Il Primo maggio dovrebbe essere, soprattutto nell’era meloniana dell’Italia iperliberista e superatlantista, non solo un giusto rituale di grande convivialità fatto di assemblee, cortei, manifestazioni e concerti, ma prima di ogni altra cosa la data da segnarsi sul calendario per ripartire con la lotta sociale, di classe ogni anno. Ripartire se non lo si fa da tempo, riprendere le forze, riorganizzare le idee e rimettersi all’opera – come suggeriva Gramsci – abbandonando qualunque sconforto e qualunque induzione alla rassegnazione.
Farlo nel nome di una modernità capitalistica che è in aperto contrasto con la stabilità naturale del pianeta e che, quindi, è innaturale perché inadeguata al vero sviluppo, l’unico possibile: quello di ogni vita esistente nel rispetto complessivo dell’esistenza sulla Terra. Ci siamo un po’ dimenticato di quello che Marx ed Engels scrivevano a proposito del “libero sviluppo” di tutti e di ciascuno. Così come ci siamo scordati del fatto che il problema, alla radice dei fatti, è il capitalismo. Niente altro. Il capitale è la questione delle questioni perché è la contraddizione delle contraddizioni, quella massima.
Mentre ieri i cortei permettevano di ritrovarsi e parlare, discutere, lanciare anatemi come provare a fare analisi circostanziate della fase (seppure nel consueto, ineffabile e straordinario caos di incontri che si hanno in piazza), il governo Meloni lanciava messaggi strarassicuranti sull’aumento di oltre mezzo milione di occupati e su un recupero del potere di acquisto dei salari quasi mai visto in Italia. Propaganda è l’aggettivo migliore che si possa assegnare a questo meschino tentativo di rappresentare le politiche dell’esecutivo come sociali e popolari.
Dati alla mano, dei 24 milioni e 300mila lavoratori presenti nell’Italia di oggi il 90% riguarda persone con oltre 50 anni di età: questo significa che il cosiddetto “effetto Fornero” (l’allungamento dell’età lavorativa) assolve tutt’oggi il suo triste compito di impedimento del ricambio generazionale nei principali assi produttivi del Paese. Un tempo si andava in pensione intorno ai 62 anni di età: oggi quella cifra anagrafica è di gran lunga superata e dilatata fino a raggiungere i 67 anni di età.
Ciò vuol dire andare in pensione tardi, garantire un maggiore sfruttamento della forza lavoro da parte del padronato senza rinnovi e assunzioni che impatterebbero di più sul monte onere delle imprese. Il governo parla di espansione economica ma – sempre da fonti tanto sindacali (centro studi della CGIL) quanto imprenditoriali (Il Sole 24 Ore) – si sa che ormai da oltre due anni e mezzo la crescita industriale è alquanto ridotta e che, in molti settori e non di poco conto, si assiste ad una diminuzione della produzione (circa il 5% in meno rispetto all’anno scorso).
Se al già citato “effetto Fornero” si aggiunge la crescita dell’anzianità della popolazione italiana, se ne deduce molto facilmente che l’accesso al mercato del lavoro è sempre più un affare complesso in quanto offerta di futuro stabile per le giovani generazioni. Manca, proprio da parte del governo e, nello specifico, da parte del ministro Urso una visione di medio e lungo termine, una pianificazione di una politica industriale che ripristini il posto sicuro e fisso e metta da parte quella che è la regola dei contratti oggi: la provvisorietà, la precarietà a tutto spiano.
In particolare, a soffrire di questa contrazione economica che si nutre di un neopauperismo su vasta scala sono i giovani e le donne. Tecnicamente si parla di “qualità” del lavoro che, almeno per i padroni e il mondo delle imprese in generale, fa rima con l’assunzione di lavoratrici e lavoratori formati a tutto punto e, quindi, inseribili nel contesto produttivo senza nessun onere di apprendistato aggiuntivo. Qui si riaggancia ancora una volta il perverso dittico tra scuola e lavoro, con la prima come variabile dipendente dell’andamento del mercato, al servizio del privato.
Dopo dieci anni di Jobs Act, una delle leggi più infami che siano mai state fatte contro il mondo del lavoro, i risultati che si possono riscontrare riguardano la flessibilità contrattuale, la mobilità, i licenziamenti facili che non sono stati eliminati con l’introduzione del lavoro precario ma, al contrario, ne sono stati i complici ispiratori e manutentori di un sistema di discriminazioni e di soprusi chiamati, da alcuni sindacati di destra e anche da altri, “opportunità” di scelta… Renzi ha, fin dall’inizio, fatto credere – col sostegno dell’allora quasi intero PD – che si sarebbe arrivati ad una stabilizzazione delle disparità.
