Connect with us

Hi, what are you looking for?

la biblioteca

Il deserto dei Tartari

Scrive Camus che c’è nell’esistenza un orrore quasi indomitamente intrinseco, albeggiante ogni giorno al nostro risveglio, nel mentre posiamo piede a terra, levati dal letto e borghesemente pronti alla ciclicità di ogni singolo momento che si ripete come nell’eternità di un ritorno che, per lo meno, Nietzsche pensava molto più in grande sia fisicamente sia temporalmente.

Ma pur sempre di monotonia si tratta, di ripetizione inconsuntibile, ineguagliabile sommità della tempesta emotiva che coglie quando ci si trova claustrofobicamente immersi in un presente che non ha altri tempi dietro e davanti a sé: in cui la propria esistenza pare grigiamente aggrappata ad un indistinguibile monocronia dell’esteriorità. Anche dove i panorami giganteggiano con la bellezza straordinaria dell’ordine naturale, sussiste un sentimento ancestrale che spinge l’essere umano, l’Autocosciente per eccellenza, a riordinare i pensieri e a farsi l’icastica domanda: perché?

Icastica lì per lì, visto che, immediatamente dopo l’interrogativo, sopraggiungono una serie di altri quesiti che appartengono alla sfera della sofferenza che a volte si tenta di mascherare come filosofeggiamento e indagine sul conosciuto e sul conoscibile. Stiamo stretti nelle nostre vite, perché lo spazio angusto è dato dal limite di una volta celeste oltre cui c’è l’ignoto, nonostante i telescopi con grande lunghezza focale che penetrano sempre più la inconcepibile distanza tra noi e il resto dell’esistente, nel mistero del mistero e per il mistero stesso.

Ma non è di Camus che, in realtà, qui si vuole scrivere, bensì di Dino Buzzati e di una sua prosa molto più asciutta rispetto a quella dell’autore de “La peste” e di altre celebri opere come – per citarne una che è anche un consiglio di lettura – “La morte felice“. Nei cento e forse più libri che molti siti Internet declamano ed esaltano come opere prime da leggere “almeno una volta nella vita” c’è anche “Il deserto dei Tartari” (Mondadori, 2021) che, ad un primo approccio da studente non ancora liceale, mi diede l’impressione di un romanzo veramente noioso.

Ma, paradosso dei paradossi, i libri che ricordi poi più criticamente, e quindi che ti ritornano anche piacevolmente tra i pensieri, sono quelli che credi di aver detestato o, più propriamente, amato meno, molto meno di altri. Quello di Buzzati rientra fra questi. Lo si può etichettare e definire come meglio si preferisce: alcuni ritengono che sia un cult, altri che sia un classico mediocre della nostra letteratura moderna; altri ancora ne fanno una sorta di unicum come genere: tra l’angoscioso dramma del soldato imprigionato nella sua solitudine temporale e l’attesa del nemico che ne è l’epifenomeno.

Camus, per citarne la citazione riportata con una poco consona parafrasi, esattamente scrive: «Il vero orrore dell’esistenza non è la paura della morte, ma la paura della vita». Come si poneva a sottolineatura, il fatto che ogni nostro attimo è nel possibile, nella concretezza di una materialità delle cose che è oggettivamente prigioniera di ciò che è finisce col non poter non essere perché ad ogni azione corrisponde sempre una reazione: quindi dovremmo anche, in un certo qual modo, saper prevedere il futuro delle nostre attività quotidiane. Sappiamo che domani il futuro del giovane studente sarà la scuola, a meno che non decida di marinarla.

In quest caso si romperebbe la catena del prevedibile e si darebbe adito ad una sorta di nuovo inanellamento di eventi meno prevedibili. Ma se tutti i giorni quel ragazzo facesse sega a scuola, allora non ci sarebbe scampo per il nuovo eterno ritorno degli eventi. Siamo dunque condannati all’abitudinarietà data da una ciclicità che è inesaruribilmente inevitabile? Parrebbe così, perché anche quando si prova a sfuggire al presente, questo è presente a sé stesso di continuo e ci determina così, in quanto esseri autocoscienti che possono esercitare le loro facoltà esclusivamente nel momento in cui vivono.

Il momento precedente è già finito e quello a venire non è ancora. Ma il romanzo di Buzzati è tutto fuorché un libro che ha come unico elemento centrale e dirimente il tempo e i suoi accoliti. Come in Beckett, l’attesa non può non essere vincolata all’elemento cronologico, ad una sequenza degli attimi come una giaculatoria delle aspirazioni personali che non vengono mai soddisfatte. Ma accanto a tutto ciò sussiste e persiste anche l’idiosincrasia rispetto a ciò cui si tende: è un rapporto di passione e dissacrazione della medesima, di amore e di disprezzo più che di odio.

Perché, in fondo, si è legati a ciò che si teme di perdere ma si è forse ancora di più legati, come idea pornografica (intesa come l’eccesso oltre l’eccesso, dell’impossibile che diventa “certum“) del mancato, del non aver mai avuto, del non essere mai stati ciò che si poteva invece essere o avere. Più per sé stessi che per gli altri. Buzzati ne parla con grande lucidità in una confessione che è spontaneità genuina verso quella critica che gli si mostra anche tra le più ostili.

L’idea di fare un romanzo con un ambiente militare quasi inoffensivo, presenza-assenza di una linea di confine non ben tracciata, con dentro il travagliatissimo groviglio di sensazioni che è Giovanni Drogo, nasce «dalla monotona routine redazionale notturna che facevo a quei tempi. Molto spesso avevo l’idea che quel tran tran dovesse andare avanti senza termine e che mi avrebbe consumato così inutilmente la vita». Claudio Lolli tramuta il Godot beckettiano in una ballata che ha un sapore amarissimo che si gusta ogni volta sapendo di non trovare nulla di dolce alla fine del dirupo esistenziale.

