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Il disagio nella civiltà

La teorizzazione della nostra parte inconscia realizza un concetto antietico per eccellenza, che va, propriamente, oltre il bene e il male e che, quindi, si pone come ante litteram rispetto a tutto ciò che concerne l’esperienza e che, tuttavia, nel momento in cui il soggetto autocosciente si relaziona con l’esistente, finisce con il compenetrare l’essenza stessa di quello che Freud chiama l'”Es“. Nella presa in considerazione dei rapporti tra noi e il resto che ci circonda si inseriscono fattori che riguardano tanto la nostra sfera più nascosta e inindagabile dalla parte conscia, per così dire “diurna“, quanto elementi più materiali (e materialistici) come l’economia.

Quest’ultima intesa governo, gestione del proprio nucleo più strettamente familiare in relazione con la comunità che comprende ogni singolo e ogni singolare e particolare strutturazione para-sociale che si è andata costruendo (e perché no, anche decostruendo…) nei secoli dei secoli. C’è un tratto comune che fa incontrare sullo stesso cammino Marx e Freud e no è soltanto la questione usata e abusata della maestranza del sospetto che gli viene attribuita in consonanza con Nietzsche. Qui ci si riferisce al fatto che l’essere umano è alla ricerca della felicità e che, istintivamente, primordialmente, punta sempre a soddisfare quel “principio di piacere” evocato dal padre della psicoanalisi.

Se l’Es è l’equivalente del nostro lato inconscio, di quell’insieme di “impulsi ribollenti” che prescindono dalla razionalità diurna imposta dalla società con tutte le sue regole, l'”Io” di questa è la parte mediante, che tenta appunto di stabilire un nesso tra “principio di realtà” e “principio di piacere“. Due caratteristiche peculari del nostro modo di esprimere consapevolezza dell’esistente, del raffrontarci quotidianamente con ciò che ci appare tanto logico quanto illogico, tanto presente quanto assente, tanto indubitabile e certo quanto invece fallace e inconsistente, imprendibile per poter stabilire nuovi punti di appoggio su cui fondare un “senso personale” che trovi rispondenza in un più ampio e articolato “senso comune“.

Non c’è contraddizione tra l’analisi del sistema capitalistico fatta da Marx ed Engels e le spiegazioni che Sigmund Freud dà in un saggio pubblicato nel 1930 e che è divenuto uno dei suoi più considerati scritti che legano e simbiotizzano tanto l’analisi psichica dell’essere umano quanto l’analisi più antropologica e sociale che scava a fondo sia nella temporalità e nella cronologia dell’evoluzione quanto nelle trasformazioni che sono intercorse dentro noi e che difficilmente possiamo scostare, eludere, tralasciare e relegare in una sorta di dimenticatoio, di oblio permanente che ci regali così un qualche attimo di rassicurazione maggiore rispetto a quella media (e mediocre) che ci interessa giorno dopo giorno.

Il disagio nella civiltà” (Feltrinelli, 2021) nasce col titolo “Das Unbehagen in der Kultur” (“L’infelicità nella civiltà“) e, a dire il vero, leggendo il testo di Freud appare più consono rispetto alle versioni che gli sono state date in seguito. Tra queste, l’edizione inglese riportava: “Civilization and Its Discontents” (“La civiltà e le sue insoddisfazioni“) e, sebbene si tratti di una considerazione del tutto soggettivamente personale, sembra il titolo meno azzeccato per riassumere invece il cuore di una crisi più complessa del mondo che riguarda ogni singolo individuo e che, proprio perché è così, non può essere riducibile all’insoddisfazione che, in quanto a concetto, è troppo ristretto e minimizzante nel prendere in considerazione un disagio che pare molto più profondo.

L’acculturamento delle masse, la loro fuoriuscita dal mare magnum dell’ignoranza indotta da condizioni esistenziali pari ad un servaggio che si è prolungato a lungo, ben oltre i confini di una medievalità descritta falsamente come l’unica epoca della nostra storia fatta di più di scuri che di chiari, non diviene secondo Freud un principio di evoluzione in senso libertario: a maggiore conoscenza non corrisponde maggiore possibilità di sentirsi realmente liberi di fare ciò che si intende fare per essere felici. Qualcuno potrebbe ricordarsi il vecchi motto: «Qui auget scientiam auget dolorem»; ma in quel caso si sosteneva che era l’acquisizione del sapere ad aprire alla mente ed al cuore umano una prateria di consapevolezze che rimanevano tuttavia esposte ai venti dell’ignoto.

Il maggior sapere, tra l’altro, induceva all’interrogativo permanente, al dubbio costante, alle domande sulle finalità di quella che un tempo era la Creazione e che, successivamente, è divenuta anche l’Evoluzione. In questo frangente, invece, Freud si occupa dell’incontro-scontro con una civiltà che, nel suo insieme, si deve dare delle regole per evitare di sbranarsi e di limitare i danni, ma che, come avvinghiata da un fattore nemeticamente vendicativo, viene a sua volta ristretta da queste norme in un ambito esistenziale in cui le pulsioni ancestrali sono compresse, sistematizzate, ordinate in modo da non potersi esprimere e da qui verrebbe fuori il dramma del disagio singolare così come quello di più vaste comunità di individui.

