma di prolungamento della politica ipermoderna fatta di prevaricazione nel nome dell’interesse dominante del profitto di multinazionali e cartelli di aziende, tra cui le più remunerative sono proprio quelle dell’industria bellica, forniscono pretesti sempre nuovi agli Stati per l’infrazione del diritto internazionale con qualunque giustificazione (im)possibile. Bisogna partire anzitutto dal modo in cui ci si esprime: i quaranta e più italiani, così come il resto degli equipaggi della Global Sumud Flotilla, non sono stati “arrestati”, bensì rapiti dall’esercito israeliano.

Tel Aviv ha commesso un atto di vera e propria pirateria marittima: ha trattato queste imbarcazioni come offensive perché ciò che le premeva scongiurare era l’apertura del canale umanitario verso la popolazione di Gaza; canale che non avrebbe, di per sé, messo fine al blocco navale nei confronti delle acque palestinesi. Avrebbe, come del resto ha nei fatti dimostrato al mondo tutta l’assurdità, insita nel sovvertimento della legislazione mondiale in materia di diritto del mare, di diritto anche dei blocchi economici e militari, dell’azione voluta dal governo di Netanyahu. Mentre blocca la Flotilla e ne sequestra il personale, Israele continua ad affermare: posso fare quello che voglio.

I suoi stessi alleati brontolano un po’, ma alla fine ne benedicono le azioni. La traversata che ha quasi raggiunto Gaza e gli scioperi e le manifestazioni che si susseguono quasi senza soluzione di continuità, non sono inutili, come si affretta troppo entusiasticamente a proclamare qualche zelante opinionista sostenitore della destra di governo. Sono la cattiva coscienza di una umanità che non ha, nonostante tutto, perso completamente la speranza di redimersi nell’accorgersi per tempo (seppure con un ritardo storico notevole…) che a Gaza c’è un genocidio.

Esattamente come è accaduto in altre circostanze, in momenti molto differenti della Storia: da quello degli armeni ad opera dei turchi a quello degli ebrei, dei rom, dei sinti, degli omosessuali, degli oppositori politici nel Terzo Reich e nei territori occupati dalla Germania hitleriana. Da quello del Ruanda a quello di Srebrenica. Anni lontani fra loro, cifre molto differenti per quantità. Ma l’obiettivo era sempre lo stesso: nuocere sistematicamente ad un popolo, ridurlo in condizioni di così disperata sopravvivenza da marginalizzarlo e disumanizzarlo.

Per espellerlo e allontanarlo persino dalla storia del luogo in cui ha sempre vissuto o dove si è trovato ad un certo punto a vivere. La grande sollevazione popolare è una dimostrazione di una empatia diffusissima che è il punto su cui rinasce una umanità che sposa la causa della libertà sopra ogni cosa, sopra ogni interesse particolare. Il genocidio del popolo palestinese va fermato. Solo i popoli possono spingere i governi a questo passo urgente, imprescindibile. Quello italiano teme la rinascita di questa partecipazione di massa, perché può segnare una svolta politico-socio-culturale veramente enorme in un Paese che si pensava anestetizzato dalla propaganda della destra.

Qualcosa si è risvegliato. Non sopravvalutiamolo, ma non sottovalutiamolo e nemmeno sminuiamolo per paura di avere un domani previsto in modo errato ciò che sarebbe potuto accadere. Conta Gaza, non conta altro in questo momento cruciale per una riconversione umana delle nostre nazioni, dell’Europa e del Vicino Oriente.

MARCO SFERINI

3 ottobre 2025

foto: screenshot ed elaborazione propria

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