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Il codice dell’anima. Carattere, vocazione, destino

Pensate ad una grande quercia, frondosa, che regala una stupenda ombra in un soleggiato pomeriggio in piena estate. Pensatevi sotto quell’albero maestoso e accogliente. Ecco, tutto questo è possibile grazie ad una piccola ghianda: la sua germinazione produce una realtà vegetale molto più grande di lei che ha un posto nell’esistente diverso da quello di un suo frutto banalmente caduto a terra e lì rimasto in condizioni magari non ottimali per poter, appunto, germogliare.

Eppure in quella ghianda c’è già tutto quello che occorre affinché, insieme al terreno, all’acqua, alla luce solare, si creino le premesse cosicché un giorno al suo pos

Pensate ad una grande quercia, frondosa, che regala una stupenda ombra in un soleggiato pomeriggio in piena estate. Pensatevi sotto quell’albero maestoso e accogliente. Ecco, tutto questo è possibile grazie ad una piccola ghianda: la sua germinazione produce una realtà vegetale molto più grande di lei che ha un posto nell’esistente diverso da quello di un suo frutto banalmente caduto a terra e lì rimasto in condizioni magari non ottimali per poter, appunto, germogliare.

Eppure in quella ghianda c’è già tutto quello che occorre affinché, insieme al terreno, all’acqua, alla luce solare, si creino le premesse cosicché un giorno al suo posto nasca una bella, ombrosa quercia. La domanda è: come è possibile che nel piccolo frutto si trovi tutto questo? Perché l’evoluzione naturale segue uno sviluppo che possiamo definire come “dato“? E poi, perché è “dato“? Cosa determina queste trasformazioni uguali per gli stessi frutti? Esiste una predestinazione di qualunque sorta?

Oppure è tutto frutto di tanti casi che si concretizzano nell’incontro altrettanto casuale degli elementi fondamentali di una materia che si è, a sua volta, complicata e arricchita di tantissimi altri parti che hanno dato alla luce nuove esperienze vitali partendo da quelli che sono gli elementi primordiali dell’Universo? Abbiamo affrontato queste domande molte volte e, come sappiamo, non è possibile giungere ad una risposta compiuta, certa e risolutrice. Ma, dall’osservazione della Natura, possiamo però dire che, quelle che chiamiamo “leggi“, ossia i comportamenti della trasformazione materiale dell’esistente, sono esse stesse insite nel processo di modificazione dell’essere.

Siccome noi siamo parte di questa essenza piuttosto complicata, tanto che nemmeno con la nostra autocoscienza riusciamo a comprenderla fino in fondo, è logico pensare che ci attendiamo delle risposte da un una universalità cosmica che, tuttavia, non ce le darà mai. Per quanto si possa ritenere l’esistente una sorta di unità vivente, noi animali umani che ne siamo certamente una delle esperienze più particolari e, anzi, uniche in quello che è il conoscibile intorno a noi e fuori dall’atmosfera di questo piccolo pianeta che stiamo devastando e distruggendo, rappresentiamo il punto di complessità maggiore.

Se reputiamo la coscienza dell’autocoscienza come un qualcosa di straordinariamente unico, il “sapere di essere” e il poter indagare questa essenza, non possiamo non convenire, molto umanamente, che tra tutte le condizioni che l’esistente ha sviluppato, inanimate o animate che siano, noi siamo quella che si pone innanzi a sé medesima, mediante il confronto con l’altro da sé stessa e con l’interezza dell’universo-mondo, e stabilisce di comprendere che tipo di rapporto vi sia tra la vita consapevole e la vita inconsapevole, tra noi e il resto rispetto a noi.

Non può, a questo punto, l’animale umano non incespicare, incappare e anche perdersi e disperdersi nell’ancestralità come elemento quasi costituente dell’essenza più interiore che ci riguarda. Possiamo definirlo in tanti modi: istinto, perspicacia, anima, genialità (nel senso latino del termine), demone (nel senso socratico del termine), ma qualcosa interiormente ci dice che le nostre riflessioni non sono soltanto il frutto del raziocinio e della mente sveglia e attenta a ciò che ci circonda. Le nostra azioni, le nostre scelte sono frutto di una volontà che crediamo buona e nostra in tutto e per tutto, ma nemmeno noi ci apparteniamo completamente.