Dobbiamo anche ricordare la genesi del testo freudiano: vede la luce nel 1930, in un momento storico in cui, dopo la fine della Prima guerra mondiale, i nazionalismi autoritari stanno prendendo il sopravvento in Europa, come revanscismo rispetto al Trattato di Versailles da un lato, come risposta alle “demoplutocrazie” dall’altro. Ci si trova, quindi, in un passaggio dirimente per un complicarsi degli eventi che sono dettati anche da un affinamento delle tecniche produttive, da innovazione borghese che concerne la capacità di sfruttamento del proletariato, in cui la valenza profittuale emerge con una prepotenza inusitata e che, invece, diverrà una costante crescente tanto della prima quanto della seconda parte del Secolo breve. Freud si fa molte domande e prova a dare delle risposte: tra queste quella se può esistere una libertà vera in questo contesto così articolato.

Di sicuro è molto difficile che per la libertà istintiva, per l’anelito alla piena espressione di sé stessi, seppure inconsciamente dato nell’esistenza di ognuno e sovente letto attraverso le lenti deformanti del giudizio e della norma etica che esige le condizioni del rispetto delle regole in tutto e per tutto, si aprano dei varchi importanti attraverso cui poter passare e realizzare tutti quei caratteri e contenuti rimossi dall’imponente IO che pare sovrastarci e circondarci. Sembra questo quello che Freud chiama “il prezzo del progresso“: lo si sconta, lo si paga con il sacrificio della proprie istintività, di quelli che sono i nostri desideri e che sono sempre meno conoscibili da noi medesimi perché “inconfessabili” o “irrealizzabili“.

Da qui parte e si alimenta un processo di disarticolazione dell’essenza di ciò che veramente siamo e che è nel nostro lato più nascosto e inaccessibile alla razionalità determinata e determinante. Proprio perché “a-razionale” e “a-morale“, l’inconscia parte di noi diviene il rifugio delle frustrazioni che ci arrivano come immagini incomprensibili, metafore strane durante l’attività onirica. Se si volesse stabilire una facilissima equazione, si potrebbe affermare che ai sogni corrisponde l’unico momento in cui è possibile essere completamente liberi di disegnare nella nostra mente (e oltre questa stessa) con un pennello di completa libertà senza dover rispondere a niente e a nessuno. Il risveglio angoscioso, spesso, corrisponde invece alla consapevolezza di dover avere a che fare, una nuova volta, con la dura realtà non della vita ma della società che la rappresenta.

Malamente rappresentata e peggio dinamizzata nelle sue compulsioni e nevrosi ipermoderne, la civiltà si realizza, nei suoi preconcetti morali, culturali, istituzionali, religiosi e via di seguito, nell'”Super-Io“, in quella estremizzazione censorea che annulla la mediazione dell’Io tra conscio ed inconscio, tra pulsioni emotive e regole cui adeguarsi per raggiungere una perfettibilità di sé stessi entro i cardini esclusivi del sociale, escludendo tutto quello che è antisociale come qualcosa di reprobo, da condannare, da anatemizzare, da recludere nella cerchia dell’indicibile, dell’invisibile, del non considerabile in quanto fattore comunque prodotto dalla società o, se vogliamo, dalle emozioni che vengono arginate e anestetizzate anche piuttosto malamente dal congresso delle prevenzioni convenzionali diffuse.

L’analisi fatta da Freud imposta la critica su un soggettivismo che non entra in contrasto con l’oggettività delle relazioni più articolate e complesse che si formano in comunità anche più grandi della stretta cerchia familiare o localmente cittadina. La felicità così intesa è un dato da riferire alle masse, ai popoli che devono sacrificare oltre alle libertà e alle volontà particolari anche quelle più generali e unificanti che mettono una ipoteca pesantissima sul futuro dell’umanità e dei suoi rapporti con l’animalità più ampia e con la Natura e la naturalità di cui siamo, lo si voglia o no, permeati. Scrive Freud che a questo punto si crea una preminenza e predominanza del principio di realtà rispetto a quello di piacere e, quindi, la diretta conseguenza, spalmata su tempi molto diversi da caso a caso, è l’insoddisfazione, l’infelicità, la frustrazione.

Nevrosi, fobie, ansie, disagi di ogni genere hanno anche come origine questo contesto molto difficile da ridurre ad uno essenziale, ma che in ciascuno di noi trova comunque il modo di imprimersi e, sovente, lo fa con ricadute molto pesanti tanto per la nostra salute mentale quanto per quella fisica. La lettura de “Il disagio della civiltà” è, così, ad un secolo di distanza dalla sua stesura e diffusione, un modo per interpretare anche oggi i drammi di ognuno e le tragedie di molti, visto che quelle contraddizioni non sono state risolte da una sempre maggiore propensione ad una modernità che dovrebbe invece dare a soluzione tutti i problemi concreti e pratici dell’umanità. Le differenze civili, sociali e culturali si sono acuite e la forbice tra ricchezza e povertà si è tanto allargata da rompersi.

Rimettere insieme i pezzi per invertire la rotta è difficile, difficilissimo, ma non è impossibile. Perché, direbbe Marx parlando degli operai (e citandolo qui con ampio margine di metafora): l’uomo ha fatto tutto, quindi tutto può distruggere per ricostruire tutto. Magari differentemente rispetto a quanto è stato fino ad ora.

IL DISAGIO NELLA CIVILTÀ
SIGMUND FREUD
FELTRINELLI, 2021
€ 11,00

MARCO SFERINI

24 settembre 2025

foto: particolare della copertina del libro


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