Invece queste sono aumentate e, oggi, i contratti a tempo determinato sono il 30% del totale e, come già evidenziato, riguardano spesso e volentieri categorie già ampiamente sottoposte a ricatti e vessazioni da parte delle imprese: giovani, donne e laureati. Dal pacchetto Treu in avanti, passando ovviamente per il ventennio berlusconiano e gli innumerevoli tentativi di imitazione fatti sia dai governi tecnici sia da quelli di centrosinistra, la precarietà, da fenomeno marginale, è divenuta la strutturazione fondamentale del nuovo mercato del lavoro tanto in Italia quanto in Europa.
A questo regime di precarizzazione del rapporto di lavoro ha finito col corrispondere – come scrive con grande acutezza la Fondazione “Giuseppe Di Vittorio” nel suo rapporto “Precarietà e bassi salari” – un altra ristrutturazione: quella del salario sempre più basso. Il trittico dell’ingiustizia sociale oggi è rappresentato dalla bassa produttività, dai bassi salari e dalla crescita complessiva dell’Italia che rimane, per l’appunto, bassa e sconfessa qualunque tono bugiardamente enfatico del governo.
Compito del Jobs Act era proprio questo: privilegiare le grandi ricchezze, la ricomposizione del capitale in un contesto di oggettiva, globale crisi dello stesso, e tradurre tutto questo in un attacco frontale al mondo del lavoro. Il sistema capitalistico moderno è impostato, almeno ideologicamente, seguendo le linee guida sviluppate dettate da Bretton Woods prima e dai Chicago boys in seguito, su una linea di crescita costante. L’unico modo per evitare che la precarietà diventi la cifra dell’instabilità delle classi sociali più deboli e sfruttate è fermare questa crescita dal punto di vista esattamente padronale e imprenditoriale.
Il che vuol dire invertire la marcia, costringendo il capitale a ripensarsi nell’attuale fase di crisi non solo prettamente economica, ma anzitutto eco-ambientale: questa sì che è qualcosa di più di una deflagrazione strutturale, di un nuovo biennio 2008-2009, di una nuova esplosione di una bolla speculativa su vastissima scala. Di fronte agli sconvolgimenti naturali può ben poco ogni intervento, peraltro molto finto, di un recupero di quella che Saitō Kōhei definisce come “età della Grande accelerazione” rappresentata dal forte impatto avuto dall’industrialismo crescente sull’ambiente a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale.
Si è reso quindi necessario uno sforzo di recupero della lotta sindacale e sociale proprio a partire dall’inversione radicale di tendenza rispetto agli effetti prodotti dal Jobs Act: in dieci anni i danni prodotti sono tanti e tali da aver favorito la precarizzazione in ogni settore produttivo e averla resa la costante nelle trattative, nei rapporti di lavoro e in quelli di subordinazione declinata in tante nuove occupazioni che rasentano veri e propri neoschiavismi in chiave ipermoderna.
Non è un mistero, del resto, che proprio da un quarto di secolo, la stagnazione economica italiana è anzitutto il frutto di una compressione dei diritti delle lavoratrici e dei lavoratori che, proprio per questo, hanno livelli di sopravvivenza sempre più ridotti con una inevitabile recessione sul piano tanto privato, delle singole famiglie, quanto del contesto sociale e, quindi, di impatto sulla domanda complessiva. L’unica forma di lavoro che è cresciuta – nonostante il governo affermi tutt’altro – è quella a termine e part-time. I lavori stabili e a tempo indeterminato sono cresciti – nell’arco di tempo dal 2004 al 2024 – solo del 7,2%, mentre quelli stabili ma part time sono aumentati del 60%.
Il capitale punta, quindi, sulla mobilità estrema del mondo del lavoro e sull’impiego momentaneo per poter avere maggiore potere di ricatto tanto individuale quanto collettivo. Poi, va considerato anche il contesto più globale che, però, non viene contraddetto da una politica economica delle imprese italiane in controtendenza, ma assecondato e vellicato come cuore della proposta mercatista oggi: la mancata crescita economica nella fase multipolare impedisce una redistribuzione delle ricchezze nei singoli ambiti nazionali.
Non si salvano nemmeno paesi come il nostro, abituati ad essere pelosamente assistiti dalle indicazioni strozzineggianti dei centri di governo del capitalismo e dell’alta finanza continentale europea. Le disparità, come si sa, aumentano poi tra nord e sud del Paese e l’impatto della diminuzione dei salari (circa il 9% in meno nell’arco di tempo tra il 2008 e il 2024) si fa sentire ancora di più se rapportato al fenomeno inflattivo in pericolosissima ascesa. Eurostat ci dice che in Italia il 10% dei lavoratori è a rischio povertà: per la precisione, in questo 2025, il 1o,3% rispetto al 9.9% del 2024.