Se vi capita di ascoltare l'”Aspettando Godot” appena citato, non sarà difficile stabilire un nesso – certamente poco letterariamente canonico e ortodosso – tra le inquietudini di Buzzati, quelle di Beckett e, non da ultime, quelle di Lolli. La noia che, quando ero poco più di un ragazzo, mi raggiunse nel mentre aprivo “Il deserto dei Tartari“, scomparve pagina dopo pagina: non per curiosità nei confronti di un veloce avvicendamento dei fatti. Tutto il libro è piuttosto anonimo, privo di scatti emozionali, di eccitazione per chissà quale colpo di scena. Forse, l’interesse aumentò proprio per la singolarità del testo.

In quanto a complessità, l'”Ulisse” di Joyce invece mi era sembrato molto più dinamico persino nei flussi di coscienza inseriti nell’eterogeneità di una carrellata di personaggi che dovevano obbedire al formalismo della trama ma che, oh grande bravura dell’autore!, invece vi sfuggivano di qua e di là. In una sola giornata così tante caratterizzazioni particolari, in una intera vita di un soldato alla frontiera invece quasi il niente dell’esistenza parato davanti all’attesa di un nemico che non arriva mai e poi mai.

Nel capolavoro joyceiano c’è «lo stimolo intellettuale, un tonico di prim’ordine per lo spirito»; nel romanzo di Buzzati vi è un altro tipo di stimolazione: quella dell’attività pratica per modificare il corso dell’esistenza. Il presidio della fortezza Bastiani è patriotticamente importante, un “senso di vita“, ma senza un nemico che faccia capolino al di qua del deserto, della pianura che si staglia davanti alle mura, il tutto è niente, ed il senso è un nonsense. Metafora di un’esistenza che, proprio nella ripetizione dell’uguale a sé stesso, dì dopo dì, perde il colore del brio ed anche la scialba contemplazione delle molte sfumature di grigio di sua Maestà la Noia.

Come si usa dire spesso, molto, molto retoricamente e con una punta di fantastica ironia? Che è l’amor di patria che alimenta la coesione nazionale, della comunità, dell’essere uniti. Se gli alieni attaccano la Terra, i terrestri mettono da parte le loro guerre, si riconoscono fratelli (e non più coltelli) e sono pronti a fronteggiare il nuovo nemico. Ma se la minaccia non è di questa fantasiosa portata, allora le guerre, nel nome del profitto e del potere, ce le possiamo fare tra noi, mortificando le potenzialità intellettive dell’autocoscienza e divenendo solo auto(mi) che paiono aver perso la coscienza.

Ed è sacrosantamente laico il principio per cui il deserto tartariano di Buzzati è un libro che non rientra in una letteratura dell'”assurdo“, come invece la tragicommedia di Samuel Beckett vi si situa a pieno titolo. Però, se Godot è l’allegoria del niente che non passa, nemmeno arriva e tanto meno si ferma a soccorrere i due che attendono presso l’albero e ricoperti di stracci, Drogo, invece, è identificabile se non in moltissimi, almeno in parecchi di noi e viceversa. Chi, infatti, non ha mai pensato di vivere in un cortocircuito temporale fatto di parossistici déjà vu che finiscono con l’essere un enorme punto interrogativo?

Su cosa? Sulle certezze che svaniscono davanti alla percezione di una ripetizione che sembra davvero a-temporale, priva persino di uno spazio, perché nel momento dello sdoppiamento dell’esistenza tra il già vissuto e l’uguale identico rivissuto si smarrisce la condizione della presenza rispetto a sé stessi. Ci si perde in una dimensionalità istantanea che, pochi secondi, svanisce ma lascia lo strascico dell’ipersensibile, dell’iperuranico, dell’ultramateriale e ultraterreno.

La lettura del capolavoro di Buzzati potrà al principio anche annoiare un poco, visto che non ha l’incipit potente dell'”Ulisse” di Joyce o la veemenza di altri romanzi tutt’altro che secondari rispetto a quelli citati; ma, poi, ci si renderà conto che vale la pena affrontare quelle pagine, non fosse altro perché può anche non esservi un motivo se non quello di perdersi in una stranezza letteraria, in una intuizione dell’autore che ha voluto condividere con quelli i suoi lettori l’angoscia per una uguaglianza che, in questo frangente, è tutt’altro che utile, benevola e docile.

IL DESERTO DEI TARTARI
DINO BUZZATI
MONDADORI, 2021
€ 8,00

MARCO SFERINI

10 settembre 2025

foto: particolare della copertina del libro


Leggi anche:

Written By

SOTTO LA LENTE

Facebook

TELEGRAM

NAVIGA CON

ARCHIVIO

i più recenti

la biblioteca

Visite: 126 Non meno oggi rispetto ai tempi del regno di Lucio Domizio Enobarbo, altrimenti conosciuto con il nome di Nerone, imperatore romano che...

Marco Sferini

Visite: 236 Festeggia con un cabaret di pasticcini, portandoli in giro per l’aula della Knesset. Itamar Ben-Gvir ha contribuito a far approvare una legge...

Il portico delle idee

Visite: 253 Tommaso scrive nella “Summa teologica” che propria dell’essere umano è una certa “intemperanza” che lo porta ad essere piuttosto simile all’animale: si...

Marco Sferini

Visite: 288 Sarebbe stato un ottimo segnale di compattamento della lotta contro la divisione sociale proclamata dalle pagine della finanziaria 2026 appena presentata dal...