James Hillman ce lo dice con grande, stupefacente chiarezza in un testo tuttavia non facile da affrontare: “Il codice dell’anima. Carattere, vocazione, destino» (Adelphi, 2009). La nostra appartenenza a questo mondo, la nostra esistenza è compenetrata da quella che lui tratteggia come una sorta di “controfigura magica”, appartenente ad una ultraterrenità demiurgica, ad un mondo delle idee che si realizzano nel qui ed ora proprio quando noi nasciamo e siamo già ospiti di questo processo di realizzazione di una particolarità tutta singolare che, se non riesce a farsi strada in noi naturalmente, proprio istintivamente, ci manda dei segnali inequivocabili di “disagio“.

Per Hillman, infatti, ogni volta che stiamo psicosomaticamente male, lì è da ricercare non tanto il motivo sul vecchio modello freudiano di indagine delle ragioni infantili delle nevrosi adulte, quanto la nostra distanza, la nostra differenza tra ciò che ci siamo imposti di essere rispetto a ciò che realmente avremmo dovuto essere. Di scuola junghiana, Hillman riprende proprio dal secondo grande padre della psicoanalisi l’archetipicità delle emozioni, dei sentimenti, dei rapporti che, via via, si vanno stabilendo nel corso della nostra esistenza e che, sovente, sono inquinati da tutta una serie di precondizioni e di obblighi che soffocano la primordialità della nostra vera essenza.

Le convenzioni sociali, fatte di moralità finta e di tanto moralismo, di costrutti religiosi, di tradizioni non evitabili se non con grandi sensi di colpa, costituiscono altro da un vero rapporto con ciò che più ci riguarda fin dentro la penombra nostra, là dove risiede il mistero anche della ghianda che fa la quercia. Noi abbiamo la nostra ghianda interiore che si sviluppa piano piano, ma costantemente e ci fa essere ogni giorno ciò che siamo: ma nel momento in cui dall’assenza del dovere e dal puro desiderio di soddisfare il desiderio medesimo, passiamo all’obbedienza dell’uomo “normale” stigmatizzato anche da Nietzsche, ecco che in quel momento ci mortifichiamo e prepariamo il terreno del disagio.

Il daimon hillmiano è molto simile a quello socratico, perché è una acquisizione autoconoscitiva consapevole che esiste un certo rapporto tra la finitudine animalmente umana e l’infinitudine di un esistente che si perde nel Grande Mistero dell’Universo. Questa relazione, che Socrate esprime proprio nello “spiritello” che sosteneva esistesse in noi come voce emergente dell’in-coscienza preservata nella non-consapevolezza diurna dei veri desideri che ci realizzano e ci portano alla nostra unicità espressa di giorno in giorno, la si ritrova in Hillman che la riporta in auge come elemento fondante per comprendere la vera particolarità dell’esistenza: l’unicità di ognuna e di ognuno. La potremmo altrimenti definire una sorta di “vocazione innata” che la complessità dei rapporti con i nostri simili e con il non senso dell’esistenza mette da parte, occultandola a dovere.

Hillman a questo proposito fa tanti esempi di vite che hanno realizzato la loro unicità e che sono divenute delle sorte di archetipi attuali e presenti, non affidati soltanto alla mera interpretazione quasi ideologica di un passato fin troppo remoto: poteva Ghandi non essere Ghandi? C’è in tutte e tutti noi, l’immagine interiore di ciò che siamo che si mostra nei tratti del viso, nelle fattezze ed anche nei comportamenti. Tuttavia, rovesciando molta parte dell’interpretazione materialistica otto-novecentesca, lo psicoanalista architipizzante pone le condizioni esterne su un piano inferiore rispetto ad una specie di “predestinazione” di nascita che è la principale responsabile (sia detto senza alcun moralismo di sorta) di ciò che diventiamo giorno dopo giorno.