Dov’è dunque la magnifica crescita esaltata dal governo Meloni? Dove sono i veri occupati che aumentano rispetto a quelli iperprecari e sottopagati (basti pensare ai riders e a quella vergogna di contratto-capestro stipulato proprio da un sindacato di destra…). Mentre le retribuzioni rimangono ferme al palo, i prezzi dei generi di consumo aumentano quasi del 20% nel corso di pochi anni (2021-2024). In Italia il fattore “rischio povertà” riguarda il 18,9% della popolazione e, come abbiamo visto, aumenta per chi ha una occupazione precaria. Il che vuol dire la stragrande maggioranza degli occupati.
Per citare ancora una delle menti più lucide che si possano oggi incontrare sugli scaffali delle librerie, scrive Saitō Kōhei in “Il capitale nell’Antropocene” (Einaudi, 2020, pag. 95-96):
«Pagato l’affitto, la bolletta dello smartphone, i costi di trasporto e le uscite serali, lo stipendio è già finito. Ci si impegna allora a ridurre le spese alimentari, quelle per i vestiti e i trasporti. Anche così, con stipendi bassi, che bastano appena per sopravvivere, si lavora alacremente con orari che assorbono quasi tutta la giornata sotto il peso di prestiti per gli studi e mutui per la casa. Non è già forse questa in tutto e per tutto una dignitosa povertà?».
Per l’appunto. Non è normale tutto questo, se per normalità vogliamo intendere un progresso veramente sociale che vada di pari passo con un recupero della crisi ambientale impossibile da concepire come semplice azione singolare nella grande massa di altrettanti singoli che diventano virtuosi raccoglitori di rifiuti da differenziare, utilizzatori di borracce invece che bottigliette di plastica o compratori di auto elettriche. Il sistema capitalistico ci ha fatto credere che può bastare questo nostro impegno per salvare il pianeta. Ma non è così.
Mentre noi ricicliamo i rifiuti e facciamo del nostro meglio per evitare sprechi e pagare anche meno bollette, l’intelligenza artificiale appena immessa sul mercato della fruizione globale è un elemento ulteriore di energivorità. Per realizzare una immagine da postare su Instagram o Facebook serve l’intero cumulo di una ricarica di un cellulare… Noi vivamo e sopravviviamo in una economia complessa e contraddittoria: da un lato pensiamo di fare la nostra parte evitando il peggio del peggio, ma dall’altro lo stiamo invece già facendo.
Se si continuerà a seguire la via della crescita dal punto di vista del mercato, del capitale e della grande finanza, si andrà verso una povertà davvero incontrovertibile: delle risorse naturali, di noi stessi, al centro di tutto, specisti al massimo e privi di qualunque empatia nei confronti del resto dei viventi. Emiliano Brancaccio, ieri, su “il manifesto” ha scritto che «La restaurazione del comando capitalista sul lavoro è fenomeno mondiale, senza eccezioni». Perché, insegna la scuola del neoliberismo imperante, là dove il padrone governa, ebbene lì c’è la prosperità per l’intera nazione.
La narrazione ordoliberista è questa. Bisogna capovolgerla e creare i rapporti di forza sociali per poter rimettere in moto un processo di costruzione dell’alternativa che non è impossibile: siamo, noi che non possediamo i mezzi di produzione, la maggioranza di questa (dis)umanità. Rosa Luxemburg scriveva: «Noi siamo i milioni del cui lavoro vive l’intera società». Non siamo soli se ci percepiamo come una unità di classe, come un insieme che, anche nelle rispettive differenze, può ritrovarsi in lotte ed obiettivi comuni.
Cacciare il governo Meloni oggi per fare politiche sociali domani deve essere il primo punto all’ordine del giorno dell’urgenza qui ed ora. Una buona spinta in questo senso la si può dare andando a votare l’8 e il 9 giugno ai referendum e votando cinque volte SÌ. Contro tutti gli effetti più cruenti del Jobs Act, contro la precarietà e i bassi salari, contro la riduzione delle tutele, per una maggiore sicurezza nei luoghi di lavoro.
Facciamoci del bene! Votiamo e facciamo votare SÌ ai referendum di giugno e diamo un forte segnale a questo governo antisociale, incivile e oltremodo fuori dal contesto costituzionale. Al fantastico mondo di Melonie contrapponiamo una riscossa sociale necessaria e, ribadiamolo ancora, urgente. Molto, molto urgente.
MARCO SFERINI
2 maggio 2025
foto: screenshot ed elaborazione propria