Il paradigma degli influssi generazionali è condiviso solo come luogo dell’ispirazione da parte del daimon nei nostri confronti. Niente di più, niente di meno. La vocazione innata, quindi, è insita in noi e prescinde dal contesto in cui cresciamo che, invece, sovente la comprime, la reprime, tenta di ingabbiarla e settorializzarla, suscitando così l’emersione dei tanti disagi psicologici e psicosomatici in cui possiamo incappare durante la nostra crescita e il nostro sviluppo più maturo. Scrive Hillman che «c’è necessità, bisogno di uno sguardo nuovo per ripristinare il senso e l’importanza delle propria esistenza».

Anche qui, pur prescindendo da una esclusivistica valorialità di tipo meramente etico, si pone comunque l’accento sulla naturale propensione a fare di sé stessi qualcosa di veramente unico, riconoscendosi in quanto irripetibili come espressione compiuta della materia che non è soltanto riducibile alla materialità medesima ma che, in sé, oggettivamente contiene la vita del microorganismo unicellulare così come la straordinaria complessità di cui siamo protagonisti da migliaia e migliaia di anni. Il testo di Hillman non sfugge, non scappa, non si nasconde dalle contraddizioni che possono essergli rivolte riguardo proprio il carattere unico dell’animale umano che può anche riscontrare in sé una vocazione innata tutt’altro che buona.

L’esempio più novecentescamente probabile e intuibile è quello dato dalla tipizzazione raggiunta dalla figura di Adolf Hitler. Viene qui a galla il problema del daimon e del male che paiono convivere e quindi la domanda logica è: può la predestinazione archetipa e ancestrale essere malvagia? E se la risposta fosse affermativa, come si può prevenire o limitare questa eventualità, così da non impedire la piena realizzazione del vero che c’è in noi, del desiderio cui aspiriamo e che ci ispira in un contesto che è necessariamente armonico e non olocaustico? La risposta di Hillman non convince molto, ma merita, proprio per questo, una attenzione ancora maggiore sul piano critico.

Hitler sarebbe stato indotto al male da una sorta di passività nei confronti della ghianda malvagia che lo riguardava e non si sarebbe opposto a questo suo essere tale, a questa sua istintiva predestinazione interiore. Non avrebbe, quindi, fatto nulla per evitare di divenire quell’Hitler che abbiamo conosciuto come dittatore totalitario, sterminatore insieme alla sua cricca di criminali di milioni e milioni di ebrei, di oppositori politici, di omosessuali, apolidi, portatori di handicap, rom, sinti, Testimoni di Geova…

Hillman legge nel comportamento hitleriano la riduzione in piccolo di ciò che è accaduto, sull’onda di un inconscio collettivo richiamato dalla sua parte junghiana, all’intero popolo tedesco, a sua volta incapace di frenare l’impulso contro una minoranza piuttosto che un’altra, scendendo nell’abisso di politiche autoritarie e repressive all’ennesima potenza, realizzando quella parte di natura umana nascosta, quella controparte ombrosa che è l’altro rispetto al bene che pensiamo ci domini e che vogliamo rettamente interpretare.

Non è facile leggere Hillman da marxisti, per chi ovviamente lo è o si considera tale, ma è una sfida ancora più entusiasmante, proprio perché si deve continuamente mettersi in discussione per evitare di pensarsi come qualcosa di irrimediabilmente logico, geometricamente dato e quasi immutabile. Noi siamo in continuo divenire, in continuo mutamento: così come cambia la nostra epidermide, come cadono i nostri capelli, i nostri peli, sostituiti da altri , così cambia la nostra genialità interiore, il nostro daimon che ci indirizza là dove non è dato sapere, ma dove sentiamo, in fin dei conti, di essere a nostro agio.

Senza un perché, semplicemente e solo semplicemente così…

IL CODICE DELL’ANIMA
CARATTERE, VOCAZIONE, DESTINO
JAMES HILLMAN
ADELPHI, 2009
€ 14,00

MARCO SFERINI

1° ottobre 2025

foto: particolare della copertina del libro


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